OPINIONI
Ddl Zan, il potere di Fedez e l’assenza dei movimenti. «Da qui, messere, si domina la valle»
Che l’omolesbobitransfobia, in Italia, sia non solo strutturale, ma particolarmente acuta trasversalmente a destra e sinistra, si sta palesando in questi giorni di dibattito a ridosso della calendarizzazione in Senato della legge Zan. L’estrema destra continua le proprie manovre a pieno regime, ma se la risposta è flebile c’è un grave problema di cultura politica e di strategia in tutti i settori della sinistra, compresi l’associazionismo e il movimento LGBTQIA+
Andiamo per piani.
Piano terra. Sì, Fedez può “permettersi” di fare l’elenco dei leghisti stronzi e di esporsi a favore del Ddl Zan. È per questo che chi lavora ai piani alti del mondo dello spettacolo – sul fronte performativo – viene considerato “figura pubblica”. Tolto questo, saliamo le scale.
Piano ammezzato. Non solo i soldi e la visibilità, ma anche il contesto glielo permettono. Rubo la considerazione da un’amica di social network: il vituperato Concertone è uno spazio, di fatto, dei sindacati confederali, cioè delle più grosse organizzazioni di classe esistenti, che ci piaccia o no.
Ovvero: che svolgano il loro lavoro o meno, che siano conniventi col capitalismo o meno. Mentre infatti il rapporto della classe lavoratrice col Pd non è necessario, quello coi sindacati lo è (non è necessario essere “proletariato” per votare Pd, lo è per essere iscritto al sindacato). Questo produce uno spazio di autonomia e di discorso, sempre. Per i limiti dei sindacati confederali, prendiamo l’ascensore.
(immagine da commons.wikimedia.org)
Piano primo. Naturalmente, la faccenda era un po’ più complessa. Sponsorizzazioni Eni da un lato e finanziamento Rai dall’altro: l’autonomia si paga, ed è un problema. Ed è l’ennesima cartina al tornasole – certo anche un po’ vecchia di decenni – che i sindacati confederali non fanno il loro lavoro. Se non fanno il loro lavoro, ci tocca riprenderceli o surclassarli. Saliamo ancora.
Piano secondo. Non è nemmeno scontato che questa autonomia sia aperta a chiunque.
Abbiamo le bacheche Facebook piene di persone che fanno attivismo da decenni a sinistra, in partiti comunisti o in collettivi, persino in associazioni umanitarie, che continuano a tessere la disconnessione tra diritti civili e diritti sociali, che la sinistra dovrebbe trovare il modo, invece, di dissipare.
È casuale? Andiamo al terzo piano.
Piano terzo. No, no è casuale. Ho il sospetto che non aiuti affatto l’omolesbobitransfobia che a sinistra continua a serpeggiare anche dietro le più serie buone intenzioni. I post che continuano a sostenere che è bene difendere i diritti civili ma senza dimenticarsi di quelli sociali – e l’uso reiterato di queste categorie completamente vuote (perché nessuno sa cosa c’è dentro, davvero) – sono immancabilmente applauditi da battute su culi e cazzi cui gli autori (soprattutto uomini, ma l’omofobia femminile è ben rappresentata anche a sinistra) danno grandi gomitate di approvazione. Saliamo ancora.
(immagine da commons.wikimedia.org)
Piano quarto. Ci stupisce, dunque, l’uscita di Pio e Amedeo, i due comici che, in una trasmissione invece di Mediaset, con la scusa del “non si può più scherzare su nulla” hanno inanellato una serie di battute razziste e omofobe?
Per niente: e prima o poi andrebbe affrontato un aspetto delle lotte per la liberazione sessuale negli anni Sessanta e Settanta, troppo spesso – secondo la felice definizione di un mio ex compagno di collettivo – un “parco giochi per maschi”. Non è solo una cultura di destra, è ben rappresentata a sinistra. Schiacciate il pulsante.
Piano quinto. C’è però un movimento d’opinione piuttosto forte ormai che fa da argine anche in questo paese completamente retrogrado. Ha purtroppo molte caratteristiche delle punte più superficiali dei processi di ripensamento del genere, della razzializzazione e dell’orientamento sessuale nei paesi anglosassoni: e spesso non ha più gittata di espressioni vacue come “love is love” o “trans women are women”. Persino Nichi Vendola – quando qualche anno fa diceva “mi voglio sposare” – aveva una maggiore efficacia discorsiva. Nichi Vendola, quello delle “narrazioni”. Mica Lenin. Piano superiore.
Piano sesto. Questo movimento d’opinione è espressione di un’esigenza diffusa: la violenza orizzontale scatenata dalla crisi del 2007-10 e dalle sue conseguenze sociali ha colpito moltissimo le minoranze – anche perché uno degli effetti è la compressione del tempo della riproduzione.
Ma va fatta una domanda: perché non si organizza? Andiamo su.
Piano settimo. Avete notato che nessuno sta parlando di cosa è rimasto del Ddl Zan? Bene, sappiate che nel silenzio delle organizzazioni Lgbtqia+ – tutte, dall’associazionismo ai collettivi anarchici – le destre, col beneplacito di un nucleo molto piccolo di femministe della differenza, hanno già raggiunto il loro risultato: il salva idee è stato introdotto e i fondi destinati al progetto di centri antiviolenza Lgbtqia+ stanziati fuori dal disegno di legge. Questo ha permesso di metterli a bando e, da parte delle associazioni che vinceranno i bandi, di utilizzarli. Ma l’ipotesi vaga di un progetto organico di centri antiviolenza Lgbtqia+ è ormai caduta. Game, set, match. Prendiamo la scala antincendio.
(foto: Lisa Capasso)
Sottotetto. La campagna per la legge Zan era partita con Dà voce al rispetto, un battage mediatico condotto da varie singole persone che facevano di fatto da intermediazione tra i parlamentari e l’associazionismo.
Limitarsi a scrivere questa cosa nella chat nazionale che sta organizzando le manifestazioni per spingere il Ddl Zan in Senato ha scatenato un putiferio. Strano, perché io non ci vedo niente di male.
Ci vedo di male invece nel fatto che l’iter di dibattito di questa legge sia stato esattamente lo stesso delle Unioni Civili: conta più la convergenza parlamentare tra tutte le parti politiche che l’intervento attivo dei soggetti che questa legge dovrebbe tutelare. Altri due gradini, attenzione a non cadere.
Tetto condominiale. L’associazionismo non c’era, il movimento non c’era. Non c’era a luglio, quando prima ancora che il disegno di legge venisse portato alla Camera c’era la possibilità di scendere in piazza e dire #moltopiùdizan – allora, non adesso – in un momento di basso tasso di contagi, per dire che 4 milioni per una rete di centri antiviolenza per tutto il territorio nazionale non bastano, specialmente se era previsto che venissero stanziati nello stesso fondo per i Cav femminili (in cui lavorano, in buona parte… femministe della differenza.
Che giustamente non vogliono rischiare ulteriori tagli). Non c’era nei mesi successivi quando c’era da parlare dei centri antiviolenza.
Non ne ha mai parlato in effetti, e la discussione sulla legge è stata sempre vacua – al punto che persino molt_ intellettuali e influencer meno legati all’associazionismo e più legati al movimento d’opinione queer hanno continuato a parlare di una legge carceraria (stiamo parlando di un’estensione della legge Mancino, la legge più blanda che esista) o addirittura che manca una legge contro le discriminazioni per genere e orientamento sessuale sul lavoro (provate a cercare su Google “decreto legislativo 216/2003”).
(immagine da commons.wikimedia.org)
E adesso si litiga sul decidere se fare – in ritardo di un anno – una manifestazione unitaria a Roma o manifestazioni disperse nei territori.
Perché chiedere di più non si può, ormai, e prima era troppo presto, e avrebbe richiesto di derogare ai meccanismi ben oliati. Due anni fa mi venne detto – dopo tre anni che collaboravo col Palermo Pride – che non capivo la macchina organizzativa di un coordinamento Pride (che non era, evidentemente, quello di Palermo). Sono macchine complesse, e delicate, certamente. Forse un po’ troppo, e andrebbero ripensate.
«Da qui, messere, si domina la valle»: l’omofobia strutturale di questo paese, quella serpeggiante, quella interiorizzata, l’incapacità di farla diventare una questione materialistica e forse alcuni difetti strutturali della politica italiana che vanno molto al di là della politica Lgbtqia+, sono tutti qui. Si estendono a perdita d’occhio…
Immagine di copertina di Lisa Capasso