ITALIA

Eni, l’impunità dello stato parallelo

Rivelazioni inquietanti colpiscono l’azienda petrolifera italiana, maggiore inquinatore del nostro paese, mentre la stessa viene assolta dal Tribunale di Milano dall’accusa di aver pagato “la tangente del secolo”

Lo Stato parallelo è il titolo di un libro del 2016 scritto da due giornalisti investigativi, Andrea Greco e Giuseppe Oddi, che ripercorre le vicende politiche dell’azienda multinazionale petrolifera più potente d’Italia fin dalla sua fondazione. Il libro rivela le profonde connessioni tra lo stato italiano e l’azienda di San Donato Milanese, dai tempi di Mattei fino a quelli di Renzi.

Tre fatti accaduti nell’ultimo mese confermano questa lettura e queste connessioni profonde, alcune evidenti altre nascoste. Non solo la gravità di quanto emerso ma anche la reazione dei media mainstream e della politica in totale sostegno aprioristico all’azienda confermano l’intuizione dei due giornalisti.

L’Ong italiana Re:common ha rivelato le connessioni tra la Farnesina ed Eni, mentre l’inglese Global Witness ha dimostrato il ruolo di lobbista a favore dei combustibili fossili esercitato dall’ azienda al parlamento europeo. Con l’eccezione di “Domani” e de “Il Fatto Quotidiano”, nessun media italiano ha ripreso questi due dossier. Infine il tribunale di Milano ha assolto in primo grado i vertici della azienda dall’accusa di aver pagato una tangente di 1.1 miliardi di dollari per ottenere il pozzo petrolifero OPL245 in Nigeria. Abbiamo discusso di questi fatti con Alessandro Runci, campaigner di Re:common.

 

Due settimane fa, avete prodotto un dossier che rivela un fatto grave e per molti versi clamoroso, esiste un protocollo di intesa tra Eni e Farnesina per scambiare reciprocamente dipendenti in ruoli chiave, nella procedura del “distaccamento” o secondment come si dice in inglese. Partiamo però dall’inizio, come siete riusciti a scoprirlo?

Il primo indizio lo abbiamo trovato tra le agende degli incontri del Ministero dell’ambiente con i portatori d’interesse (ovvero con le lobby). Tra questi risultava un invito, da parte del Ministero degli affari esteri, a partecipare a una riunione della cosiddetta Cabina di regia “Ambiente-Clima”, ma tra i partecipanti risultavano Eni e le altre principali compagnie fossili italiane.

A quel punto abbiamo presentato una richiesta di accesso civico (Foia) alla Farnesina, tramite cui siamo riusciti ad ottenere parte della documentazione relativa a questa e a un’altra Cabina di regia, che ci ha poi permesso di scoprire che un dipendente Eni figurava come funzionario del Ministero degli affari esteri. Il passo successivo è stato presentare una seconda Foia, dalla quale è emersa l’esistenza di questo incredibile protocollo, rimasto segreto per 13 anni.

 

Il vostro dossier rivela, un legame che era noto a molt*, ricordiamo pure i tanti politici che sono passati “pubblicamente” dalla Farnesina all’azienda di San Donato Milanese in un gioco di porte girevoli, da ultimo forse Lapo Pistelli. Qui però non si tratta di “salti di carriera” ma di veri e propri posizionamenti in luoghi chiave del ministero di persone che nel frattempo rimangono a tutti gli effetti dipendenti di Eni, con doppia casella di posta elettronica, cosa dimostra e cosa implica questo?

Le porte girevoli sono diventate una consuetudine (Eni è tradizionalmente una meta molto ambita per ex-funzionari pubblici) e questo crea una serie di conflitti di interessi estremamente pericolosi. Ad esempio, il funzionario di un ente regolatore potrebbe trovarsi nella posizione di decidere se sanzionare o meno un’azienda che a breve diventerà il suo datore di lavoro.

Ancor più grave, secondo me, è che il bagaglio di contatti, relazioni e informazioni privilegiate accumulate nel corso dell’esercizio di una funzione pubblica vengano poi messe a disposizione di una società privata. Questo è ciò che mi spaventa di più riguardo il caso Minniti, per citare il più recente.

 

Foto di Luca Mascaro da Flickr

 

Qui però parliamo di qualcosa di diverso, ovvero di un accordo, tenuto segreto all’opinione pubblica per oltre un decennio, che consente a una multinazionale di insidiarsi stabilmente all’interno di uno dei ministeri chiave dello stato. Un ministero dentro cui si stabilisce la postura del nostro paese nei confronti di regimi e dittatori, con i quali quella stessa società fa affari miliardari (vedi il caso dell’Egitto di Al-Sisi).

La presenza di un’azienda, il cui capitale è detenuto per due-terzi da investitori stranieri, dentro la Farnesina ha delle implicazioni (anti)democratiche gravissime. Il fatto che tale presenza sia allo stesso tempo “sistematica” e taciuta alla collettività la rende ancora più inaccettabile.

Pertanto ci troviamo davanti a un’ulteriore conferma del radicamento di Eni nello stato italiano, del suo potere e della sua capacità di influenzare le politiche pubbliche ed ostacolare i processi di cambiamento. Porre fine alla commistione Eni-Stato è un passo fondamentale verso una transizione reale e dal basso.

 

Tra gli “uomini di Eni” alla Farnesina voi individuate due persone in particolare per il ruolo che hanno avuto, dal 2008 a oggi, Ceccarini e Tombolini; vuoi raccontarci perché il loro ruolo è particolarmente significativo rispetto ad aree geografiche particolari?

Il Protocollo in questione viene siglato in un momento storico particolare, poco dopo l’insediamento del IV governo Berlusconi, che da subito si serve dell’azione diplomatica come strumento prettamente economico e affaristico. L’obiettivo primario di Berlusconi, in ambito di relazioni internazionali, è rinsaldare i rapporti dell’Italia con la Russia del suo amico Putin. A fronte di questo, il fatto che il primo uomo di Eni ad essere inviato alla Farnesina sia Giuseppe Ceccarini, ovvero il responsabile Eni per i rapporti con la Russia, assume un significato e un valore particolare.

Ceccarini rimane al ministero per ben otto anni (altro che “distacchi” temporanei), per essere poi rimpiazzato nel 2017 da Alfredo Tombolini. Tombolini, che ha un’esperienza trentennale nel settore petrolifero, si insedia presso la Direzione Generale per la Mondializzazione e, tra le sue funzioni, c’è quella di promuovere investimenti italiani all’estero nel settore energetico.

Il suo arrivo alla Farnesina coincide con la fase finale di un’istruttoria per il rilascio di una garanzia in favore di un grosso investimento in Mozambico, dove Eni è capofila in due mega progetti di gas. Garanzia che è stata poi approvata solo qualche mese dopo.

 

Cosa si desume dalla lettera di risposta dalla Farnesina pubblicata sul “Fatto Quotidiano”?

Il Ministero ha replicato sostenendo che questo Protocollo serve «a dare forma al concetto di Sistema-Paese», cioè a quella visione che assimila gli interessi di alcune grandi imprese a quello della collettività. Sappiamo quanto questa narrazione sia difficile da scardinare, ma presenta anche delle vulnerabilità.

Pensiamo al caso McKinsey e al clamore suscitato dal fatto che una società di consulenza americana sia coinvolta nella stesura del Piano di ripresa italiano. La difficoltà sta nell’esporre le contraddizioni che sussistono anche nella relazione Eni-Stato e come l’azienda petrolifera risponda in ultima istanza agli interessi dei propri investitori, che non sono così diversi da quelli per conto di cui agisce McKinsey.

 

A distanza di due settimane, l’Ong inglese Global Witness ha rivelato un altro elemento per molti versi collegato a quanto avete scoperto, cioè il ruolo di Eni all’interno della lobby del fossile al Parlamento Europeo, ce lo puoi raccontare?

Il rapporto di Global Witness ha rivelato come Eni abbia incontrato funzionari della Commissione Europea per ben 50 volte dal 2014 a oggi, e fatto pressione per promuovere il gas come fonte di energia pulita. Secondo le analisi di Rystad, Eni ha in programma di investire circa 36 miliardi di euro nel gas fossile nei prossimi 10 anni.

L’influenza di Eni a livello europeo, oltre che nazionale, è resa ancora più evidente dal fatto che un membro del suo consiglio d’amministrazione, Nathalie Tocci, sia stata nominata dalla Commissione come Consigliere Speciale di Joseph Borrell, il capo della diplomazia europea. Una nomina per altro caratterizzata da serie irregolarità, come il fatto che Borrell non avesse informato la Commissione della posizione ricoperta da Tocci in Eni. Una violazione palese del regolamento europeo.

 

Se la politica estera italiana è eterodiretta da Eni, vuol dire che continuerà a promuovere l’estrazione di combustibili fossili nel mondo e che quindi sono vani oltre che ipocriti gli impegni per una conversione energetica nella nostra penisola se all’estero il nostro ministero fomenta l’industria del fossile. Si può dire quindi che in termini di squilibri postcoloniali e debiti ecologici tra nord e sud globale del mondo, il protocollo di intesa con la Farnesina è criticabile?

Un caso emblematico è quello del Mozambico, che a seguito delle scoperte di gas realizzate da Eni tra il 2010 e il 2014 è stato letteralmente invaso dalle compagnie fossili di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Portogallo. Oggi, la regione dove si è insediata l’industria (Capo Delgado, nord del paese) è piegata da un conflitto che finora ha causato oltre 2.500 morti e mezzo milione di sfollati.

 

Foto da Flickr

 

L’Italia ha sostenuto i progetti di Eni nel paese con miliardi di euro tramite Sace, l’agenzia di Cassa Depositi e Prestiti. «Dalla pace all’Eni», affermava l’ex vice-ministro degli Esteri, Mario Giro, durante una visita a Maputo di pochi anni fa.

L’industria fossile ha sempre bisogno di nuove frontiere da cui estrarre valore e si serve anche degli apparati diplomatici tradizionali per entrare nei paesi chiave. Gli stati la chiamano “diplomazia economica”, ma la logica è quella di imporre un determinato modello e la finalità prendere possesso delle risorse; tratti prettamente neo-coloniali.

 

Mercoledì 17 marzo c’è stata la sentenza di primo grado ai vertici Eni per il processo #opl245. Il giudice non ha voluto considerare prove, anni di indagini, testimonianze. Cosa apprendere da questa sentenza e come guardare al futuro?

Dopo quelli Finmeccanica India e Saipem Algeria, questo è il terzo caso di assoluzione dal reato di corruzione internazionale in Italia, il che segnala a nostro avviso l’inadeguatezza dell’impianto giuridico anti-corruzione.

Aspettiamo naturalmente di leggere le motivazioni dei giudici. Anche a livello giudiziario però la vicenda non è ancora conclusa: probabilmente ci sarà un appello, c’è un processo in corso in Nigeria e un procedimento aperto in Olanda contro Shell. Al di là degli esiti processuali, rimangono gli elementi politici che sono emersi da questa vicenda.

Dal coinvolgimento dei servizi segreti di diversi paesi, alla capacità di influenzare le decisioni degli stati e quindi i processi democratici. Ne viene fuori uno spaccato di come operano le major petrolifere.

Questi elementi potrebbero generare un’ulteriore vulnerabilità per un settore la cui legittimità è già stata messa in discussione dai movimenti per la giustizia climatica e credo sia importante includerli nell’agenda politica dei prossimi mesi.

 

 

Foto di copertina di J. B. Dodane da Flickr