PRECARIETÀ
Nuovi schiavi
In Puglia tre morti in pochi giorni. Una regione in cui il caporalato e il lavoro uccidono, e chi prova a denunciarlo si scontra con un muro di omertà
Li vedo arrivare. Sono i morti. I caduti di tutte le guerre dei campi. I morti per la fatica e le sofferenze patite. I morti di tutte le lotte, utili e inutili, di questa terra. I morti che nessun libro di storia, nessun articolo di giornale ha mai menzionato. Coloro che nessuno ricorda. Vengono dal loro ade rupestre, dalle loro cantine, dai loro casolari. Vengono dalle pianure rosolate e dalle brulle colline. Scavalcano i muretti a secco, impugnano le falci, si abbeverano alle gamelle. Succhiano pomodori o acini di uva per farsi forza. (Leogrande A., Uomini e caporali, Mondadori, Milano, 2008).
Mahamat, sudanese, 47 anni. Paola, 49 anni, di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto. Un altro bracciante tunisino, di 52 anni, Zakaria Ben Hassine, deceduti soltanto pochi giorni fa. Ad accomunare le loro vite c’è la morte sotto il caldo cocente, nei campi di lavoro della Puglia, rispettivamente a Nardo, Andria e a Polignano a Mare. I loro cuori non hanno retto alla fatica, i loro corpi non hanno retto allo sfruttamento a cui sono stati sottoposti. A ricordare quale sia la condizione dei braccianti nelle campagne pugliesi, nei giorni scorsi, è stato Ivan Sagnet (neanche in Africa ho mai visto gente vivere e lavorare in tali condizioni) camerunense, che nel 2011 guidò la rivolta dei contadini africani a Nardò e che oggi lavora a Foggia, dirigendo il dipartimento immigrazione della Flai ( federazione lavoratori agricoli) Cgil Puglia. “Si lavora a cottimo, più lavori e più vieni pagato. Si percepiscono poco più di 3 euro per ogni cassone riempito del peso di circa 3 quintali“, ha spiegato. Naturale che con questo sistema ognuno tenti di riempire quanti più cassoni possibili, così come è naturale che il cuore di qualcuno non regga e ceda di schianto. È il caporalato che ha provocato i loro decessi, non c’è dubbio. Un sistema tenuto in vita dall’arretratezza culturale ed economica dell’agricoltura pugliese. Per caporale si intende “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”. Una realtà che è al limite della schiavitù. A nulla (o quasi) sono serviti alcuni provvedimenti legislativi. Nel 2006, e poi nel 2011, la Regione Puglia guidata da Nichi Vendola ha varato alcune leggi regionali fissando un principio in base al quale possono attingere a fondi o finanziamenti comunitari, nazionali o regionali solo gli imprenditori agricoli che dimostrano di applicare i contratti collettivi del settore stipulati con le organizzazioni sindacali. Ma gli escamotage trovati per aggirare le leggi non sono di certo mancati e così la situazione nelle campagne pugliesi è rimasta sostanzialmente identica, se non addirittura peggiorata. Lo si comprende ascoltando alcune storie di vita dei braccianti. Come quella di Maria, 50 anni (nome di fantasia) ex collega di Paola, che racconta:
“dopo vent’anni di bracciantato ho scelto di non lavorare più in quel modo, ovvero con i caporali, perché ho temuto che mi potesse succedere ciò che è accaduto alla mia ex amica e collega. Di morire per la fatica. Succede addirittura in molte campagne che mentre noi donne raccogliamo la frutta, l’uva specialmente, gli uomini contemporaneamente siano addetti a spargere i “prodotti al vetriolo”( fungicidi, erbicidi) in campagne. Il loro uso ( dei fitofarmaci) negli anni è aumentato. Pure i loro effetti. Un giorno in tante ci siamo sentite male e abbiamo protestato. È stato allora che ho deciso che non avrei più lavorato con questo sistema. Si rischia la salute, una parte consistente di quella che dovrebbe essere la nostra paga è trattenuta dai caporali, a volte non vengono neppure versati i contributi all’Inps. Così ho dovuto pagare anche delle multe salate. Mi sono chiesta chi me lo facesse fare. Oggi lavoro per un’ azienda agricola che rispetta (più o meno) il nostro contratto in termini di ore e di salario. E soprattutto non devo più espormi ai ricatti dei caporali. Purtroppo a noi tutte manca il coraggio di ribellarci. È questa la verità. La storia, in fondo, è quella di molti altri lavori, si rischia la vita per poter guadagnare. All’Ilva, non è poi così?“
Si sente impotente, Maria, di fronte alla morte di una collega. La stessa impotenza hanno provato alcune contadine che erano con Paola la mattina del 13 Luglio scorso e che l’hanno immediatamente soccorsa, offrendole acqua e caffè, Quello stesso giorno giunse la sua morte, archiviata come naturale dal pm di turno. Nessuno, né la famiglia, né le colleghe di lavoro hanno cercato di comprendere, capire, vederci chiaro. Nessuno ha parlato. E allora questa vicenda non rievoca soltanto un certo mutismo del mondo contadino ma anche alcune dinamiche di vita ancora presenti in una parte della società meridionale. Spiace davvero doverlo sottolineare ma quella di Paola è anche una storia di omertà. Innanzitutto, perché nessuna istituzione locale si è esposta. Anche se la voce della sua strana morte circolava da giorni si è preferito tacere, dunque. Fino a quando a squarciare il velo di paura, ricatti e in parte anche ignoranza, è stata la Flai Cgil. È il segretario regionale della Puglia, Giuseppe De – Leonardis a dare la notizia, il 3 Agosto. Così ci spiega le condizioni in cui vivono molte donne, soprattutto italiane, nella Puglia dei caporali:
“Paola si alzava alle 2 di notte a San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, arrivava sui campi di Andria alle 5, rientrando a casa nel pomeriggio, dopo circa cinque ore di viaggio fra andata e ritorno. Era stata assunta dall’agenzia interinale Infogroup e lavorava per l’azienda Ortofrutta Meridionale che ha un fatturato annuo di 12 milioni di euro. Tuttavia, nonostante la presenza dell’agenzia stiamo riscontrando incongruenze contrattuali, su orari, inquadramento e la presenza di forme d’intermediazione illecita. Sappiamo soltanto che andava a lavoro con una squadra di braccianti portate dalla ditta di autobus di viaggi. Sappiamo sol, per il momento, che lunedì 13 luglio Paola è uscita da casa sulle sue gambe, come tutte le notti, per andare a lavoro ed è tornata in una cassa da morto. Il suo cuore non ha retto alla fatica dell’acinellatura, tra i lavori pagati meno in agricoltura: 27-30 euro a giornata, nonostante i contratti regionali del settore stabiliscano un salario di 52. È una lavorazione faticosa che consiste nello stare in piedi all’interno dei tendoni a diradare gli acini per rendere più belli i grappoli di uva da tavola, scartando i chicchi piccoli che impediscono agli altri di crescere.“
Oltre alle condizioni di lavoro, la Flai Cgil ha denunciato numerose incongruenze nella dinamica della morte della donna, tanto che la Procura di Bari ora ha aperto un’inchiesta. Come spiega ancora De Leonardis: “il carro funebre l’ha portata direttamente dal campo di lavoro alla cella frigorifera del cimitero di Andria. È stata sepolta senza autopsia e con il nullaosta “telefonico” dato dal magistrato di turno. Perché il parere del medico legale è che si è trattato di una morte naturale”. La morte di un bracciante considerata come un accadimento naturale, alla stregua della grandine d’estate. Come nella Puglia del secolo scorso, quando era tale il grado di sfruttamento che la vita di chi lavorava la terra sotto il controllo dei caporali appariva poco importante. Mentre ci accorgiamo oggi che il caporalato continua a infestare le nostre campagne e che i braccianti continuano a morire, le loro vite appaiono in qualche modo meno umane. Le loro morti per sfruttamento, naturali.
È la storia di Mahamat, il bracciante sudanese vittima della fatica e dei caporali a Nardò. È la storia delle donne trasportate con gli autobus su e giù per tutta la Regione, dalla provincia di Taranto alle campagne del nord della Puglia. Tutt’attorno c’è il silenzio delle campagne pugliesi, dove il caporalato è ora parzialmente legalizzato, camuffato dalla presenza delle agenzie di lavoro interinale. Nella regione considerata la più dinamica, accogliente ed innovatrice del mezzogiorno, queste morti ci insegnano proprio che la schiavitù non è più un retaggio del passato ma una dinamica di sfruttamento della forza lavoro che coinvolge – secondo i dati della Cgil – migliaia di donne, vittime del sistema dell’intermediazione nella manodopera e delle annesse violazioni contrattuali. A loro si aggiungono altri invisibili, ovvero i richiedenti asilo impegnati nella raccolta dei pomodori. Non c’è dubbio che il divenire sfruttamento sia donna e migrante, nelle campagne della Puglia, lì a due passi dalle spiagge da cartolina dove turisti da tutto il mondo fanno il bagno, l’assioma del denaro e del profitto non conosce limiti, neppure alla vita. Sono gli assiomi del capitalismo, gli stessi che trasformano l’attività in lavoro, i territori in proprietà, e il plusvalore in profitto. Gli stessi postulati che attecchiscono in ogni tipo di organizzazione sociale – dalle coltivazioni di pomodori alle fabbriche inquinanti – in strutture politico – sociali differenti, si chiamino esse socialismo cinese o democrazie liberali, poco importa. Sono gli stessi principi flessibili e multipli che costituiscono un formidabile apparato di dominio e di cattura. Laddove appare già evidente quanto le logiche del profitto assumano il volto inquietante di un potere che si spinge fino all’amministrazione della vita, attraverso la negazione della salute. Il potere bioeconomico sulla vita, in sostanza, cioè nella intenzione di governare economicamente la vita dei cittadini mediante la creazione di un assemblaggio flessibile e contingente tra agenzie politiche, corpi politici, autorità economiche, legali, sociali, tecniche e le aspirazioni, i giudizi e le ambizioni di entità formalmente autonome come le imprese, i gruppi di pressione, le famiglie e gli individui . Di fronte a ciò, si tratterà di rintracciare i germi di una produzione alternativa della soggettività, che nello sfidare i propri limiti vitali, permetta di ridefinire la questione di cosa significhi essere umani oggi. Qui, nella Puglia apertamente progressista lasciataci da dieci anni di governo di Nichi Vendola; quaggiù, dove esiste ancora la schiavitù.