OPINIONI
E allora le donne?
Come mai i giornali si sono apprestati entusiasticamente a dare un’immagine intima, familistica, persino dolce, di Draghi? È in atto una spartizione del privato e del pubblico che a livello politico chiama in causa il femminile
Rimarcare la natura maschilista di questo nuovo governo non serve. Il primo motivo è banale e dovrebbe ormai essere assodato. L’accesso delle donne alla politica dei maschi non è mai cosa buona – non in sé, ma per noi. Questo primo motivo che dovrebbe essere ormai assodato traballa in verità ogni volta che “per la prima volta una donna” – segue quello che ci pare.
A confutare questo argomento basterebbe pensare al fatto che sono secoli che le donne fanno cose per la prima volta – è stancante. E che le prime volte possono continuare a essere “prime” ormai solo per via sommatoria: è la prima donna nera che – e via dicendo. O sommando le donne insieme: è la prima volta che una donna giudice della corte suprema nomina la prima donna nera che – e via dicendo.
Ci siamo stufate di essere raggruppate e divise, sommate e celebrate, trattate come rappresentati di una categoria sociologica. Ma soprattutto, ci siamo stufate di essere accolte e accettate.
Perché una donna dovrebbe aspirare a occupare una posizione, magari anche la migliore, in questo circo retto da uomini?
Il secondo motivo è più subdolo. Questo governo per molti versi è femminile. Lo è talmente tanto che verrebbe da definirlo un governo femmineo, o persino intimista. È un governo che si è presentato nel suo lato privato: che scuole ha frequentato Draghi, chi erano i suoi compagni di classe, la morte dei suoi genitori, sua moglie che non parla. Segue sciorinamento non di doti ma di virtù: riservatezza, eleganza, ma anche mondanità, piglio sicuro, un buon inglese. Eccetera. Draghi salvifico andava tratteggiato umanamente – sarà che la memoria collettiva lo associa alle banche.
Immagine da commons.wikimedia.org
È in atto una scissione e una convergenza allo stesso tempo. Che riguarda il luogo del politico e del pubblico – e dunque per via indispensabile il femminile. Ovvero: il femminile è sempre stato deputato, storicamente, a “tenere insieme”, il privato con il pubblico, l’intimo con il politico, la sfera del bisogno con quella professionale e via dicendo.
La donna che sistema la cravatta del marito che si appresta ad avventurarsi nel mondo fa da collante – sistema le contraddizioni, elimina quello che non torna, si occupa di fare ordine dove c’è disordine.
Come mai i giornali si sono apprestati volontariamente ed entusiasticamente a dare questa immagine intima, familistica, persino dolce, di Draghi? C’è una dimensione interessante, che non coincide immediatamente con gli interessi in gioco – che sono stati invece prontamente ricostruiti sui social e poi su pagine che non possono essere equiparate a quelle dei grandi quotidiani nazionali. Questa dimensione ha a che fare precisamente con la spartizione – che significa sia scissione che ricomposizione – del privato e del pubblico. Che per questa via chiama in causa il femminile.
I giornali erano in verità pronti a questa convergenza, ovvero ad assumere volontariamente un simile ruolo servile nei confronti del potere e poi, in sua vece, a dire ciò che il potere non dice. Mai come oggi è evidente che il giornalismo italiano non si occupa di notizie ma di comunicazione.
Che la politica fosse divenuta comunicazione priva di contenuti era invece evidente già da un po’ di tempo – la prima campagna elettorale interamente fondata sulle strategie di comunicazione anziché sui contenuti è stata quella di Walter Veltroni, che ci informava, con dovizia di particolari, sulle ultime strategie importate direttamente dalla campagna elettorale di Obama, in un gioco situazionista in cui a essere esposte erano le regole delle agenzie pubblicitarie, che comunicavano se stesse e poco altro.
Dal momento che la politica stessa non è altro che comunicazione, i quotidiani si sono trovati da un giorno all’altro a fare politica.
Politica e giornalismo, che una volta si fronteggiavano per mettersi a verifica, sono entrambi, in due settori che si vorrebbero ancora distinti, creazione di contenuti che servono a riempire luoghi pubblici rimasti vuoti, dunque i social. Perché – oggi questo è evidente – gli accordi che contano vengono siglati al chiuso delle stanze private del potere padronale e industriale. In questo senso il fatto che Renzi abbia potuto far cadere un governo negli stessi giorni in cui visitava l’Arabia Saudita non è affatto una coincidenza ma un paradigma.
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I giornali dunque si autoeleggono a creatori di politica – contenuti virali, minuzie, dettagli, gossip – con cui condire l’attenzione di chi li legge – pensando magari di trovare notizie. E la politica imbocca il giornalismo. E altrove, ieri sul “Sole-24ore”, sono i cittadini e le cittadine stesse a decretare, dunque approvare, cose che non sono ancora accadute. Sondaggi molto confusi, per non dire sbagliati – che le istituzioni non abbiano confidenza con la matematica lo sappiamo bene da un anno a questa parte – mettono in evidenza il fatto che il reddito di cittadinanza non ha funzionato: «Reddito di cittadinanza: l’88% lo boccia”» – è dunque da abolire.
È un’anticipazione molto importante: è la linea del governo, e della stampa, presentata per mezzo di sondaggi, per mezzo di quel terzo attore sulla scena che siamo noi, ascoltati da sondaggi sbagliati ma non chiamati a votare.
Ad abolire, per inciso, una delle poche misure di welfare introdotte in Italia da trent’anni a questa parte, la cui soppressione viene caldeggiata in un momento – forse per questo giusto – in cui ancora non si sono dispiegati nella loro interezza le conseguenze economiche, feroci, della pandemia.
Un secondo articolo interessante compariva ieri sullo stesso quotidiano. Un’intervista a Elsa Fornero, titolato «La povertà, il ruolo delle élite, e le sfide del progetto Draghi». La parte più interessante, tuttavia, era il titoletto sopra: «L’ex ministro, in un pranzo sobrio nella sua casa di Torino, parla della famiglia e delle riforme per salvare i conti del Paese». I conti del paese sono associati a un pranzo sobrio, a una casa, una famiglia. Sobrietà: la stessa che compare nelle prime righe del pezzo di apertura: «giuramento sobrio e all’insegna del distanziamento sociale ieri al Quirinale». Doti moraleggianti, familistiche, domestiche.
In questa convergenza la scissione va nascosta. Tra luoghi pubblici, adibiti alla comunicazione di cose mai successe o non ancora successe, o cose che comunque si presume non verremo a sapere – se non fosse che poi stampa e politica sottovalutano sempre l’intelligenza collettiva – e le stanze divenute private, tanto private da essere intime. Si dirà che il governo è di destra, eppure nuovamente, il paradigma è di sinistra – sono anni che la sinistra istituzionale prepara le politiche della destra.
Ciò che più infastidisce di Renzi non è tanto ciò che ha fatto – che casomai, da un freddissimo punto di vista strumentale e macchinico può essere persino elogiato: è riuscito – ma il piglio, meritocratico, da primo della classe, con cui la classe politica in generale difende questo operato-operazione.
Voi qui non entrate. Il significato vero della meritocrazia, e sono anni che l’Italia si piega a questo diktat, non riguarda i “migliori”: riguarda l’accesso, o meglio il non-accesso di quanti non sono migliori di nessuno. E rivela ora, d’un tratto, il suo significato pieno: a queste stanze non si accede, con o senza pandemia – con o senza voto.
(foto: Tano D’Amico)
Con buona pace di quanti hanno gridato per un anno allo stato d’eccezione – insopportabilità delle mascherine, il potere sovrano ci vuole a casa alle dieci, eccetera – il piano era un altro. Molto più lucido, sobrio – nulla di spettacolare. Domestico. Familiare e intimo. Il governo dai toni caldeggianti, sobri ed eroici allo stesso tempo, è a tutti gli effetti un governo ancillare.
Questo governo non serve ad altro che ad attutire i contraccolpi economici e sociali che seguiranno alla spartizione di quello che c’è – a cui noi non avremmo accesso. Le doti messe in campo sin dalle prime ore sono prettamente femminili, ottocentesche chiaramente: e servono a consolare, a preparare, a sgomberare il campo, ad accudire, a far quadrare quanto sta per accadere.
È qui che la “questione femminile” diventa insopportabile. Se non si coglie il modo in cui questo retaggio tardo-ottocentesco e grottesco è stato prontamente riesumato in nome di una supposta unità nazionale in cui peraltro nessuno degli attori interessati crede, lamentare l’assenza di donne al governo diventa ridicolo. Nella sua ferocia questo è il governo più femminile ci sia mai stato.
Nel suo modo di fare, che è una scissione e una convergenza allo stesso tempo – nei luoghi della scissione vari attori possono convergere dopo aver interamente svuotato i luoghi del pubblico – le donne saranno chiamate a raccogliere i pezzi, a tenere insieme il senso di qualcosa.
Già dovrebbe farci preoccupare la mole di volontariato che tiene insieme le nostre società, che aumenta (sempre) in maniera proporzionale alla disoccupazione femminile.
Piuttosto, è da anni ormai che sono le donne a muovere e a iniziare i movimenti di protesta globale. Se è vero che lo scenario che si presenta è feroce, faremmo bene a smettere di preoccuparci di non star partecipando. Potremmo, per esempio, pensare a come essere la miccia di quel qualcosa che non torna, come essere il dato che si mette di traverso nelle crepe di un potere che questa volta – a differenza del governo uscente – si presenta compatto.
Lamentare un governo di maschi non serve, serve anticiparlo, serve dismettere questa nostra finta sorpresa, questa mezza gioia per ogni volta che una di noi fa qualcosa per la prima volta. Se fossero le donne per prime a far inceppare questa narrazione qui non sarebbe affatto la prima volta, sarebbe l’ennesima.
Immagine di copertina rilasciata dalla Presidenza della Repubblica da commons.wikimedia.org