MONDO
Myanmar, resistenza di massa e minacce della giunta
I militari annunciano il giro di vite mentre una sorta di sciopero generale paralizza il Paese ormai da tre giorni. Il generale Hlaing parla alla nazione senza dire nulla
Il generale Hlaing, alla testa del Consiglio militare che dal 1 febbraio ha ripreso il potere in Myanmar ha parlato alla Nazione per venti minuti (senza dire nulla) dopo che la catena radiotelevisiva birmana usata dai militari per trasmettere i loro messaggi, ha annunciato stamane che verranno fatti rispettare l’ordine e la legge.
Una minaccia di giro di vite – di cui forniamo a fianco la traduzione – arrivata dopo che da stamattina la gente è scesa nuovamente in piazza a Yangon, Mandaly e Naypyidaw – dove sono stati usati gli idranti contro la folla – e in altre decine di città del Myanmar.
È la terza giornata di proteste – una sorta di sciopero generale prolungato – dopo che tra sabato e domenica, decine di migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade di una decina di città birmane dando nuovo risalto alla protesta non violenta contro il golpe militare. La manifestazione più imponente si è vista domenica attorno alla Sule Pagoda di Yangon.
Ma tutta la città era in fermento, come dimostra questa nuova carrellata di immagini (qui la prima e qui la seconda) prese a Yangon stamattina. Le foto illustrano come la popolazione si ribelli al golpe militare manifestando il suo sostegno alla Lega di Aung San Suu Kyi, identificata col colore rosso, in ogni momento della giornata.
L’atteggiamento dei militari è ondivago e spesso incomprensibile come se seguisse un copione all’impronta.
Ha levato il coprifuoco anti Covid a Yangon durante il giorno per imporlo a Manadalay e minacciato un giro di vite senza, al momento, metterlo in pratica. Ha fatto saltare internet per 24 ore e poi lo ha ripristinato, chiuso i social che però vanno a tratti, chiuso i canali televisivi internazionali ma per ora senza bloccare la stampa locale.
Ha inoltre accusato Aung San Suu Kyi e il presidente, su cui pende la colpa di aver rispettivamente importato illegalmente ricetrasmettitori e di aver violato le norme anti Covid durante la campagna elettorale: accuse che permettono all’autorità giudiziaria di trattenerli in carcere ma che suona paradossale, come se la giunta militare volesse garantirsi una procedura “legale” pur avendo in realtà il potere di decidere senza difficoltà il destino degli imprigionati.
Una prima versione di questo articolo è apparsa sul sito Atlante Guerre, come anche la foto di copertina, realizzata da Svetva Portecali a Yangon