approfondimenti
MONDO
Resistere alla “kayyumizzazione”. Il nuovo dissenso nella Turchia di Erdoğan
Scoppiano le proteste degli e delle studenti a Boğaziçi in seguito alla nomina del nuovo rettore, mentre i minatori di Soma marciano verso la capitale per chiedere giustizia dopo il disastro del 2014. Anche in un contesto politico segnato da un autoritarismo sempre maggiore, esistono possibilità di far sentire la propria voce e ottenere diritti
Un colpo di stato a bassa intensità. In Turchia, la stretta autoritaria di Recep Tayyip Erdoğan sembra avvitarsi su se stessa e continuare incessante. Nonostante sia terminato da quasi due anni lo stato di emergenza (il cosiddetto ohal), che consentiva la messa in campo di misure speciali per accrescere il potere del partito di governo Akp, la repressione delle libertà politiche e dei diritti civili assume nuove forme, magari più striscianti ma egualmente aggressive per quanto riguarda la vita collettiva della popolazione.
Dal 2016 a oggi, centinaia di giornalisti sono stati incarcerati (attualmente in prigione sono 37, il secondo numero più alto al mondo dopo la Cina stando alle cifre del Comitato per la protezione dei giornalisti), migliaia di persone sono state licenziate dal proprio impiego nei più svariati campi, dall’educazione alla medicina, dall’informazione alla giustizia, mentre per chiunque provi a manifestare il suo dissenso pare arrivare puntuale l’accusa di terrorismo (secondo lo Human Rights Watch, ci sono oltre 58mila processi di questo tipo con oltre 130mila indagini giudiziarie per questa fattispecie di reato).
«Oramai non deve neanche più avere una parvenza logica», racconta Candan Badem, ricercatore e accademico che ha tra l’altro fatto parte della prima e unica giunta comunista in un capoluogo di provincia turco, a Tunceli (zona centro-orientale della penisola anatolica, cui la nuova amministrazione aveva restituito il nome storico di Dersim, legato alla grande rivolta curdo-alevita del 1937-1938).
«Non appena dici qualcosa di vagamente contrario al governo, che sia sui social media o a lezione o in qualsiasi contesto, vieni accusato di terrorismo. La cosa grottesca è che tante volte nelle accuse non si fa neanche menzione a un gruppo specifico, oppure le prove portate a sostegno della tesi sono risibili: basta essere stato in piazza a una manifestazione».
È come se il logorante lavorio da parte del “sultano” Erdoğan per fare della Turchia una moderna dittatura fosse passato per diverse fasi: dall’ascesa al potere fino al controverso golpe del 2016, dalla “grandi purghe” che ne sono seguite fino all’estensione temporale di uno stato di emergenza pervasivo che ha di fatto sospeso la normale garanzia dei diritti basilari.
Oggi, però, la repressione sembra acquisire un nome diverso e particolare: kayyum.
Si tratta di un “fiduciario governativo” posto arbitrariamente a sostituzione di giunte comunali e provinciali d’opposizione, come è successo ripetutamente nella Turchia dell’est dove la maggioranza dei sindaci eletti proviene dal partito filo-curdo Hdp. (e in cui sono state commissariate 48 municipalità).
«L’obiettivo di Erdoğan e dell’Akp è controllare tutti i livelli istituzionali», prosegue Candan Badem, il cui percorso politico è stato fortemente segnato dal fenomeno del kayyum: prima della sua elezione anche la giunta di Tunceli era infatti sotto la guida di un commissario esterno. «Cercano di eradicare ogni forma di opposizione rimasta. Se vedono esperienze contrarie ai loro piani, diventano ancora più violenti di quello che già sono e intensificano la repressione».
Tunceli (foto di Francesco Brusa)
L’università in lotta
Eppure l’insofferenza verso vecchie e nuove forme di autoritarismo sembra essere in crescita. Proprio allo scoccare del 2021, il primo gennaio, Erdoğan ha deciso di nominare tramite decreto presidenziale il rettore dell’Università di Boğaziçi, storico e prestigioso centro accademico di Istanbul: un’operazione eminentemente politica, dato che la scelta è ricaduta su Melih Bulu, figura strettamente legata al partito dall’Akp al punto da essere stato candidato nelle sue fila alle elezioni di sei anni fa.
«La nostra reazione è stata istantanea», racconta Oğuz, 23 anni, che è fra gli studenti maggiormente attivi nelle proteste che hanno seguito la nomina del rettore e che continuano ancora oggi. «Tutti hanno iniziato spontaneamente a scriversi su alcuni canali e gruppi social, fino a che si è deciso di suddividersi in diversi collettivi per organizzare una manifestazione. Ci siamo ritrovati il quattro gennaio in migliaia di persone davanti all’università con centinaia di poliziotti schierati davanti a noi. Qualcosa di davvero sproporzionato: camionette antisommossa, pistole per il gas lacrimogeno… ».
La prima giornata di proteste finisce con alcuni scontri e tafferugli, che vedono coinvolti sia studenti di Boğaziçi si persone accorse da fuori per dare sostegno ai manifestanti. Da lì la contestazione della nomina di Bulu prosegue senza interruzioni, con presidi costanti sotto la finestra del rettore e anche gesti di forte rottura da parte degli accademici dell’istituto, come le dimissioni del docente Zafer Yenal.
«Diciamo che siamo perfettamente consapevoli di vivere sotto un regime dittatoriale», afferma ancora Oğuz nel tentativo di fornire una valutazione di quanto sta accadendo. «Nella stessa università sono da sempre presenti collettivi politici, dai gruppi che si battono per i diritti Lgbt fino ai “kemalisti di sinistra”, magari non numerosissimi ma abbastanza influenti. In generale, è come se fossimo in uno stato di allerta costante: sappiamo che la repressione da parte di Erdoğan può intensificarsi da un momento all’altro e quello è il momento per mobilitarci».
Data la forte componente giovanile e il carattere spesso ironico delle azioni di protesta (per esempio, si è scelto di diffondere a tutto volume le note di Master of Puppets sotto la finestra del rettore non appena Bulu, in un goffo tentativo di ingraziarsi gli studenti, ha dichiarato di essere un fan del gruppo heavy metal Metallica), alcuni commentatori hanno azzardato paragoni con lo storico movimento del 2013 di Gezi Park.
«Quella di Gezi è stata una protesta grandissima e importante», commenta Oğuz che pure vi aveva preso parte. «Tuttavia, ciò che stiamo pensando di fare a Boğaziçi è provare a circoscrivere le nostre iniziative all’ambiente accademico, affinché non sfuggano dal nostro controllo e affinché la loro organizzazione sia, in un certo senso, “sostenibile”. A ogni modo, non smetteremo di manifestare fino a quando Bulu non se ne andrà».
Anche negli hashtag che hanno circolato durante le mobilitazioni all’università compare la parola kayyum: #kayyımrektöristemiyoruz, affermano gli e le studenti, «non vogliamo il rettore amministratore fiduciario».
Quella che si è sviluppata a Boğaziçi – e che piano piano si sta diffondendo anche in altri centri accademici, come all’Università Tecnica del Medioriente di Ankara – sembra allora essere una lotta contro la crescente kayyumizzazione della società, se così si può usare questo neologismo.
Terminato il periodo di irrigidimento autoritario più eclatante, Erdoğan si muove ora “pedina dopo pedina”: ogni centro decisionale che diverge dalle direttive governative viene ricondotto all’obbedienza tramite la sostituzione coatta dei rappresentanti al potere con commissari di fiducia, frustrando così la spontanea aspirazione della popolazione verso una partecipazione più democratica alla vita politica del paese.
Non è un caso, allora, che anche le proteste perlopiù simboliche e pacifiche di Boğaziçi stiano subendo una dura repressione poliziesca. «Già a meno di 24 ore dalla prima giornata di proteste sono stati arrestati 17 studenti», conferma da Istanbul Engin Kara, attivista e avvocato che sta tra l’altro difendendo alcune delle persone coinvolte in procedimenti legali.
«Il numero ora ha raggiunto la cifra complessiva di 45 studenti, mentre un’altra decina è tuttora ricercata dalla polizia. I fermi sono avvenuti in maniera violenta, con pratiche generalmente utilizzate durante operazioni contro organizzazioni armate. È evidente che l’obiettivo del governo è rappresentare questi studenti come dei terroristi».
Nel frattempo, dall’inizio di questa settimana, la metropoli sul Bosforo è stata colpita da una pesante nevicata e da un crollo delle temperature che sembrano riflettere il gelido clima politico segnato dalla repressione. Eppure, anche nel freddo, i ragazzi e le ragazze di Boğaziçi continuano a protestare, magari inventandosi forme di mobilitazione “ibrida” (alcuni “episodi” della protesta si sono svolti anche on-line) e raccogliendo un nutrito sostegno internazionale.
Lo scorso giovedì, la comunità Lgbt del campus ha indetto una marcia dell’orgoglio che ha attraversato non solo gli spazi dell’università ma anche le strade della città, arrivando fino al quartiere asiatico di Kadıköy. Negli spiragli lasciati dal regime, dunque, si insinuano inaspettate forme di lotta, discontinuità.
(foto da Kampüs Cadıları)
Il lungo cammino della giustizia
Similmente, si è da poco conclusa la marcia dei lavoratori e delle lavoratrici di Soma. Un grido di giustizia che si alza da ormai otto anni, una rivendicazione che si è estesa per decine di chilometri con una marcia che lo scorso 12 ottobre è partita dalla città della Turchia sud-occidentale, in cui sette anni fa persero la vita oltre 300 minatori, per dirigersi fino alla capitale Ankara.
Intenzione iniziale non portata del tutto al termine, non solo per i ripetuti tentativi di repressione ma soprattutto per la parziale vittoria ottenuta dai manifestanti.
Ci ha raccontato Kamil Kartal, tra i principali animatori dell’organizzazione sindacale Bağımsız Maden İşçileri Sendikası (Sindacato indipendente dei minatori): «Siamo stati arrestati a Kırkağaç ma siamo stati rilasciati la stessa sera, fortunatamente senza subire abusi e violenze. Abbiamo rilasciato un comunicato stampa e Kırkağaç e ci siamo diretti verso Ankara ma siamo ci siamo fermati questa volta nel distretto di Gölmarmara, nella provincia di Manisa, dove abbiamo avuto un incontro con i rappresentanti ministeriali. Il risultato di questo incontro ha portato all’interruzione della mobilitazione in attesa di seguire tutti gli sviluppi riguardo il mantenimento degli accordi presi».
Nominare Soma in Turchia rimanda a una ferita ancora aperta, trattandosi di una delle stragi operaie più gravi della storia recente del paese: 301 lavoratori morti a causa di un’esplosione all’interno delle cave minerarie di questa cittadina operaia nella provincia di Manisa.
Un evento che fece (tragicamente) luce sulla situazione di enorme precarietà in cui vivevano i minatori turchi, la quale si protrae, come testimonia la marcia, fino ai giorni nostri. La produzione di carbone, tra l’altro, rappresenta ancora oggi un settore importante per il paese. Ma ai profitti di pochi si contrappongono le difficoltà di tanti lavoratori, che in questi anni hanno più volte manifestato per i propri diritti.
«La resistenza dei minatori in Turchia si è sviluppata in due località», prosegue Kartal. «La prima è la lotta iniziata a marzo dello scorso anno a Soma affinché a 4mila minatori venissero saldate delle indennità loro dovute da circa dieci anni. La seconda è la vertenza attiva da luglio in due miniere a Ermenek, nella provincia di Karaman, per garantire il pagamento di alcuni stipendi. Come risultato di queste lotte, a Soma finora sono stati saldati i crediti di circa 2200 minatori e sono stati compiuti passi importanti verso il pagamento dei rimanenti, mentre la lotta continua a Ermenek nonostante una pesante repressione da parte dello Stato».
Nelle parole e nelle lotte dei sindacalisti come Kamil Kartal sono racchiuse le complicate condizioni in cui le organizzazioni sociali e politiche si trovano oggi a operare in Turchia, strette nella morsa della repressione governativa, che prova a silenziare qualsiasi forma di dissenso per non far uscire fuori le enormi contraddizioni presenti nel paese.
Sono note, infatti, le rilevanti collusioni tra politica e imprenditoria: recentemente ha destato sconcerto e scalpore la notizia che nella lista preparata dagli organi ministeriali per i risarcimenti di Soma compaiano anche i nomi di alcuni responsabili della strage.
Come conferma ancora Kartal: «La miniera di Eynez, dove è avvenuto il massacro, così come le miniere di Atabacası e Işıklar facevano parte della stessa compagnia mineraria, la Soma Kömürleri A.Ş Soma. Sono anni che si conoscono gli stretti legami tra i manager di questa azienda e i burocrati dell’autorità statale turca per le operazioni sul carbone (Türkiye Kömür İşletmeleri Kurumu). Per tale motivo quando hanno dovuto stilare, in seguito alle nostre battaglie, la lista dei minatori da pagare, hanno furtivamente aggiunto anche i nomi di alcuni dei responsabili della strage. Una questione vergognosa che stiamo cercando di affrontare con tutte le nostre forze».
(foto da Bağımsız Maden-İş)
Ipocrisie internazionali
La marcia partita da Soma e durata quasi un mese, le proteste inaspettate e continue degli studenti di Boğaziçi, hanno avuto il merito di rompere un cortocircuito di repressione e rassegnazione, ottenendo anche dei risultati tangibili. Sintomo che, nonostante la delicata fase politica che attraversa ormai da diverso tempo la Turchia, ci sono ancora delle possibilità di alimentare resistenze.
Tuttavia, per quelle esperienze politiche che subiscono direttamente e su vasta scala gli effetti della kayyumizzazione di cui si parlava in apertura, gli orizzonti non sembrano così rosei. Dice Devriş Çimen, rappresentate in Europa dell’Hdp: «Il nostro paese è davvero in una brutta situazione. Nell’attuale fase è difficile analizzare la situazione politica e spiegare possibili scenari futuri. Siamo di fronte a un governo fascista e sappiamo che il fascismo può essere instaurato solo usando la forza, spaventando la popolazione e usurpando ogni forma di democrazia».
Proprio in questi giorni, il leader della formazione ultranazionalista Mhp, alleata di governo dell’Akp, ha annunciato di voler presentare un’istanza all’ufficio del procuratore capo della Corte di cassazione per lo scioglimento dell’Hdp.
Ma più in generale, per quanto sia difficile avere delle quantificazioni precise, negli ultimi anni (come conferma lo stesso Çimen) 20mila tra militanti e dirigenti dell’Hdp sono stati fermati, di cui 10mila arrestati. Sebbene alcuni degli arrestati siano stati rilasciati dopo determinati periodi, a fine 2020 si contavano ancora 3.695 tra militanti e dirigenti dell’ Hdp in carcere.
Continua Çimen: «Ci troviamo davanti a una battaglia dell’Akp contro le elezioni democratiche e la volontà popolare. Il partito di Erdoğan continua con queste sue pratiche usurpatrici e con il suo “governo dei ladri”. Attualmente la Turchia è governata da un regime autoritario che ha perso ogni legittimità politica».
Una legittimità che, però, se anche può essere messa parzialmente in discussione all’interno, pare continuare a trovar conferma al di fuori dei confini nazionali: la repubblica anatolica è ormai diventata un attore di primo piano a livello globale, avendo voce in capitolo in contesti importanti e delicati come quello siriano, libico, e più recentemente nel conflitto in Nagorno Karabakh. Circostanze che, in qualche modo, smascherano l’ipocrisia soprattutto occidentale: nonostante le denunce che spesso si muovono a parole contro l’autoritarismo turco, al regime di Erdoğan viene accordata libertà di azione in numerose occasioni.
«La Turchia a livello internazionale dovrebbe trovarsi in una posizione scomoda», conclude Çimen. «Erdoğan viene infatti considerato un dittatore dall’opinione pubblica mondiale. Eppure, da un punto di vista pratico nessuno stato o organizzazione prova davvero a porre pressione e ostacolare il suo operato. Occorre dirlo con chiarezza: anche le sanzioni che di tanto in tanto vengono applicate sono lontane dall’essere un fattore reale che scoraggerà l’Akp».
Nel frattempo, poco più di una settimana fa, anche il premier del nostro paese Giuseppe Conte ha incontrato il “sultano” ad Ankara per discutere appunto di un possibile cessate il fuoco in Libia. «Con il presidente del Consiglio italiano siamo in stretto contatto», ha riferito Erdoğan. «Abbiamo fatto un pranzo di lavoro. È un caro amico».
Immagine di copertina di Oguz Kaan Cagatay Kilinc