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La valle oscura: una umanista nel regno dei tecno-stregoni
La valle oscura è la Silicon Valley: eden dei tecnofili, serbatoio di milionari, regno nel quale i governanti sono giovani rampanti, guidati da sincretismi spirituali, finanziari e stupefacenti. Nella Silicon Valley il futuro si immagina e viene restituito al presente, come nella migliore delle iperstizioni. Wiener scrive l’autobiografia più interessante dell’anno appena trascorso
Anna Wiener è una giornalista in ambito tech, potreste trovarla sulle pagine del “New Yorker” e altre importanti riviste americane. Nelle foto promozionali del suo primo libro, La Valle Oscura, Weiner è ritratta con il giubbotto nero in similpelle e dei lunghi capelli che ricordano, se non una fan degli Strokes, le protagoniste di un comedy-drama a puntate dedicato alle ragazze della metropoli, tipo Girls o Broad City. Effettivamente La Valle Oscura (The Uncanny Valley in originale) è la storia di una ragazza di New York che, per non cadere nel cliché degli show sopra citati, si sposta su San Francisco per vivere con la propria pelle il boom delle start-up tech nella San Francisco dei primi anni dieci. Nella prima parte del libro, che fa da proemio, Wiener descrive ironicamente il mondo hipsterico che ha vissuto New York, una generazione di «giovani tra i venti e i trent’anni […] in un periodo in cui una fabbrica di cioccolato artigianale era considerata un monumento locale e la gente parlava con serietà di agricoltura urbana, la mia vita era ostentatamente analogica. Scattavo fotografie con una vecchia macchina medio formato appartenuta a mio nonno […]». Una generazione che in qualche modo ereditava la vita bohémienne dell’immaginario Seventies della grande mela, povera, istintiva e afflitta, «inseguivo blatte sulle pareti del mio appartamento in affitto, fumavo erba e andavo in bici a concert in vecchi depositi lungo l’East River, cercando di eludere una persistente sensazione di paura». Anna lavora nel mondo dell’editoria, colpito dalla prima e mai conclusa ondata di precariato patologico, dove lo stagismo diventa la normalità; nel quale lo sfruttamento sistemico è conseguenza di un regno feudale dove i superiori «che per pranzo ordinavano salmone bollito e bicchieri di rosé, sembravano considerare la bassa retribuzione un rito di passaggio».
Il movimento da est a ovest, tipico archetipo della narrazione d’America, in Wiener è quindi un movimento causato dalla crisi economica: la generazione di Anna è quella che ha vissuto la crisi finanziaria del 2006, quella dei subprime. Tramite una serie di eventi che non staremo a raccontare e, dopo una breve parentesi con una start up che si occupa di ebook, Anna si ritroverà a San Francisco a lavorare nell’assistenza clienti di una società di data analytics. La città californiana sta vivendo un momento di passaggio: il mondo deliziosamente dionisiaco ereditato dagli anni ‘70, dove i giovani «avevano vite sociali complicate e travolgenti. Sperimentavano allucinogeni e poliamore; fumavano erba, dormivano fino a tardi e sbevazzavano di giorno; andavano a feste bdsm e dopo divoravano burrito» sta concludendo il suo ciclo. La città è in preda a uno sconvolgimento, che è di tipo sociale e urbanistico. I luoghi d’arte chiudono, mentre una nuova specie di essere umano comincia a riempire i bar: «uomini tra i venti e trent’anni che portavano magliette con marchi aziendali, uomini che non finivano mai la loro birra e si lamentavano ogni volta che qualcuno sul marciapiede fumava una sigaretta troppo vicino alla porta. Uomini che andavano nei night con scarpe da corsa stabili. Uomini che dicevano “h-24” anziché ventiquattr’ore su ventiquattro». Insomma, San Francisco viene invasa da quelli che una volta venivano – con discriminazione – chiamati nerd e oggi sono riconosciuti come gli stregoni del nuovo mondo. Sono gli abitanti della Silicon Valley, sviluppatori di codice, ingegneri e manager. Un popolo che fin da subito Wiener descrive evidenziando il loro stacanovismo e anaffettività.
È un mondo dove gli ingegneri sono il vertice della piramide alimentare, si parla usando «una specie di non-linguaggio» aziendale condito di metafore atletico-belliche, in un regno dove «le aziende non fallivano, morivano». Nella sua avventura lavorativa Anna farà i conti con il lavorismo, i benefits folli, team building a base di camping e acidi lisergici, l’egocentrismo dei capi, feste in spa e hotel di lusso. Nei bar di San Francisco «i teorici dei sistemi scambiavano idee su combinazioni e dosaggi. […] si sparano testosterone nelle cosce e acquistavano braccialetti con feedback aptico per autosomministrarsi scosse elettriche da centocinquanta volt».. Sembra di leggere l’inizio di un’era cyberpunk. che aleggia come un’ iperstizione.
La grande vittima dell’invasione dei nuovi stregoni è proprio San Francisco, che cambia pelle una volta per tutte, in preda a una gentrificazione che è talmente straordinaria da spingere Wiener a scrivere tra i passi più potenti del libro: «Tendopoli di senzatetto spuntavano all’ombra di complessi residenziali di lusso. C’erano persone che dormivano, cagavano e si bucavano nelle stazioni della metropolitana, sdraiate sotto annunci pubblicitari di fashion e app per la produttività. L’autrice racconta di una città delirante, che ricorda, forse, la civiltà urbana e disumanizzante di Ballard con uscite come «na mattina fui svegliata dalle grida di qualcuno che implorava pietà all’angolo del mio isolato: una donna urlava come una pazza trascinando una gamba, completamente nuda a parte una maglietta strappata su cui spiccava il logo di una multinazionale di elettronica di consumo».
Un virus, quello della gentrificazione, che scorre lungo i bordi della rete finanziaria delle tech company e, attraversa l’America. «La città stava cominciando ad assomigliare a un’idea generica, scaturita forse dalla mente di un imprenditore immobiliare, di come dovrebbe essere una ricca metropoli», scrive Wiener della nuova zona nord di Brooklyn, dei suoi lungomari ricostruiti. Rimessi a nuovo per «quelli di Wall Street, gente della finanza. I pezzi grossi del tech».
Wiener scrive un libro che racconta le difficoltà fisiche e psicologiche di un mondo del lavoro che genera e ristruttura il futuro dei diritti e doveri delle intere generazioni che verranno. Lo fa senza possedere – e per fortuna – il distacco di un accademico o di un intellettuale sepolto in biblioteche lontane dalle zone di guerra dell’info capitalismo. La potenza del libro è tutta qui: Wiener dispone di tutti gli strumenti per poter leggere e, in prima persona, la macchina. Per questo i migliori pensieri e spunti nascosto proprio da questioni private: amicizie, storie d’amore, chat nei forum aziendali, i momenti di team-building, viaggi e cene di lavoro in ristoranti fusion in hotel a cinque stelle nelle profondità delle rete geografiche aziendali. Scrive, ad esempio, di un suo conoscente e leader aziendale, «ma Patrick aveva telefonate a cui rispondere, riunioni da condurre, fusi orari tra cui destreggiarsi [… ] Il suo tempo non era più prezioso del mio, la sua vita non era più importante della vita di chiunque altro – se non secondo i criteri che governavano l’ecosistema». Uno degli argomenti più interessanti di Wiener è il latente senso di colpa che si dipana dopo settimane, mesi e anni di lavoro in un campo condannato al lavorismo.
Vivere e lavorare nella Silicon Valley significava prima di tutto entrare nel regno degli uomini, precisamente in quello dei ragazzetti milionari. «Avrei lavorato due volte più duro dei miei pari grado uomini per essere presa sul serio la metà di loro», scrive verso la fine del libro. Wiener racconta la complessità di un mondo oppressivo. Da una parte c’è l’evidente maschilismo, che quando non è evidente si nasconde nel paternalismo lavorativo; poi ci sono i racconti di molestie sessuali, di battute sfortunate sul posto di lavoro, ma soprattutto il racconto è quello di una società che, per quanto paternale, rimane guidata da ragazzi indisciplinati. Si intreccia in questo mondo la personalità della protagonista, che fa trapelare un profilo psicologico – a volte – da vittima consapevole: «io ero devota all’idea di vulnerabilità». L’osservazione di tutto ciò che è sbagliato nel mondo delle start up milionarie e l’affetto che l’autrice confessa per parte dei suoi uomini: «era un infruttuoso tentativo di alleviare il mio personale senso di colpa per il fatto di partecipare a un progetto che impoveriva il mondo intero, ma soprattutto era una proiezione: loro sarebbero diventati la prossima élite al potere».
E poi in un contesto dove l’ottimizzazione da paradigma informatico diventa una sorta di leitmotiv da spalmare su ogni ambito dell’esistenza, la performance diventa un discorso totalizzante, che passa per forza di cosa per il miglioramento del corpo: verso la fine del libro appare la figura del brogrammer, una sorta di passo evolutivo dello stereotipo bianco della Valley, binariamente mosso dal culto del corpo come tempio e dalla olistica conoscenza della programmazione.
Wiener decide di non nominare le aziende che descrive nel libro e stessa cosa lo fa con i film, i libri e altri fenomeni. Come si legge in giro probabilmente è una scelta dovuta da qualche forma di accordo di riservatezza o evidentemente legata a questioni legali, rimane il fatto che il gesto provoca qualcosa di ironico, sibillino, che impreziosisce la lettura. Il lettore sarà spinto a fare ricerche quando i riferimenti diventano ermetici agli habitué del mondo informatico o tech: facile riconoscere dietro Facebook il «social network che tutti dicono di odiare ma al quale tutti sono iscritti», più complesso cogliere il terzo posto di lavoro della protagonista in ordine di lettura, «la biblioteca d’Alessandria del codice», Github.
Una delle teorie più interessanti nel campo informatico è proprio quella della Uncanny Valley: è una funzione che descrive la curva di empatia che un individuo prova nei confronti di un automa/robot dalle fattezze umane. Più l’automa sembra verosimile al volto umano, più è piacevole da osservare. Eppure, nella curva, c’è un attimo in cui l’emozione empatica si abbassa vertiginosamente; cosa stiamo guardando? È vivo, un qualcuno, o è qualcosa? Il perturbante, l’unheimlich spunta inaspettato dalle distanti lezioni di Sigmund Freud. La valle è il crollo della soglia di piacevolezza. E seppur sia chiaro che il titolo del libro di Weiner vuole essere soprattutto un gioco di parole con la terra del silicio, in realtà ci ricorda anche l’effetto che fa il suo racconto: un piacere da leggere ma, a libro chiuso, lascia un sapore nuovo, di un presente ambiguo e di un futuro ignoto: appunto, perturbante.