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ITALIA
L’Isola delle Rose, ovvero la Storia che annega nell’emozione
Attraverso uno strumentale abbellimento del passato, il film di Sidney Sibilia riporta nel dibattito pubblico il tema dei porti franchi e soprattutto della loro ambiguità, tra globalizzazione pervasiva e forti spinte localistiche.
Il cinema gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della memoria collettiva e riesce a farlo con maggiore efficacia quando pretende di aver tratto ispirazione da una “storia vera”. Lo stiamo sperimentando in questi giorni con il successo del lungometraggio intitolato L’incredibile storia dell’isola delle rose del regista e sceneggiatore Sydney Sibilia, già noto al pubblico per la fortunatissima saga Smetto quando voglio.
La vicenda era già stata esplorata da un documentario del 2009 e da un romanzo del 2012 scritto da Walter Vetroni, ma si veste oggi di implicazioni inedite anche grazie alla possente distribuzione assicurata da Netflix.
La trama è tanto semplice quanto affascinante.
Siamo negli anni Sessanta. Il giovane Giorgio Rosa (interpretato da Elio Germano) è un neolaureato in ingegneria che coltiva sogni impossibili da realizzare, scontrandosi spesso con il grigiore della realtà e con regole troppo restrittive. Grazie all’aiuto di uno spregiudicato amico, inizia a costruire una piattaforma nel mare Adriatico, al largo di Rimini e fuori dalle acque territoriali italiane, sperando di poter godere di una libertà che sarebbe impossibile altrove.
Fra la primavera e l’estate del 1968, questa bizzarra isola artificiale diventa una meta turistica, riesce a produrre profitti commerciali, ma si trasforma anche in uno Stato indipendente, la Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, capace di avere una sua lingua e di offrire la cittadinanza a centinaia di richiedenti, in barba ai divieti delle autorità italiane.
Sydney Sibilia ha rilasciato diverse interviste nelle ultime settimane, collocando la sua narrazione all’interno di un orizzonte ben preciso: «Questi film – ha sottolineato il regista – sono pieni di riferimenti di tipo sociale, scientifico, umanistico, storico, e richiedono una costante ricerca e verifica della veridicità delle cose che abbiamo deciso di mettere in scena. Ciò che mi ha intrigato è stata innanzitutto la forza e la determinazione di un uomo solo nel 1968. In un’epoca in cui centinaia di migliaia di studenti scendevano in piazza a Parigi per lottare per un mondo migliore, un ragazzo questo mondo migliore se lo costruiva, con un paio di amici e senza fare troppo casino. La prima cosa che mi ha attratto, dunque, è stata la potenza e la determinazione di un individuo. Giorgio Rosa aveva una visione e l’ha realizzata con le sue forze […]».
Di fronte a un racconto tanto suadente, risulta più che lecito chiedersi cosa sia accaduto davvero al largo della costa riminese alla fine degli anni Sessanta. Le risposte non sono semplici e probabilmente richiederebbero anni di ricerche su documentazioni di diversa natura.
I primi dubbi nascono proprio dalle parole di Rosa che nelle sue memorie aveva chiarito, almeno in parte, gli obiettivi del progetto: fuggire dalla «soffocante» burocrazia della terraferma, «sfruttare il turismo», vendere «benzina senza accise», aprire «un bar e un ufficio postale», emettere francobolli, far nascere altre iniziative simili sull’esempio di «altri micro paesi indipendenti» come San Marino. Altrettanto palese è il quadro ideologico nel quale l’ideatore della piattaforma si muoveva.
Ricordava infatti l’ingegnere: «La cosa avrebbe retto. Dove c’è libertà c’è ricchezza».
Nell’apparente intento di offrire alle spettatore dei riferimenti di tipo “storico”, Sydeny Sibilia chiede quindi ai suoi spettatori un atto di adesione emotiva a una narrazione che si veste di tratti surreali. I colori sgargianti dei protagonisti che popolano l’isola stridono col grigiore dei rappresentanti del governo italiano. Il loro progressismo idealista si scontra con il burbero realismo di un potere repressivo e passatista. Il progetto dell’isola appare ispirato da ideali di libertà, dalla volontà di creare una piccola Utopia, o addirittura una Nuova Atlantide, senza alcun riconoscibile finanziatore.
Pur collocata cronologicamente nel passato, la trama di Sibilia rivela – in buona sostanza – un solido legame con il nostro presente e con le sue priorità. La lettura degli eventi è fondata su un luogo comune che ha radici storiche profonde e ben radicate: l’accostamento fra la caduta di vincoli economici e l’avanzamento di libertà civili, sociali e politiche. Vale quindi la pena di esplorarne la genesi e di comprenderne qualche risvolto.
Il mito dell’Isola delle Rose è legato a doppia mandata a quello del porto franco, ovvero al primo esempio potente e persuasivo di come una franchigia di natura commerciale possa stimolare narrazioni libertarie ad ampio raggio. Il primo porto franco – uno scalo in cui non si pagavano dazi in entrata e in uscita, o comunque dove vigevano tariffe molto favorevoli alla circolazione globale delle merci – nacque a Genova nel 1590. Si trattò di un’iniziativa promozionale molto ben riuscita.
Erano infatti gli anni in cui in Europa si manifestarono gli effetti della cosiddetta “piccola era glaciale”: i raccolti andavano persi, le carestie e le epidemie si facevano più frequenti.
I genovesi pensarono quindi di attirare i mercanti del Mediterraneo e del Mare del Nord abbattendo le tariffe, e facendo così fronte alla mancanza di cereali causata dalla crisi climatica. Un anno più tardi fu il Granducato di Toscana ad adottare strategie simili intorno alla città di Livorno, nella speranza di poter rientrare nei circuiti del commercio internazionale e allargare il volume di affari.
Perseguendo questi scopi, tuttavia, i governanti compirono un passo ulteriore e decisivo nella costruzione della leggenda del porto franco: per richiamare l’attenzione degli operatori, offrirono libertà non solo economiche ma anche politiche e religiose.
Da quegli anni fino al XIX secolo, il fenomeno si estese a macchia d’olio, conquistando anche le coste oceaniche. I porti franchi di maggiore successo – Livorno, Genova, Trieste e Marsiglia – contribuirono attivamente alla creazione di immagini ideali, dipingendosi come luoghi di sperimentazione di nuove forme di autonomia in diversi campi, dalla morale all’economia, dalla cultura alla religione.
Di fatto questi empori aprivano i battenti a numerosi stranieri che riuscivano a integrarsi con le élites cittadine, ma i problemi non mancavano. Le mescolanze fra diverse culture e religioni erano spesso guardate con sospetto dalle autorità e di fatto non era semplice stabilirsi in un porto franco con la propria famiglia. Al di là delle immagini propagandistiche, la mobilità delle persone era quindi subordinata a una cospicua quantità di ostacoli normativi.
Ne sono esempio eloquente le domande di “beneficio” – potremmo assimilarle, forse con un’approssimazione eccessiva, ai documenti definiti oggi “visti” permanenti – che venivano attentamente vagliate dagli uffici di polizia. Questi ultimi raccoglievano notizie sui richiedenti e, prima di ogni altra cosa, si assicuravano che fossero sufficientemente ricchi per poter acquisire nuovi diritti.
In definitiva, i porti erano certamente franchi per le merci, ma non lo erano altrettanto per le persone.
Alla luce di queste considerazioni, non possiamo certo stupisci nell’osservare la riemersione odierna del mito delle zone economiche speciali, considerate come possibili apripista di nuovi spazi di libertà. La polverizzazione delle strutture statali tradizionali è infatti riconducibile alle crescenti tensioni tra una globalizzazione pervasiva e le forti spinte localistiche che emergono in varie aree del pianeta, mettendo a nudo alcuni dei problemi più scottanti che caratterizzano il rapporto fra le iniziative dei singoli e le regole imposte dai poteri costituiti.
Le ambiguità dei porti franchi, più nello specifico, rivelano con chiarezza le contraddizioni che si celano dietro la pretesa di accostare la libertà economica (intesa quasi esclusivamente come assenza di dazi, tralasciando il colorito immaginario che ha circondato queste esperienze dal 1590 al 1969) alla libertà dell’individuo. È con tutta evidenza un problema dei giorni nostri, più che mai carico di implicazioni.
A confermarlo sono le stesse parole di Sydney Sibilia, che si è preoccupato di descrivere l’esperimento di Giorgio Rosa come una moderna “start-up”, capace di generare reazioni violente in un potere impaurito dalla possibilità di perdere il controllo del suo territorio, fino al punto di cedere a una deriva liberticida.
Ci troviamo in definitiva a confrontarci con una piegatura narrativa di un fatto storico, segnata tanto dalla semplificazione del contenuto quanto dall’attualizzazione dello stesso.
Attraverso uno strumentale abbellimento del passato, il prodotto cinematografico punta a chiarire il presente e a svelare il futuro, a plasmare una memoria condivisa capace di mettere radici nelle odierne contingenze socio-politiche e culturali.
Come hanno spiegato Oren Meyers, Eyal Zandberg e Motti Neiger nel volume collettaneo On Media Memory. Collective Memory in a New Media Age (2011), il nostro ecosistema comunicativo mette in moto processi selettivi che sottopongono la ricerca storica a uno smembramento, salvando alcuni segmenti dei casi indagati e destinando gli altri all’oblio.
Si privilegia in tal modo uno dei bisogni cruciali del nostra società: usare il passato per rappresentare se stessa e i suoi obiettivi, per definire i suoi valori, per celebrare i suoi successi, per giustificare o condannare i suoi fallimenti. Il film sull’Isola delle Rose è pienamente parte di questo processo.
Restituisce agli eventi del 1968 una vita effimera, proiettando la pretesa di storicità all’interno di una rappresentazione impressionistica che si schiaccia sul presente e sul consumo di emozioni. L’autenticità è quindi solo un velo sottile, che occupa i titoli di testa e i titoli di coda.
Foto di copertina di Lorenzo Gaudenzi da Flickr