OPINIONI

Il nome multiplo di Paolo Rossi

Ci ha lasciati ieri Paolo Rossi, campione del mondo, capocannoniere mondiale, Pallone d’Oro. Ma il Mondiale del 1982 è stato l’inizio del sonno e la fine del sogno. Nessuna nostalgia di un’età che non è mai stata d’oro, di un calcio che non è mai stato innocente

Io sono Paolo Rossi come tu sei Paolo Rossi come Paolo Rossi siamo noi e siamo tutti Paolo Rossi. Paolo Rossi è il nome sacro del calcio e il nome multiplo della controcultura italiana, il rapinatore del gol e il maestro della mail art, il prestigiatore dell’area di rigore e il rabdomante dell’ignoto. Paolo Rossi è il personaggio ubiquo uscito da un libro di Jorge Luis Borges o di Thomas Pynchon. Chiunque abbia l’età per averlo visto fare piangere il Brasile, trovandosi in Italia o all’estero nella sua vita è stato chiamato almeno una volta Paolo Rossi. Segnando un gol e festeggiando agitando le braccia la cielo, è stato almeno una volta Paolo Rossi.

 

Tutti siamo stati Paolo Rossi e Paolo Rossi è stato tutti noi per un istante durato un’eternità, un’estate del 1982 quando in pochi giorni ha annientato il Brasile triste di Zico, l’Argentina dannata di Maradona, la Polonia papista di Boniek e la Germania feroce di Rumenigge.

 

L’Italia non vinceva un Mondiale da quasi mezzo secolo, e l’aveva vinto solo con le camicie nere e i saluti romani, con la violenza e la corruzione. E dopo cinquant’anni di incerta democrazia e tentati assalti al cielo, in pieno riflusso, tra una bomba alla stazione e un tentativo di colpo di stato, torna a vincerlo di nuovo un’Italia forse meno fascista ma di sicuro altrettanto corrotta. E lo vince nascondendosi dietro le spalle gracili e l’incedere incerto di questo fuoriclasse assoluto, buono come il pane eppure capace di fare il duro per un solo attimo, quell’estate del 1982, quando il gioco lo prevedeva, quando il pallone glielo chiedeva.

Era l’Italia di Licio Gelli e Michele Sindona, di Artemio Franchi e di Italo Allodi, che tessevano trame nere e stragi di stato, adulavano arbitri e compravano partite. Mai come allora il calcio aveva una funzione onirica. Se i primi due dovevano colpire e reprimere gli altri due dovevano arginare e circoscrivere. Gli operai nei reparti confino, i militanti di sinistra in galera, le nuove generazioni inondate di eroina. Ventidue ragazzi in maglia azzurra e pantaloncini bianchi a vendere sogni per non pensare alla realtà, il numero venti a sublimare a sua insaputa quello spettacolo.

 

 

C’erano Zoff, Cabrini, Gentile e Scirea. C’erano Antognoni, Tardelli, Conti e Causio. C’erano Pruzzo e Beccalossi, no anzi, loro non c’erano. Il vecio Enzo Bearzot li aveva lasciati a casa per affiancare a Cicco Graziani il sorprendente Paolo Rossi, che anni prima aveva fatto sognare il piccolo Lanerossi Vicenza, trascinandolo a suon di gol al secondo posto. Poi era stato protagonista di un clamoroso contenzioso di mercato con la Juventus che ne deteneva ancora parte del cartellino. E poi era andato a Perugia e aveva continuato a segnare e poi ancora era finito nel ciclone del primo calcioscommesse venendo squalificato per due anni. Era finito. Era pur sempre l’Italia di Licio Gelli e Michele Sindona, di Artemio Franchi e di Italo Allodi, delle trame nere che esondavano la realtà e scurivano anche il mondo dei sogni, quello del pallone.

 

Quell’estate del 1982 Bearzot lo convoca dopo mesi di inattività, terminata proprio alla vigilia del Mondiale. L’Italia insorge, l’Italia vuole sognare, l’Italia vuole distrarsi.

 

L’Italia vuole Beccalossi non vuole quel mingherlino che gioca sempre d’anticipo, che sparisce dal campo per riapparire come un prestigiatore davanti alla porta solo per infilare il pallone in rete, che non ha il physique du rôle da eroe, che anzi ha un nome comune, troppo comune. Chiunque potrebbe essere Paolo Rossi. L’Italia nel girone arranca, avanza solo a suon di bonifici, e quel Paolo Rossi qualsiasi è fuori forma, non segna. L’Italia protesta, l’Italia odia, l’Italia vuole sparare. L’Italia vuole Pruzzo non vuole quell’operaio massa del gol, quel colletto bianco della rapina, che ha la faccia da buono la voce da timido e non ha atteggiamenti da divo, che anzi ha un nome comune, troppo comune. Chiunque potrebbe essere Paolo Rossi.

L’Italia si ricrede. La storia diventa mito, il racconto diventa leggenda. Il nome multiplo di Paolo Rossi diventa lo specchio dell’eresiarca di Borges e il cospiratore della truffa postale di Pynchon. Fa piangere il Brasile triste segnandogli tre gol, fa bestemmiare la Polonia papista rifilandogli una doppietta, fa incazzare la tremenda Germania con la rete che indirizza la finale.

Campione del mondo, capocannoniere mondiale, Pallone d’Oro. Ora tutti in Italia vogliono essere Paolo Rossi, ora tutti in Italia si rendono conto di essere anche loro Paolo Rossi. Il nome perde di significato, si svuota anche il significante. Paolo Rossi si trasforma in una figura retorica atta a indicare tutto e niente, è l’eteronimo di un attimo, la metonimia di un momento. Paolo Rossi è un istante che risuona ovunque. Ogni italiano da lì e per diversi lustri a venire sarà sempre e ovunque Paolo Rossi.

 

L’Italia di Licio Gelli e Michele Sindona, di Artemio Franchi e di Italo Allodi raggiunge il suo scopo. Il Mondiale del 1982 è l’inizio del sonno, è la fine del sogno. Nessuna nostalgia di un’età che non è mai stata d’oro, di un calcio che non è mai stato innocente.

 

Bombe, proiettili, eroina, arresti, processi e galere agiscono nel nome di quelle magliette azzurre e di quei pantaloncini bianchi, aprendo la via alla postmodernità neoliberale degli anni Ottanta. La nuova violenza non è più liberatoria, è maggioritaria e silenziosa. Agisce nell’ombra tessendo trame cospirazioniste nel nome di Paolo Rossi, ovvero di tutti e di chiunque. Chiunque potrebbe essere Paolo Rossi. Chi è Paolo Rossi, colui che dorme o colui che è sognato da chi dorme?

Paolo Rossi è il sogno innocente del bambino e la meraviglia estatica di un adolescente, Paolo Rossi è l’incubo del riflusso e l’arma non convenzionale della repressione. Paolo Rossi è un nome cui il destino ha imposto di trascendere la sua natura umana per trasformarsi nella complessità del simbolo e nella contraddizione del mito. Paolo Rossi è un uomo, Paolo Rossi è un nome, Paolo Rossi è il calcio. Io sono Paolo Rossi come tu sei Paolo Rossi come noi siamo Paolo Rossi. Siamo stati e saremo per sempre Paolo Rossi.