MONDO
«Da grande voglio essere il migliore amico di Maradona»
La storia di Stefano Ceci, il bambino che sognava di stare vicino al più forte calciatore del mondo. E ci riuscì. Uno dei tanti episodi di realismo e magia che si mischiano durante il passaggio nel mondo del Pibe de Oro e si irradiano tutto intorno alla sua vicenda
«El tano siempre está presente». Tano è la parola con cui in Argentina chiamano gli italiani. La leggenda dice che viene da napolitano, città d’origine di tanti emigranti dell’inizio del secolo scorso, oppure dal fatto che guardando il mare dalla costa di Buenos Aires i nativi dello stivale sospirassero dicendo: «Lontano». Il tano a cui si riferiva Diego Armando Maradona, però, era uno in particolare, con tanto di nome e cognome: Stefano Ceci.
Nato nel 1973 nel centro storico di Napoli, Ceci si trasferisce dieci anni più tardi a Catanzaro Lido. Il cambio di latitudine non basta ad attenuare la fede calcistica della famiglia. Così il 5 luglio del 1984 il bambino è stretto con il padre tra gli 80mila tifosi che riempiono all’inverosimile lo stadio San Paolo. Dentro non si gioca nessuna partita, ma c’è un ragazzo di 24 anni con i capelli ricci e un sorriso dolce che palleggia e tira i palloni in curva. È Diego Armando Maradona. È appena arrivato nel golfo partenopeo e ha fatto andare fuori di testa una città intera.
Un anno dopo Ceci si apposta fuori da una partita con il papà. Vede e insegue il Dieci che prova a filarsela senza farsi riconoscere. Lo bloccano, Stefano gli si piazza accanto, il papà scatta.
Stefano Ceci e Diego Armando Maradona (foto tratta dal libro)
Passano quindici anni e il bimbo è diventato un ragazzo. È l’ottobre del 2000. Maradona è finito in una clinica cubana, sotto le ali calde del compagno Fidel Castro che vuole aiutarlo a disintossicarsi dalla cocaina. Tanti finti amici lo hanno scaricato, Ceci invece prende un aereo e atterra a La Havana. In tasca ha quella fotografia. Si apposta fuori dalla clinica dove è ricoverato Diego.
Non riesce a incontrarlo. Torna a Catanzaro ma resiste solo due settimane. Risale sul volo intercontinentale e questa volta decide di provarle tutte. Allunga una banconota al vigilante, porta dei regali, non si muove dalla porta che lo divide dall’idolo. Continua a chiedere che gli sia mostrato lo scatto che li ritrae insieme.
«C’è di nuovo il tano», dice il manager Guillermo Coppola.
«Quale tano?», risponde Maradona.
«Quello dell’altra volta».
«E che vuole?».
«Dice che vuole stare con noi».
Riesce a entrare, conoscerlo, dichiarargli un amore irrazionale, inspiegabile. Si incontrano, diventano amici. Ceci si fa crescere i capelli ricci. Si spara due orecchini a sinistra e uno a destra. Va in giro con due orologi. Sul braccio destro ha il tatuaggio di Che Guevara. Tutto come Maradona. Diego pippa e Stefano pippa. Diego ingrassa e Stefano ingrassa. Il 18 dicembre 2004 rientra in Italia con la cocaina in tasca. Lo beccano. Finisce in carcere e poi ai domiciliari. Ha 31 anni, come quando il Dieci viene arrestato per possesso di polvere bianca a Buenos Aires (21 aprile 1991). «In carcere il gemello di Maradona», titolano i giornali. Qualche mese dopo la detenzione finisce e Ceci può finalmente riabbracciare il suo amico, che lo vede grasso e lo convince a sottoporsi all’accorciamento del tubo digerente, operazione che lui stesso ha già fatto. Telefona in Calabria per convincere la mamma.
Ceci rimane al fianco di Maradona per anni. Partecipa all’ultima cena di Natale in cui c’è donna Tota, l’amata madre che Diego ha rimpianto fino all’ultima intervista (30 ottobre scorso a Clarìn, nel giorno dei 60 anni). Lo tira per le spalle per interrompere la rissa con Juan Sebastián Verón dopo la fine del primo tempo della partita per la pace organizzata da Papa Francesco nel 2016. È al suo fianco nel Mondiale russo del 2018 quando apre le braccia come Leonardo Di Caprio sul Titanic per festeggiare un gol dell’Argentina, prima di sentirsi male e finire in ospedale.
Sulla copertina del libro Maradona, il sogno di un bambino c’è Diego che abbraccia Stefano. Sono due adulti, ma la tenerezza che traspare è quella che unisce i bimbi. Tra le pagine scorre l’incredibile biografia di un uomo che nella vita voleva diventare il miglior amico del Pibe de oro. E ci è riuscito.
Maradona guarda l’Argentina in tribuna d’onore al mondiale di Russia 2018, alla sua destra Stefano Ceci
LA STORIA, LE STORIE
La cosa più assurda della vicenda di Ceci è che è vera. Realismo e magia che tanti scrittori sudamericani hanno mescolato nelle pagine dei romanzi, Maradona li ha fatti vivere fuori dai libri, nel mondo. Nei goal che ha segnato, negli immaginari che ha creato, nelle persone che ha incrociato e in quelle che da lontano hanno creduto di stabilire una relazione con lui.
Magico è l’inizio. Il bambino di Villa Fiorito che nel fango prende a calci palloni sgonfi e quando si trova in mezzo al campo dell’Argentinos Juniors, come raccattapalle, inizia a palleggiare stregando il pubblico. «Que-se-quede, que-se-quede, que-se-quede». Dagli spalti chiedono che rimanga a giocare. Diego è ancora piccolo, ma intorno a lui le leggende crescono rapidamente. «Se tutti quelli che dicono di avermi visto debuttare in prima squadra fossero stati allo stadio la partita si sarebbe dovuta giocare al Maracaná, non a La Paternal», scrive nella splendida autobiografia Io sono el Diego.
Gli anni passano velocemente, il ragazzo rifiuta l’offerta del River Plate pieno di soldi e accetta quella del Boca Juniors che non ha un peso. Il suo cuore batte per la squadra dei proletari, che ha la cancha nel quartiere che si proclamò repubblica. Siccome i soldi scarseggiano ma Diego Armando trascina le folle, lo portano in giro come un animale da circo. Nel 1981 parte in tournée in Costa D’Avorio. Spera di potersi riposare dagli sciami di persone che lo amano e inseguono, invece quando arriva: «I neri travolgevano i poliziotti armati di machete e mi circondavano, mi dicevano “Die-gó! Die-gó!”. Riuscirono davvero a emozionarmi. Venne uno e mi salutò chiamandomi: “Pelusa”». Il soprannome della villa miseria di Fiorito aveva superato l’oceano ed era arrivato in Africa. L’«eccesso di popolarità» che gli provocherà tanto piacere e tanto dolore è già iniziato. Ha solo 21 anni.
Maradona ad Abidjan
«Il mio sogno in quel momento era completamente folle: avrei voluto giocare una partita con i ragazzini, con avversari ragazzini, ragazzini sulle tribune, uscieri ragazzini, polizia di ragazzini… solo ragazzini. Innocenti», scrive Diego. Invece finisce al Camp Nou di Barcellona dove rimedia delusioni, un lungo infortunio e provoca un’enorme rissa durante la Coppa del Rey. Da lì: Napoli. Sette anni dal 1984 al 1991.
Si rende conto che nelle due stagioni precedenti la squadra partenopea non è retrocessa di un soffio solo dopo aver firmato il contratto. «Allora chiesi se per lo meno mi garantivano tranquillità. Mi dissero di sì». Invece durante le trattative i tifosi erano già impazziti, si erano incatenati in piazza Plebiscito e avevano organizzato scioperi della fame per fare pressione sulla società, affinché non si lasciasse sfuggire il fenomeno. L’avrebbero soffocato d’amore, per sempre.
Una vittoria fuori casa con la Juve manda cinque persone dallo stadio in ospedale: due infarti e tre ricoveri d’urgenza per accumulo di tensione. I suoi goal fanno esplodere anche la curva dei padroni di casa: «Non capivo che succedeva, ma poi mi resi conto che erano napoletani emigrati a Torino».
Durante un prelievo l’infermiera trafuga la provetta col sangue e la porta in chiesa, affianco a quello di San Gennaro. Un suo capello diventa reliquia e finisce in un’edicola votiva meta di pellegrinaggio. L’immagine inizia a comparire nei vicoli e nelle case, sopra i letti, al posto di quella di Gesù Cristo. Vendica la sconfitta delle Falklands stendendo l’Inghilterra con la mano e i piedi de Dios. Vince il mondiale ’86 in Messico, ma alla fine della partita con cui porta per la prima volta lo scudetto a Napoli sbotta: «Questo è più bello perché ho vinto nella mia terra».
Maradona entra per la prima volta al San Paolo, 5 luglio 1984
E poi la cocaina, i boss Giuliano, i bambini che nascono qua e là e si chiamano Diego e Diego jr., a volte figli non riconosciuti, altre solo aspiranti tali. Maradona che convince una parte di tifosi partenopei a tifare contro l’Italia nella semifinale di Italia ’90 giocata al San Paolo. Maradona che ringhia hijos de puta mentre tutto l’Olimpico gli fischia l’inno del paese argentino per fare male solo a lui. Maradona arrestato per possesso di cocaina a Buenos Aires con la stampa fatta appostare fuori. Maradona squalificato che risorge e torna nel mondiale di Usa ’94. Quando lo fanno fuori per delle ambigue tracce di efedrina, in Bangladesh uno che lo ama si suicida.
L’amore è diventato religione e intorno a Diego è nata una chiesa. Si chiama chiesa maradoniana e suggella i matrimoni con la frase «la pelota no se mancha». Il pallone non si sporca. È una delle più famose, entrate nell’uso comune della lingua insieme a parole coniate direttamente da lui o intorno alla sua figura. «Yo me equivoqué y pagué pero la pelota no se mancha». Io ho sbagliato e pagato, ma il pallone non si sporca. Il Dio del calcio che è insieme uno e trino e quindi anche profondamente uomo, con tutti i difetti e le contraddizioni portate all’ennesima potenza, si assume le sue responsabilità di fronte alle persone che lo circondano e alla storia.
Cadrà ancora e ancora si rialzerà. Da numero uno continuerà a denunciare i potenti del mondo, contro gli Usa e con Cuba, Venezuela e i governi progressisti dell’America Latina, e ad accusare i potenti del football, anche quando potrebbe accomodarsi nel ruolo di ligio ambasciatore dello sport più pagato al mondo. «In Argentina nessuno piangerà quando tipi come Havelange, Blatter e certi dirigenti moriranno».
Buenos Aires, commozione e malori ai funerali di Maradona, foto di Martina Perosa e Nacho Yuchark per lavaca.org
Per lui, invece, piangono a milioni. Dai quartieri popolari Buenos Aires una moltitudine proletaria, forse simile a quella che accorse ai funerali di Evita Perón, sfida il Covid-19 e si riversa nella Casa Rosada. Il palazzo presidenziale è invaso dai poveri, tra lacrime, cori, palloni e bambini. Alcuni svengono in prossimità del corpo. Fuori la polizia della città guidata dal macrista Larreta carica, ma il governo nazionale di Alberto Fernández e di Cristina Kirchner condanna le violenze degli agenti e gli impone di fermarsi. Durante el traslado del féretro la gente lo insegue a piedi o in motorino, sale sugli alberi e si accalca sui ponti per guardare el camino de Dios. A Napoli lo stadio è circondato e illuminato di rosso da migliaia di persone, mentre già si annuncia il cambio di nome: da San Paolo a Dio Diego.
Tutti gli occhi del mondo sono ancora puntati su di lui, tutte le prime pagine dei giornali sono rapite dal suo sorriso e dai suoi capelli ricci. I miracoli del santo popolare non sono finiti con la morte. Il vuoto che lascia è appena iniziato. Per tutti quelli che da bambini o da grandi sognavano di essere suoi amici.
ps: tra le tante frasi che ci lascia, in questi giorni ne va ricordata una: «Nemmeno morto mi lasceranno in pace. Mi usano in vita e troveranno il momento per farlo anche quando sarò morto»
Nella foto di copertina persone che si avviano verso la Casa Rosada per salutare Maradona, sullo sfondo il palazzo con il volto di Evita Perón. Immagine di Nacho Yuchark per lavaca.org