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ITALIA
Per un femminismo instagrammabile
Vogliamo davvero arrenderci all’idea che Freeda sia l’unica pagina instagram “femminista” di successo? Un viaggio attraverso l’attivismo femminista su instagram e nel web
Iscriversi a una piattaforma come instagram o facebook è certamente contraddittorio, in qualche modo condividiamo i nostri dati su piattaforme proprietarie, che grazie a essi creano profitti e allo stesso tempo ci sorvegliano. Ma se fai attivismo, e uno dei tuoi obiettivi è raggiungere più persone possibile, puoi fare a meno dei social network? Il dibattito è aperto.
I social sono attraversati dalle stesse persone che attraversano le strade ogni giorno, e i conflitti che percorrono ogni società necessariamente si riproducono anche nei social network, sebbene possano essere talvolta amplificati o sopiti da fattori distinti. Lo stesso discorso vale per la violenza. Così come viviamo in una società misogina e sessista, allo stesso modo i social possono essere un luogo di violenza etero-patriarcale. E la violenza online non è meno reale di quella offline. C’è la violenza mediatica, c’è il cyberbullismo, ci sono gli hater, ci sono i gruppi di revenge porn.
«Anche per questo è molto importante essere presenti nella rete – spiega Ambra, attivista di Non Una Di Meno – A fronte della violenza che può attraversare queste piattaforme, è fondamentale appropriarsi di uno spazio che sia transfemminista, antirazzista e antifascista anche online». Stare criticamente sui social è un atto politico che ogni giorno propone nuove sfide aprendo scenari diversi. Quello che segue, quindi, è un viaggio attraverso alcune esperienze militanti che provano a utilizzare in modo critico i social, rendendoli, a loro volta, strumenti di lotta e di mutuo aiuto.
La trappola del brand feminism
Adattarsi in maniera astuta alle piattaforme che si attraversano è una sfida complessa. Prendiamo instagram. Mentre su altri social si possono condividere articoli, scrivere lunghi post e intavolare discussioni a volte infinite, su instagram niente di tutto ciò è possibile. Se non hai almeno 10 mila seguaci non puoi condividere i link, i post non hanno più di 2000 caratteri, e nelle stories puoi scrivere al massimo qualche riga. Insomma, su instagram vincono le immagini, o le frasi a effetto. Questo a volte può essere una trappola. E per l’attivismo femminista, questa trappola si chiama brand feminism, un fenomeno più antico di quanto si possa immaginare e attualmente è incarnato in modo esemplare da una delle pagine più controverse e discusse degli ultimi tempi: Freeda.
Facciamo un test: quali di queste frasi provengono dal profilo instagram di Freeda e quali dal profilo di Non Una Di Meno?
1) «Meno vestiti non significano meno rispetto»
2) «Insieme siamo più forti»
3) «Sui nostri corpi decidiamo noi»
4) «Abolire la legge sull’aborto non significa eliminare gli aborti, ma incentivare quelli illegali»
5) «Dopo una sbronza mi aspetto un mal di testa, non uno stupro»
La soluzione si trova in fondo all’articolo. Difficile da risolvere? Stai per scrollare il resto dell’articolo per andare a vedere la soluzione? Non ti preoccupare, questo non vuol dire che sei unə “cattivə femminista”. Vuol dire semplicemente che le frasi a effetto sono un’arma a doppio taglio: possono essere uno slogan efficace per una campagna politica su instagram, ma possono anche essere sfruttate da un brand che usa l’etichetta del femminismo per fini commerciali.
Non che questo sia una cosa necessariamente da condannare. Come spiega Ambra: «È un fenomeno che fa capire come il movimento femminista sia dirompente, perché quando la pubblicità, ma anche la moda, il cinema, le serie tv provano ad appropriarsi di tematiche femministe, vuol dire che il mondo mainstream non può più far finta di niente». Freeda a oggi conta 1,7 milioni di seguaci su instagram. Se una o un adolescente, che non sanno nulla sul femminismo, incappano in un post di Freeda con delle frasi accattivanti sul consenso o sul piacere femminile, non è certo una cosa negativa in sé. Il problema è quando queste frasi rimangono vuote, senza pratiche dietro che le sostengano.
L’enorme fraintendimento intorno a Freeda, e su cui la stessa pagina gioca, è che spesso viene scambiata per una pagina di attivismo femminista. Ma Freeda non è attivismo, è un modo sofisticato ed efficace di fare pubblicità. Dietro a Freeda non ci sono attivistə, ci sono imprenditori, social media manager, video maker. Questo non fa di Freeda una pagina femminista? Dipende ovviamente dalla concezione che si ha di femminismo.
Come scrive Laurie Penny in Unspeakable Things – Sex, Lies and Revolution, giornalista britannica e attivista: «Non sono qui per dirti come essere una femminista, o se dovresti esserlo o meno. Io mi definisco una femminista per scopare e perché è un ottimo modo di liberarsi dai maniaci nei bar. Ma il femminismo non è un’identità. Il femminismo è una pratica. Chiamati come vuoi, l’importante è ciò per cui combatti. Inizia adesso». E allora instagram, e i social, possono essere anche uno spazio di pratica femminista?
La rete transfemminista
Nel corso degli anni ‘70 l’irrompere del movimento femminista in Italia è accompagnato dalla proliferazione di pubblicazioni e riviste femministe: sorgono dovunque collettivi e gruppi di donne che si riappropriano della loro narrazione, il loro strumento principale è la carta stampata. Nel 2020 per un collettivo o gruppo di donne lo strumento più immediato di comunicazione sono instagram e facebook.
È andata così per il movimento di Non Una Di Meno: «Era il 2016, l’anno in cui fu uccisa Sara Di Pietrantonio, quando con la rete di collettivi femministi romani decidemmo di organizzare un presidio a Magliana, dove ebbe luogo il femminicidio – racconta Ambra – Dopo il presidio volevamo lanciare una manifestazione nazionale per il 25 novembre e ci siamo dette: come facciamo a raggiungere più persone e collettivi possibile?» E così, dopo una piccola assemblea al centro antiviolenza Lucha Y Siesta, nasce la prima pagina facebook di Non Una Di Meno e il relativo blog, nella versione gratuita di wordpress.
Quel 25 novembre, il movimento femminista irrompe nelle piazze e nella scena pubblica, così come sul web. La costituzione di ogni nodo territoriale di Non Una Di Meno è accompagnato dalla nascita della relativa pagina facebook. «Era come se con la creazione della pagina si riconoscesse l’esistenza dell’assemblea territoriale – continua Ambra – e quando sorgeva un collettivo, fisico, composto sia da giovanissime sia da donne che venivano dal femminismo degli anni ‘70 o da percorsi queer e transfemministi … Immediatamente nasceva la pagina facebook che era il megafono con cui questo collettivo prendeva parola».
Un femminismo instagrammabile
«A un certo punto ci siamo accorte che più scendi con l’età, meno stai su facebook – racconta Chiara, attivista di Obiezione Respinta – La maggior parte delle ragazze sotto i vent’anni infatti utilizza principalmente instagram. E quindi ci siamo chieste: come arrivare alle più giovani?»
Obiezione Respinta è un progetto che nasce nel 2017 tra le assemblee femministe di Pisa, ma in breve tempo, grazie alla rete di Non Una Di Meno, si espande in tutta Italia. L’obiettivo principale è quello di mappare sia gli obiettori di coscienza negli ospedali pubblici sia le farmacie che si rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo, dei cinque giorni dopo, o i preservativi. Una vera e propria mappa, realizzata su dei server autogestiti, che, grazie alle segnalazioni provenienti da tutta Italia, ti può dare velocemente un’idea sulle farmacie o i medici da evitare se vuoi praticare un aborto o comprare dei contraccettivi. Ed è tramite i profili social e l’indirizzo email che arrivano le segnalazioni.
Se all’inizio c’era solo la pagina facebook, con il tempo lə attivistə di Obiezione Respinta si sono resə conto che non potevano più fare a meno di aprire un profilo instagram. «Secondo noi è fondamentale stare su instagram se pensiamo a chi vogliamo parlare – continua Chiara – quando uno dei tuoi obiettivi è quello di fare informazione sulla contraccezione e sulla sessualità libera, è molto importante arrivare alle più giovani. E ovviamente ti devi adattare al linguaggio di questa piattaforma, che è quello dell’immagine, delle storie, dei video». Con la creazione di info-grafiche efficaci e accattivanti, o appuntamenti come “la domenica della contraccezione”, lə compagnə di Obiezione Respinta si sono lanciatə nell’attivismo su instagram, ottenendo anche un notevole successo, in termini di interazioni con lə utenti, messaggi e segnalazioni ricevute.
Comunità online e offline
Tuttavia l’azione del collettivo non si limita solo alla mappatura e alla condivisione delle segnalazioni, perché, come dice Chiara, «Nella concretezza della nostra vita, oltre alla denuncia e alla testimonianza, c’è anche altro. Se una donna ci scrive per raccontarci la sua esperienza, che è stata difficile e faticosa, perché spesso poter abortire in Italia è un inferno in terra, cosa succede dopo quella denuncia? Non può rimanere solo lì». Ed è qui che entra in gioco l’interazione tra la comunità online e quella offline. Dove per comunità intendiamo qui un gruppo non chiuso di persone, prive di una gerarchia, che si riuniscono per aiutarsi a vicenda, riconoscendosi nelle difficoltà ed esigenze dellə altrə.
È quella che si sta creando ormai da anni attorno all’iniziativa di Obiezione Respinta, sia attraverso le donne e le soggettività libere che, commentando i post sui profili social del collettivo si dànno consigli a vicenda condividendo le loro esperienze, sia attraverso gli strumenti di aiuto messi a disposizione dallə attivistə. Ne sono un esempio lo sportello di ascolto accessibile una volta a settimana e il telefono attivo ogni ora per chi avesse bisogno di informazioni di emergenza, o anche semplicemente di una voce non giudicante con cui parlare della propria situazione. Inoltre, per rendere pubblica ed evidente la denuncia che viene fatta on line, in giornate di mobilitazione come l’8 marzo o il 22 maggio, lə attivistə, sia a Pisa, sia negli altri nodi territoriali, compiono azioni simboliche con striscioni o attacchinaggi sulle farmacie segnalate negativamente.
Contro-narrazioni
IVG ho abortito e sto benissimo ha l’obiettivo di scardinare la narrazione tossica dell’aborto come qualcosa di necessariamente doloroso e traumatico. E lo fa tramite il blog e i profili social, su instagram e su facebook. Come racconta Federica: «Erano quasi solo gli uomini a parlare di aborto e, anche nei casi meno ostili, la trama era comunque sempre la stessa: già per una donna è estremamente doloroso abortire, poverina, lasciamoglielo fare. Ma qualcosa sta cambiando». L’iniziativa in due anni ha raccolto oltre 150 testimonianze, restituendo così questa narrazione a chi, un aborto, l’aveva fatto. Dalla collaborazione con Obiezione Respinta è nato “Insieme stiamo benissimo”, uno strumento di accompagnamento all’aborto per chi non se la sente di andare da solə al consultorio o alla visita ginecologica. Un altro caso in cui la contro-narrazione online si è intrecciata con l’azione concreta di supporto e denuncia.
Riprendersi la propria storia è l’obiettivo anche di un altro blog e profilo instagram, InsightOut, creato da due studentə, Valeria e Anita, per dare la possibilità a chiunque di parlare apertamente delle violenze e degli abusi vissuti sulla propria pelle. «Spesso tendi a sminuire queste cose – racconta Anita – perché magari l’ambiente che ti circonda ti fa pensare che non sia grave e preferisci non disturbare nessuno. Ma parlare di ciò che si è vissuto è fondamentale per poter andare avanti». Il sito è in inglese, perché l’intento è quello di poter arrivare a più persone possibili, visto che le frontiere geografiche su internet sono un concetto molto relativo, ma c’è la possibilità di scrivere anche in italiano e la storia verrà poi tradotta e pubblicata in due lingue.
Questo bisogno di raccontarsi è qualcosa di molto diffuso nel web, come racconta Ambra, tra le admin dei profili instagram e facebook di Non Una Di Meno: «Riceviamo continuamente messaggi, su entrambe le piattaforme. Persone di tutte le età ci raccontano le loro storie di violenza, i loro vissuti, ma a volte si tratta anche di richieste di aiuto per le situazioni più varie». Un’esigenza di raccontarsi, quindi, necessariamente legata alla consapevolezza di poter trovare, su determinati profili social, un supporto femminista, che va dall’ascolto alla costruzione di vere e proprie campagne politiche. Forse è proprio questo, un femminismo instagrammabile. Alquanto diverso dai prodotti sponsorizzati nei video di Freeda.
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Immagine di copertina: Vittorio Giannittelli