EDITORIALE
Climate Strike: stessa piazza, nuove sfide
Fridays For Future torna in piazza in tutta Italia per la prima volta dopo l’inizio della pandemia, in un contesto più complesso pieno di sfide e di nuovi conflitti da agire contro le lobby del fossile
A quasi 10 mesi dall’ultimo Climate Strike, oggi 9 ottobre, il movimento per la difesa del clima torna in almeno 80 piazze italiane con una giornata di mobilitazione nazionale che si prospetta partecipata ed agguerrita. La giornata di sciopero, chiamata da Fridays For Future si inserisce in sinergia con la settimana di ribellione di Extinction Rebellion, che ha visto diverse azioni dirette e comunicative in luoghi chiave della capitale: dal Parlamento fino al palazzo dell’Eni all’Eur, dove da ieri mattina decine di attiviste e attivisti climatici sono incatenati all’ingresso per strappare un incontro con il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli.
In questi 10 mesi il contesto politico nazionale e mondiale è stato completamente stravolto dall’emergenza sanitaria della pandemia di Covid-19. Dopo una giornata potente e conflittuale come quella del 29 novembre 2019 ci si aspettava una primavera di manifestazioni radicali, azioni e scioperi importanti, mentre per mesi le mobilitazioni si sono date prevalentemente online. Queste ultime, oltre a essere meno efficaci, rendono l’agire politico più frammentato e vaporoso nonché rischiano di indebolire in modo strutturale le reti e le relazioni reali tra gruppi e movimenti.
Tali esiti del lockdown e del distanziamento fisico hanno messo in difficoltà tutti i movimenti e le collettività politicamente attive, ma forse per il movimento per il clima il colpo è stato ancora più duro, perché molto giovane. Nato il 15 marzo dello stesso 2019, composto in parte considerevole da giovanissimi alla prima esperienza politica e fortemente connesso e ispirato da un movimento globale paralizzato dalla pandemia.
Malgrado ciò, alcuni segnali di ripresa e di vitalità si sono indubbiamente notati e vanno evidenziati. Nel mese di maggio Fridays For Future è riuscito a organizzare una protesta simbolica davanti ad Eni durante la AGM dell’azienda. In estate gli Fff della Valsusa sono stati tra gli animatori del presidio permanente ai Mulini, davanti al cantiere di Chiomonte, organizzando anche un weekend di mobilitazione a luglio con qualche centinaio di partecipanti da varie parti d’Italia.
A settembre infine il Climate Camp a Venezia ha visto un’azione importante contro la raffineria Eni di Marghera e lanciato la nuova coalizione nazionale Rise Up for Climate che vuole aggregare collettivi e soggettività in un manifesto di intenti che riporta tra gli altri punti «Dobbiamo colpire i punti nevralgici del sistema estrattivista che ci opprime, attraverso mobilitazioni di massa e azioni dirette. Dobbiamo mettere in gioco i nostri corpi per bloccare, sabotare e distruggere l’apparato che i nemici della vita mettono in campo» ma anche «Sappiamo che il Covid-19 è parte integrante della crisi climatica, causato dalla distruzione degli ecosistemi e dalla predazione delle forme di vita. Dobbiamo opporci all’uso che il capitale sta facendo di questa pandemia come acceleratore dei processi di sfruttamento, controllo e devastazione».
Anche a livello europeo si sta cercando di riprendere la lotta per difendere il clima in diversi ambiti. Lo sciopero di Fridays for Future si è svolto in molti paesi il 25 settembre, con esiti più che dignitosi in alcuni di essi. In Germania in particolar modo più di 200.000 persone hanno manifestato in piazza, e soprattutto altri 3.000 hanno partecipato alla settimana di mobilitazione del movimento Ende Gelende che ha portato a nuove occupazioni di miniere a cielo aperto contraddistinte dalla radicalità della azione diretta di massa che in molt* hanno da sempre ammirato.
Le potenzialità di riaggregazione di un vasto movimento mondiale per il clima, pertanto, sono tutte in campo. La strada non è, certo, né spianata né agevole ma quantomeno agibile.
Tuttavia, la sfida che il movimento deve affrontare non è solo quella di riaggregare e mobilitare nonostante la pandemia Covid-19, le quarantene e il distanziamento. Un altro problema che rende complesso e sdrucciolevole il terreno di scontro e di conflitto sono le azioni e le proposte delle grandi corporation del fossile e l’azione dei governi, piegati alle esigenze delle prime.
La pandemia ha reso evidente la fragilità del pianeta in cui viviamo e ha aumentato la consapevolezza della necessità di maggiore “cura” non solo di noi stess*, ma anche dell’ambiente.
Tanto i governi quanto le multinazionali sono consapevoli della diffusione di questa accresciuta sensibilità. Se i primi da mesi blaterano di Green New Deal, una sigla che può voler dire tutto e niente, le seconde stanno invece attuando una strategia molto più intelligente.
Anzitutto le grandi imprese stanno esercitando forti pressioni per fare sì che l’emergenzialità dettata dalla pandemia permetta una deregolamentazione delle norme ambientali da rispettare. A seguito del martellare continuo di Confindustria, il governo ancora una volta chino al suo volere ha approvato il decreto Semplificazioni, che tragicamente “semplifica” appalti, cantieri e quindi offre la possibilità per le aziende di costruire, inquinare, abusare del territorio.
In secondo luogo, si registrano varie iniziative per le quali la tradizionale etichetta del “greenwashing” forse non è sufficientemente adeguata.
La “Repubblica” di John Elkann ospita da qualche giorno una nuova sezione del suo sito dal nome Green and Blue: una sorta di melassa informe monogusto che aggrega dubbi articoli di Carlo Petrini, analisi sull’inquinamento da plastica e stucchevoli approfondimenti in cui si elogiano le multinazionali per i loro sforzi verso la green economy. L’evento di lancio della sezione poi, ha proposto tavoli di discussione coi i vertici del capitalismo inquinante italiano, da Banca Intesa a Eni, tutti prodighi a disegnare grandi strategie per il futuro verde del nostro paese, pronto a risorgere dopo la pandemia. Continuando con gli esempi, notizia di ieri è che l’Unione Petrolifera Italiana cambierà nome e diventerà “Unione Energie per la mobilità” dimostrando pure scarsa considerazione per l’intelligenza media delle italiane e italiani che dovrebbero così convincersi dei loro buoni intenti.
Probabilmente l’esempio più significativo è però quello del “grande cattivo” cioè Eni, riconosciuto capace di greenwashing da tempo, fino ad essere stato già condannato con una multa per la propria dicitura ingannevole sul diesel.
Eni, ricordiamolo, è una azienda talmente innervata all’interno delle strutture dello Stato italiano da riuscire in ogni scenario ad aver pronta una strategia per accrescere il proprio business avvalendosi della copertura statale.
Per gran parte delle aziende inquinanti legate al fossile – come ad esempio le compagnie aeree – la pandemia è un momento di crisi, ma al tempo stesso per molte è l’occasione per rimodulare le proprie attività al fine di farle apparire più verdi, e nel frattempo prenotarsi per l’accaparramento di fondi pubblici, in arrivo dall’Europa in quantità mai viste prima. Ed è questo proprio il caso dell’azienda guidata dal plurindagato Claudio Descalzi, che sta svolgendo una propaganda quotidiana sui giornali del Belpaese a sostegno di un suo megaprogetto di Carbon Capture Storage, (CCS), a Ravenna – promozione evidentemente finalizzata a richiedere e ottenere i fondi del Recovery Fund, peraltro già ampiamente promessi da governo e parlamento, entusiasti delle proposte di Eni.
Nessuno però sta facendo un semplice debunking delle frasi di Descalzi, per dire la elementare verità. Il CCS è una tecnica vecchia, costosissima, altamente pericolosa, che si fonda sulla cattura di Co2 e la sua immissione sott’acqua o sottoterra. Viene nascosto da Descalzi e dai media che la Co2 che si vuole immettere è quella prodotta da fonti fossili, gas in primis, e che pertanto è una tecnologia che giustifica e fomenta gli investimenti verso le fonti fossili (esplorazioni, nuovi pozzi, nuovi gasdotti) con la scusa di nascondere, in modo rischioso, una parte della Co2 prodotta. Il CCS è green più o meno quanto lo è il nucleare.
Pertanto, quasi nessun giornale sta scrivendo che con i soldi con i quali l’Europa dovrebbe aiutare l’Italia a uscire dalla crisi economica, l’Eni vuole sotterrare la Co2 nelle trivellazioni al largo di Ravenna che sono esaurite (o quasi) e in questo modo eviterebbe pure i costi della loro dismissione, varie volte promessa ai governi di turno.
Re:common assieme alla coalizione europea Fossil Fuels Politics ha scritto un report estremamente ricco che traccia e denuncia tutte queste manovre aperte e nascoste attraverso le quali la lobby dei fossili sta manovrando la crisi economica a proprio vantaggio in tanti paesi europei, mettendo inevitabilmente in difficoltà il movimento climatico che aveva nella fine dell’era del fossile una propria richiesta centrale.
Va da ultimo ricordato che gli enormi investimenti nel Recovery Fund hanno spinto Bruxelles a ridurre in modo significativo quelli promessi a fine 2019 per la decarbonizzazione del continente, con la scusante che questa dovrebbe avvenire anche attraverso i fondi per la pandemia.
Per queste ragioni parlare di greenwashing delle imprese è limitato e forse perfino deviante, perché solitamente si fa riferimento, con quel termine, a un’attività sostenibile (o in apparenza tale) che permette di ripulirsi da attività sporche. Quello che sta ora accadendo è ben più grave: le aziende legate al fossile (incluse le banche che le finanziano) stanno approfittando dello scenario inedito determinato e scardinato dalla pandemia Covid-19 per accrescere il proprio potere politico di controllo sugli Stati e poter così continuare indisturbate ad aumentare i propri profitti persino in un mondo alle prese con il problema della “cura”.
Questo è il contesto insidioso in cui si muove il movimento per il clima, che è chiamato a un faticoso e meticoloso lavoro di controinformazione, studio, analisi, proposta e azione politica collettiva e contrattacco. L’impegno che tale contesto richiede è così rilevante che creare coalizioni con altri movimenti, in primis quelli per la salute, ma pure quelli per la giustizia sociale diventa estremamente urgente. Parimenti, anche gli altri movimenti dovrebbero forse riconoscere che sul campo ambientale si sta giocando una partita anticapitalistica fondamentale: perderla potrebbe portarci velocemente a scenari apocalittici quali quelli che quasi ogni mese gli scienziati prospettano per il prossimo futuro, a causa del cambiamento climatico sempre più visibile.
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