ROMA
Indesiderati. I campi rom come istituzione totale
Il paragone nemmeno troppo azzardato tra i manicomi studiati da Erving Goffman e i campi rom della città di Roma nella ricerca “Asyslum” appena pubblicata dall’associazione 21 Luglio, attiva da anni all’interno delle comunità presenti nella capitale che sono spesso oggetto di sgomberi e cattive politiche
Obiettivo: sollevare il velo di ipocrisia che ha ammantato le scelte delle amministrazioni comunali capitoline degli ultimi 25 anni ogni qualvolta che si è affrontato il tema di garantire una soluzione abitativa degna per le persone povere, di origine rom specialmente. Così come fece la pubblicazione nel 1961 da parte del sociologo canadese Erving Goffman, dell’opera tradotta in Italia da Franco Basaglia, “Asylums” che andava a indagare le cosiddette istituzioni totali: “I meccanismi dell’esclusione e della violenza”, per dirla con il suo sottotitolo, squarciava il velo di finzione che avvolgeva la psichiatria degli anni’50, mostrando come i malati psichiatrici fossero trattati, in realtà, come soggetti indesiderabili, persone che dovevano essere allontanate dal corpo sociale.
In questo modo, dunque, la ricerca “Asy(s)lum” (un gioco di parole tra Asylum e Slum), appena pubblicata da parte dell’Associazione 21 luglio, «ci mostra gli effetti perversi a cui dà vita il sistema di esclusione sociale imperniato su un altro gruppo vulnerabile, i rom in condizione di povertà, e sull’idea che questi debbano vivere all’interno di campi», scrive il sociologo delle migrazioni all’Università del Salento, Antonio Ciniero, nella prefazione al volume. «Luoghi espressione di quell’urbanistica del disprezzo nei quali confinare, emarginare, allontanare dalla stessa vista della maggioranza degli abitanti delle città», li definisce ancora Ciniero: «porzioni di umanità indesiderata».
Come definire, altrimenti, i racconti di vita vissuta nei campi mono-etnici della Capitale che emergono dalla ricerca dell’Associazione 21 Luglio. Voci come quella di M., che ha raccontato: «Siamo otto fratelli, nati tutti a Roma, tranne il più grande, nato in Jugoslavia. Ho vissuto in sei campi diversi. Sono nata e cresciuta in un campo, mi sono sposata in un campo, ho avuto i miei figli in un campo». E ancora: «Sono stata a Salone per 7 anni, l’ultimo campo in cui ho vissuto, grazie al cielo».
In via di Salone n. 323, oltre la via Collatina, al di fuori dal grande raccordo anulare, espulsi dalla Città, abitante del campo che doveva essere il fiore all’occhiello del “piano Alemanno”, nato nel 2006 per “accogliere”, inizialmente, 600 persone provenienti dalla Bosnia, dalla Romania, dalla Serbia e finito a ospitare nel 2014 oltre 1200 persone.
Storie, di chi ora nei “campi” e nei “centri di raccolta rom” non ci vive più, ma ha trovato alloggio in abitazioni ordinarie. È il racconto di E., che ora ha 21 anni e nel campo di via Gordiani, a 7 km dal centro, nel quartiere di Centocelle, ci è nato e cresciuto. E che ha rivelato: «Ora vivo a Tor Bella Monaca con la mia famiglia che è composta da quattro persone, mamma è italiana, papà è di origini rom. Ci hanno assegnato una casa popolare da sei mesi, dopo 20 anni di attesa». Speranze coltivate di nuova vita, per chi è uscito dal “campo”. Come quelle di V. «Vivo a Roma da quando sono nata. Abbiamo vissuto prima del campo di via Casilina, ma io avevo quattro anni e non mi ricordo niente. Poi nel 2000 ci siamo trasferiti nel campo di via Salviati. Siamo stati 18 anni in quel campo. Ho aspettato quattro anni e mezzo per questa casa, non vedevo l’ora. Quando l’ho saputo ho pensato “Miracolo”!».
Racconti di vita caratterizzata da quasi internamento, vera e propria segregazione. Lo dicono le parole pronunciate da M. «Vivendo lontano dalla città e senza mio marito che lavorava tutto il giorno fuori, pensavo “Adesso cosa faccio? Dove vado con i ragazzini?”. Se tu stai fuori dal raccordo non ci sono possibilità di uscire dal campo, non c’è il pullman, non c’è niente».
E quelle di P., «da adolescente, quando vivevo al campo non potevo rientrare più tardi delle otto perché i collegamenti erano uno schifo. Dovevo fare minimo 3 km a piedi per arrivare all’autobus o al treno. Io non uscivo. Ho ricominciato a uscire adesso. Sto vivendo una seconda adolescenza».
Far parlare attraverso le interviste semi strutturate – come hanno fatto i ricercatori della 21 Luglio – le persone che l’esperienza del campi l’hanno ormai superata (nello specifico, un campione composto da 5 donne e 4 uomini di età compresa tra i 20 e i 45 anni che condividono il fatto di aver vissuto in uno o più insediamenti formali della Capitale per un periodo di tempo superiore a 10 anni) è una precisa scelta metodologica della ricerca. La stessa che è usata da Goffman per indagare gli elementi di disculturazione (la perdita di competenze basilari e necessarie per la vita a contatto con la società maggioritaria) e quelli di stigmatizzazione (l’ex internato, per il fatto stesso di provenire da un’istituzione totale, non trova collocazione nel mondo esterno e viene da questo respinto). Come ha scritto il sociologo Alessandro Dal Lago, a proposito dell’opera di Goffman: «Si descriveva il carattere collusivo delle carriere psichiatriche (i percorsi di istituzionalizzazione degli internati), il mondo dello staff, le cerimonie istituzionali e infine gli adattamenti degli internati alla cultura istituzionale, ovvero la loro lotta di resistenza per mantenere spazi di dignità».
Così, allo stesso modo, i campi rom, definiti altrimenti negli ultimi 25 anni “campi nomadi”, “villaggi della solidarietà”, “campi tollerati”, allestiti in Italia e soprattutto a Roma, unicum nel panorama europeo, attraverso fondi provenienti da istituzioni pubbliche, sono tecnicamente degli “slum mono-etnici”; e questi, sì, somigliano tutti a quelli che in tutto il mondo sono i ghetti, le baraccopoli, gli slum, appunto.
Strutture che assai da vicino ricordano come Goffman descriveva gli ex manicomi, con identica architettura di tipo carcerario, con le stesse mura di cinta e, come essi, soprattutto, disposti ai margini delle città, dove collocare gli “indesiderati”.
Come i campi rom della Capitale, collocati nelle estreme periferie, nascosti dentro reticolati spesso arrugginiti che ne delimitano il perimetro fatto di baracche, container, roulotte scassate, sorvegliati all’esterno dai vigili urbani o dai vigilantes privati, istituzioni temporanee che poi negli anni sono divenute permanenti. E, dunque, i vari “campi rom” realizzati a Roma dal 2004 al 2018 possono essere considerati una specie particolare di istituzione totale? E per uscirne, trattandosi di una “fabbrica del malessere”, è necessario promuovere strategie di de-istituzionalizzazione? Se sì, in che modo? Queste sono le domande a cui cerca di rispondere la ricerca “Asyslum”, presentata per la prima volta lo scorso 1° ottobre, alla presenza, tra gli altri, di Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà.
Immagine di copertina di Daniele Napolitano dalla pagina Facebook dell’Associazione 21 luglio