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Utilità di un film sbagliato
Planet of the Humans è un documentario estremamente contestabile e pieno di inesattezze sul piano giornalistico e analitico. Allo stesso tempo rappresenta anche una grande occasione per fare chiarezza su ruolo e prospettive per le presenti e future battaglie ecologiste
Michael Moore, lungo tutta la sua carriera, ha incarnato e continua ancora in un certo modo a porsi come punto di riferimento per un pubblico di sinistra/progressista soprattutto grazie alle sue feroci, caustiche, e appassionanti investigazioni satiriche della società Americana a partire dagli anni ‘80. Film come Roger & Me (1989), Bowling for Columbine (2002), Fahrenheit 9/11 (2004) e 11/9 (2018) non rimangono solo emblematici della sua abilità di filmmaker nel cogliere turbamenti, tensioni e contraddizioni dell’American Way of Life; questi titoli costituiscono anche altissimi esempi, all’interno della forma documentaristica, della possibilità di integrare un punto di vista intimo con un avvincente mix di partecipativo-guerrilla filmmaking e una geniale istrionicità nel montare, riutilizzare e commentare immagini di repertorio.
Stupore e rabbia (credo per molte/i) hanno, quindi, accompagnato vedere il nome di Moore associato ad un documentario che ha come obiettivo esplicito quello di screditare il ruolo di numerose ONG ambientaliste e, soprattutto, di negare in termini assoluti l’utilità di fonti di energia rinnovabile per combattere il riscaldamento globale.
Da sostenitore del noto documentarista ho cercato inizialmente di evitare il film, accumulando rabbia e disgusto soprattutto nel vederlo rimbalzare fra pagine e siti di negazionisti climatici d’estrema destra. Non è stato d’aiuto neanche pensare che il documentario sia stato realizzato da Jeff Gibbs (suo collaboratore storico) o razionalizzare ricordando quanto, in generale, il cinema di Moore sia sempre stato poco interessante dal punto giornalistico e analitico, ed estremamente potente, invece, nel suo versante satirico (Capitalism: A Love Story, 2009, ad esempio, vale pochissimo come disamina del neoliberismo, delle sue strutture e dinamiche, ma ha picchi geniali nel suo smontare ironicamente l’ideologia edonista reaganiana).
Superate le reticenze e una volta affrontata la ‘maledetta’ visione ci si ritrova un film che riutilizza, quasi pedissequamente, le sopracitate forme del cinema di Moore senza presentare particolari innovazioni e che, anzi, fallisce nel costruire un’efficace e appassionante dissezione dell’urgente ‘transizione verde’. Ciò detto, il film, proprio grazie alle sue inesattezze e mancanze, e ai suoi essenziali limiti prospettici costituisce una grande occasione per chiarire alcuni punti della cruciale questione ecologica e della natura politica della crisi ambientale.
Altre/i più competenti del sottoscritto hanno già provveduto a smontarne le tesi, dimostrando come le informazioni riportate nel film sull’insostenibilità dell’energia solare ed eolica non abbiano alcun fondamento scientifico o siano basate su dati e sviluppo tecnologico risalenti agli anni novanta (nel peggiore dei casi).
Ha suscitato legittimo orrore, d’altra parte, vedere come il film si faccia esplicitamente portavoce della necessità di abbracciare non tanto una generale trasformazione produttiva, quanto un progressivo e costante controllo delle nascite come esplicita soluzione tecnica alla crescente devastazione ambientale. Il noto attivista e giornalista George Monbiot, così come anche moltissime/i esponenti dei movimenti ecologisti, hanno fatto notare come questa presunta soluzione sia implicitamente accompagnata da un discorso di natura razzista e colonialista (utilizzato infatti anche da gruppi eco-fascisti).
Si attribuirebbe implicitamente, quindi, la responsabilità per il consumo incontrollato di risorse alle popolazioni più povere del pianeta, colpevoli non solo del loro stesso sfuttamento e della loro condizione precaria, ma anche, apparentemente, di fare troppe/i figlie/i, pur partecipando in men che minima parte del ‘benessere’ distruttivo del 10% più ricco del globo.
Il discorso di Gibbs rimane superficiale e non prende in alcun modo in considerazione le lotte per il controllo dei diritti riproduttivi delle donne, o i complessi rapporti di forza estrattivi esistenti fra vari poli del pianeta o all’interno di particolari contesti nazionali. D’altra parte, molto potrebbe essere detto per affrontare in modo piu appropriato la questione del sovrappopolamento globale, usando come punto di partenza per una visione ecologica, socializzata, e non-antropocentrica della vita, la bellissima lezione-intervista data recentemente da Donna Haraway per il Salone Internazionale del Libro di Torino.
Ciò che resta, invece, come nodo problematico e scottante all’interno di Planet of the Humans è la presunta delegittimazione dei movimenti ecologisti.
Da un lato quest’ultimi vengono presentati come un blocco unico, omogeneo in strategie, tattiche e complicità con grandi gruppi economici, inclusi persino i famigerati Koch Brothers, primi sostenitori dell’energia fossile; similmente, tali organizzazioni appaiono troppo manipolate da alcune lobby liberal nel sostenere progetti apparentemente green ma dall’impatto ambientale devastante, come dimostra un’approvazione acritica, da parte di alcuni di esponenti di rilievo del mondo ambientalista, della produzione di biodiesel.
D’altra parte e, pur tenendo presenti limiti ed errori di alcune associazioni ambientaliste messe sotto accusa da Gibbs, con l’eccezione di un parziale scambio con Vandana Shiva (neanche presentata in sovraimpressione) il regista non prende in alcuna considerazione le organizzazioni ecologiste entrate in scena negli ultimi anni. Non vengono nominate/i nè intervistate/i esponenti di Exinction Rebellion, del Sunrise Movement, o del partito Democratic Socialists of America, ecc. (solo per citare alcuni casi noti nel contesto statunitense e non) e, ciò che è peggio, rimane completamente ignorato il cosiddetto Green New Deal, il piano di investimenti verdi e programmazione pubblica decentralizzata avanzato da economisti ‘eretici’ come Ann Pettifor, sostenuto da Alexandria Ocasio-Cortez o dalla stessa Naomi Klein (anch’essa espressasi in contrasto al film di Gibbs). In effetti, a fare una magra figura nel film sono soprattutto personaggi illustri del mondo liberal come Al Gore (la qual cosa lascia poco sorpresi) o l’idea che il consumo verde possa, in ultima analisi, rappresentare la soluzione per ogni nostro problema (ma va?). Ed è, in effetti, esattamente su questo ultimo punto che si presenta la questione dirimente per una migliore comprensione della crisi ecologica.
In primo luogo il fatto che attori e agenti economici di ogni genere trovino o abbiano trovato un’occasione di possibile espansione e accumulazione capitalistica nella cosiddetta transizione verde (anche solo in termini di branding e greenwashing), sostenendo persino modelli energetici in contrasto fra loro (proprio come nel caso dei Koch Brothers) non deve suscitare scalpore o sorpresa.
Lenin scriveva che un capitalista venderebbe anche la corda con cui lo si impiccherà subito dopo, evidenziando esattamente il carattere transformativo e allo stesso tempo monologico del nostro modello sociale. D’altro canto la sistemica incompatibilità fra capitalismo ed ecologia risulta palese se prendiamo solo minimamente in considerazione la sua origine estrattiva, e l’intrinseca necessità di produrre sempre nuovi mercati, forza lavoro e risorse da espropriare e sfruttare. Inoltre, pensare che la soluzione alla crisi ecologica possa essere ridotta ad una formula tecnologica è altrettanto miope ed autoconsolatorio (come del resto la sopra-menzionata ‘tecnica’ Malthusiana volta a vedere nel controllo delle nascite la panacea per il riscaldamento globale) così come bearsi di un presunto consumismo verde. Ebbene sì, comprare tantissime macchine elettriche (invece di combattare per un sistema di trasporti pubblico, sostenibile, ed esteso) non vi permetterà di salvare la nostra specie nè vi rende ecologisti, soprattutto se finite per giustificare le posizioni e dinamiche di controllo monopolistico tecno-fasciste di personaggi come Elon Musk o Jeff Bezos (tutt’altro che portavoci di un modello di sostenibilità dal punto di vista ambientale, lavorativo, ed economico).
Ritornando, invece, ad alcune parole chiave del Green New Deal, ciò che deve essere all’ordine del giorno di mobilitazioni trasversali ed efficaci è la natura politica ed etica della crisi ecologica.
Bisogna, quindi, smettere di attaccare il cosiddetto modello di sviluppo esistente in modo astratto e parziale, per rivendicare in primo luogo una costruzione effettivamente socializzata e cooperativa del sapere scientifico (un’urgenza di cui ci accorgiamo proprio ora, durante la prima crisi dell’Antropocene). Per lo stesso motivo bisogna ricordare come reddito, cura, democrazia, lotta a meccanismi di colonizzazione estrattivista siano essenzialmente battaglie ecologiste. Ecologia significa decidere della produzione e sulla produzione; implica ripensare insieme lo sviluppo urbano oltre le logiche della gentrification e dell’espropriazione del comune; ci spinge a decostruire e sovvertire dinamiche di genere in tutti gli ambiti dell’esperienza quotidiana; rende necessario ripensare la cittadinanza e l’esistenza intraspecie all’interno di una spazio inevitabilmente globale; rivendica l’esistenza al di fuori di meccanismi strettamente produttivi ed estrattivi; ci induce, quindi, al ripensare il mondo seguendo la lezione preziosa di pensatrici/tori come Felix Guattari fra le/i molte/i.
La storia del capitalismo non è che un sospiro all’interno dell’esperienza della nostra specie (per non usare termini di paragone più ampi). Sta al nostro immaginare e produrre insieme forme di vita decidere se questo debba essere il sospiro fatale dei noti versi di T. S. Eliot o se possa diventare invece l’occasione per l’esplosione di un nuovo mondo.