NELLE STORIE
14-16 agosto 1936: il massacro di Badajoz
Le truppe spagnole e coloniali marocchine al comando del colonnello Juan Yagüe, investono la città di Badajoz, aprono una breccia nelle mura grazie alla superiorità in artiglieria e al sostegno dei bombardieri Savoia-Marchetti inviati dal regime mussoliniano e si impadroniscono del centro. Furono massacrate 4000 persone, il 10% della popolazione,
Il capoluogo dell’Estremadura, al confine con il Portogallo, chiuso nella più lunga cinta muraria di tutta la Spagna, aveva la disgrazia di essere il punto di passaggio obbligato fra l’Andalusia, occupata con il golpe di luglio dai ribelli di Franco, e l’area castigliano-galiziana in mano alle truppe di Mola.
Conquistare quella roccaforte “rossa” era dunque necessario non solo per unificare il territorio controllato dai ribelli ma garantire l’egemonia di Franco sulla galassia dei generali felloni dell’Alzamiento nacional.
Dopo aver conquistato Mérida e aver fatto strage dei contadini, che nella poverissima Estremadura avevano osato occupare le terre dei latifondisti, le truppe spagnole e coloniali marocchine al comando del colonnello Juan Yagüe, “el carnicero de Badajoz” destinato a un fulgido avvenire militare e ministeriale, investono la città, aprono una breccia nelle mura grazie alla superiorità in artiglieria e al sostegno dei bombardieri Savoia-Marchetti inviati dal regime mussoliniano e si impadroniscono del centro.
I prigionieri, miliziani, soldati e civili, sono concentrati nella Plaza de Toros e già la sera della conquista cominciano le esecuzioni in massa, fucilazioni e più sbrigativamente tiro di mitragliatrici, mentre sugli spalti la buona borghesia agraria e il clero fanno festa. Si comincia con il sindaco e il deputato socialista e gli ufficiali, poi gli altri, il sangue fuoriesce dal perimetro dell’arena e scorre a rigagnoli per tutte le strade. 4.000 assassinati corrispondono a circa il 10% della popolazione totale di Badajoz.
A differenza degli eccidi di Siviglia e dell’Andalusia rurale, stavolta (errore che non sarà ripetuto) al seguito dell’esercito in marcia ci sono le fanfare e i corrispondenti stranieri, che, per quanto ben disposti ed embedded, forniranno resoconti agghiaccianti della mattanza.
Non solo i neutrali Jay Allen della “Chicago Tribune” e Jacques Berthet del “Journal de Genève”, ma perfino Mário Neves dell’alleato portoghese “Diário de Lisboa” descrivono le fucilazioni in toni indignati: François Mauriac, inizialmente favorevole al non-intervento (in pratica al sostegno ai franchisti), svolta in senso filo-repubblicano con un celebre articolo pubblicato il 18 agosto su “Le Figaro”, perfino l’allora filo-falangista Georges Bernanos si ricorderà dell’arena di Badajoz nella ritrattazione dei Grandi cimiteri sotto la luna del 1938.
L’addetto militare dell’ambasciata tedesca e, in pratica, consigliere non ufficioso del fronte sud, Hans von Funck, da bravo Junker prussiano che si era fatto la sua cavalleresca campagna di Francia e poi combatterà, suppongo meno civilmente, in Russia, sconsiglia l’invio di truppe regolari a sostegno di Franco perché teme che «i soldati si demoralizzano […] a contatto con la brutalità e ferocia con cui l’esercito d’Africa sviluppa le sue operazioni». Bene i bombardamenti terroristici di Guernica, perché i piloti restano a distanza delle vittime, bene le atrocità nazionali di quei burini delle SA, ma troppo sangue sparso aggratis danneggia le uniformi immacolate della Reichswehr.
Del resto, lo stesso Yagüe non ha peli sulla lingua. Intervistato dal corrispondente della “New York Herald Tribune”, John T. Whiteker, rivendica a posteriori con rozza sincerità: «Ma certo che li massacriamo. Che si aspettava? Che mi tirassi dietro 4.000 prigionieri rossi mentre avanzavo senza sosta? O lasciarli liberi nella retroguardia così che Badajoz diventasse rossa un’altra volta?».
Sia Mola che Franco hanno dato ordini precisi di sterminio del ceto dirigente del Fronte popolare e degli ufficiali lealisti, ma l’estensione della repressione e la sua strumentazione legale varia secondo le zone, più selettiva e formale nel nord della Spagna, condotta con la brutalità di una guerra coloniale in Andalusia, dove i contadini sono trattati come gli indigeni del Marocco (e non a caso con largo impiego del Tercio e di ascari). Yagüe, ufficiale efficiente, rappresenta perfettamente, a sangue freddo, il sadismo del suo superiore, l’ubriacone e incompetente Queipo de Llano, carnefice a luglio del proletariato sivigliano.
Il massacro di Badajoz militarmente aprì la strada all’attacco a Madrid dal sud, politicamente rivelò al mondo intero la portata epocale dello scontro e divise il mondo cattolico, soprattutto francese, inizialmente fautore della causa franchista.
Il monumento a Yagüe, eretto nella natia San Leonardo, fu ripetutamente vandalizzato e infine decapitato e rimosso nel 2008-2009, in ottemperanza alla Legge sulla memoria storica. Molto discusso continua a essere, pur spogliato dai simboli più politici, il sepolcro di Queipo de Llano nella basilica della Macarena, nei cui pressi furono eseguite oltre 3.000 fucilazioni di “rossi”. Ah, la cancel culture…