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Il Vento di Black Lives Matter

“Via col vento” rappresenta solo uno dei tanti modi attraverso cui la società americana ha “normalizzato” la subordinazione sociale delle persone di colore. In risposta alle spinte del movimento Black Lives Matter, HBOMax ha deciso di far precedere il film da un’introduzione che discute gli aspetti problematici del film. Ma l’industria dell’entertainment americana ancora oggi ha una relazione difficile con la rappresentazione delle minoranze

In una delle sue ultime interviste, David Foster Wallace parlava del linguaggio delle immagini e di come esso modifichi completamente la vita vissuta. «Le persone della mia generazione sono state cresciute dalla televisione. Alcuni dei nostri modi basilari di relazionarci alla cultura e alle altre persone sono stati modellati dalla tv». L’esempio che portava era quello del bacio: «Quando i miei nonni si sono baciati per la prima volta, fino a quel momento avevano visto forse un centinaio di baci. I miei genitori, che sono cresciuti col cinema mainstream hollywoodiano, al momento del primo bacio avevano visto magari un migliaio di baci. Quando io sono arrivato al mio primo bacio, avevo già visto decine di migliaia di baci». David Foster Wallace era nato nel 1962, era un baby boomer, e le cifre di quelle immagini pregresse si sono solo esponenzialmente moltiplicate per le generazioni venute dopo la sua, aggiungendo a quelle della televisione e del cinema anche il linguaggio per immagini dei social network; immagini che sempre più si sostituiscono ad altre modalità di fruizione del mondo, mediando costantemente la realtà. Scegliamo questo esempio, l’esempio di un saggista e romanziere che nella sua opera ha lungamente e brillantemente analizzato il rapporto tra pubblico statunitense e intrattenimento audiovisivo, perché l’attuale dibattito sul senso politico delle immagini e sulla loro rimozione o ricontestualizzazione ha molto, quasi tutto, a che vedere con quello specifico rapporto, in quella specifica nazione che sono gli Stati Uniti d’America.

 

Hollywood

 

Facciamo un altro esempio. Il 1° maggio veniva distribuita su Netflix la nuova serie di Ryan Murphy, Hollywood. Un’ucronia in cui si immagina che, nella Los Angeles del 1946, un gruppo di autori e attori appartenenti a minoranze etniche riescano a mandare nei cinema statunitensi un film con protagonista un’eroina afroamericana, facendo incetta di Oscar. Questo film fittizio, inizialmente previsto con un finale tragico in cui la giovane protagonista soccombe all’impietosa macchina hollywoodiana, viene riscritto, affinché invece si rialzi e scelga di combattere per il suo posto nel mondo (e nell’industria). Quello di Murphy è uno smaccato gioco al “what if”: negli anni 40, con la segregazione razziale ancora lontana dall’essere anche solo intaccata, per gli afroamericani e per le altre minoranze gli unici ruoli sul grande schermo potevano essere di servitori, domestici, cameriere, schiavi. E se invece avessero avuto ruoli da protagonisti? E se invece l’industria avesse proposto sugli schermi immagini di afroamericani vincenti, con un ventaglio intero di possibilità? E se fossero stati inclusi nelle narrazioni cinematografiche sul Sogno americano? Gli Stati Uniti, nazione “giovane”, abituata a mettersi in scena e a raccontare il proprio mito, ha codificato il comportamento del buon americano nel cinema mainstream (alla stregua, se vogliamo, di quanto in una nazione dalla storia immensamente più stratificata come la nostra accadeva assai prima con la letteratura: semplificando noi abbiamo avuto Pinocchio, gli americani hanno avuto Frank Capra), ha educato generazioni di spettatori al mito del self made man, rigorosamente bianco. Quanti neri protagonisti aveva visto al cinema la generazione dei genitori di David Foster Wallace, prima che la stagione del movimento dei diritti civili avesse inizio con l’azione di disobbedienza civile di Rosa Parks, attivista del NAACP, su un bus di Montgomery, Alabama nel 1955? Nessuno (o forse giusto uno, dato che Carmen Jones uscì alla fine del 1954).

 

Hollywood

 

Nella serie di Murphy, dal sapore di favola con momenti anche stucchevoli, si ipotizza proprio questa fantapolitica inversione di rotta, dicendo chiaramente che il cinema può cambiare il mondo, e che raccontare sullo schermo la storia di una donna nera che si afferma come attrice nella Hollywood anni 40 poteva ispirare migliaia di spettatori, sia bianchi sia neri, e aprire la via a una tolleranza nuova. Chiaramente, non funziona così, perché i rapporti sociali e la loro evoluzione sono questioni complesse; ma il sottotesto della favola di Hollywood è che il cinema no, non cambia il mondo, ma ha il potere di dare forma al modo in cui vediamo il mondo. E per le generazioni cresciute con l’intrattenimento audiovisivo, ha il potere di consolidare percezioni, anche di stampo razzista. Quando diciamo che gli Stati Uniti sono piagati da razzismo sistemico, intendiamo che questo razzismo è esteso a ogni parte del sistema: non si tratta solo degli hate crime e delle ingiustizie sociali e salariali, della grottesca percentuale di afroamericani incarcerati, dell’accesso all’istruzione e al sistema sanitario. Il razzismo sistemico passa anche attraverso pratiche consolidate nei decenni, i cui risultati non sono più in grado di infiammare l’opinione pubblica, ma proprio perché assodate e date per scontate rappresentano un ostacolo arduo da rimuovere nel percorso per l’uguaglianza: pensiamo all’urbanistica e al modo in cui la distribuzione degli alloggi e la ghettizzazione degli afroamericani ha ridisegnato le piante delle città (lo spiegano, in modi differenti, due ottimi prodotti come Show Me a Hero, miniserie di David Simon, e il documentario Rat Film di Theo Anthony). Lo stesso vale per l’industria audiovisiva, che è parte del sistema, così come lo è la rappresentazione che quell’industria offre degli afroamericani e di altre minoranze: il razzismo sistemico passa anche da lì, da raffigurazioni più o meno esplicitamente razziste, dalle caricature, dalle blackface (che nell’ideologia americana richiamano esplicitamente i razzisti minstrel show del XIX secolo), dall’associazione automatica con la criminalità, dal limitato spazio sullo schermo, dal topos dell’emancipazione sofferta, per cui ogi percorso di successo del personaggio afroamericano passa inesorabilmente attraverso il sacrificio, il dolore, la punizione, l’isolamento o l’alienazione dalla comunità di appartenenza (citiamo un titolo paradigmatico di recente, e per chi scrive eccessivo, successo: Green Book).

 

Show Me a Hero

 

Ecco perché la visibilità sullo schermo, cuore narrativo di Hollywood, ha un significato potente, che corrisponde a una legittimazione a livello sociale: relegare gli afroamericani a ruoli minori e di subalterni era sì frutto della segregazione razziale, ma era anche il mezzo con cui l’industria dell’audiovisivo perpetuava e normalizzava quell’immagine. E ancora oltre, la premiava, facendone un esempio da ricordare: come narrato in Hollywood, Hattie McDaniel vinse l’Oscar per Via col vento, per il ruolo della devota schiava Mammy, ma non fu nemmeno ammessa in platea con gli altri attori bianchi per la cerimonia dei premi. Tuttavia, il suo Oscar, legato storicamente all’incarnazione di uno stereotipo di stampo razzista, rimase per decenni l’unico ricevuto da un’attrice afroamericana (fino alla vittoria di Halle Berry nel 2002), contribuendo a fissare l’immagine di un’intera categoria attoriale a un personaggio squalificante o, nella migliore delle ipotesi, controverso.

Poche settimane dopo l’uscita di Hollywood, proprio quel personaggio, Mammy, e quel film, Via col vento, sono stati il punto di partenza per una accesa discussione sul linguaggio delle immagini. L’uccisione di George Floyd, solo l’ultima (anzi, nemmeno l’ultima) nella lunga serie di omicidi perpetrati da agenti di polizia su individui afroamericani, ha infiammato negli Stati Uniti manifestazioni di piazza e violenti riot, e poi, a cascata, una serie di riflessioni e considerazioni da parte di protagonisti e distributori dell’industria audiovisiva statunitense circa la rappresentazione di stereotipi razziali. Tra cui quella dello sceneggiatore di 12 anni schiavo John Ridley, relativa alla necessità di affrontare gli aspetti problematici di Via col vento. Il quale è, si è detto spesso nelle scorse settimane, un film “figlio dei suoi tempi”: certo, ma vediamo come.

 

Via col vento

 

Via col vento mette in scena la Guerra di secessione, guerra civile innescata dalla volontà di parte degli States di interdire la schiavitù, e adotta il punto di vista dei sudisti, lasciando ampio spazio a una visione assai romantica e idealizzata della compravendita e dello sfruttamento di esseri umani. Ma Via col vento non è un film razzista perché racconta un’epoca in cui la schiavitù era legale e molto apprezzata dai ricchi sudisti; razzista è la rappresentazione degli schiavi nel film, dipinti come figure di devoti subalterni, felici di servire i propri padroni e di essere malmenati e sfruttati per le loro capacità o mancanza di esse. La figura di Mammy, in particolare, è uno stereotipo estremamente diffuso e radicato nella cultura statunitense, nella letteratura come nel teatro e poi nel cinema: una schiava rotonda e compiacente, sorridente o bonariamente brusca, sempre pronta ad accudire il padrone e occuparsi delle sue necessità. Una figura subdola proprio per il modo in cui non esaspera né estremizza la dinamica tra bianchi e neri, bensì la mitiga e semplifica: una visione ambigua che si presta a essere utilizzata, paradossalmente, anche in senso antirazzista, con notevoli fraintendimenti (si legga, a questo proposito, il contributo di Cheryl Thompson sulla persistenza di un comportamento “mammyesco” di quieta accondiscendenza, come chiave per farsi accettare in un ambiente a dominante bianca).

Come conseguenza dell’intervento di Ridley, Warner ha scelto di ritirare Via col vento dalla piattaforma streaming HBO Max per ripristinarlo con una introduzione filmata di circa 5 minuti, a cura della studiosa e docente afroamericana Jacqueline Stewart, che si occupa della contestualizzazione del film, ribadendone il valore e l’assoluta importanza di essere visto nella sua interezza mentre evidenzia gli aspetti di edulcorazione dello schiavismo e di raffigurazione caricaturale e svilente dei personaggi neri. Non si tratta di “spiegare il film”, non si tratta di considerare il pubblico troppo ignorante per comprendere il linguaggio del cinema; si tratta, volendo, esattamente del contrario, ovvero di riconoscere l’estrema chiarezza e potenza del linguaggio audiovisivo, capace, essendo grande cinema, di imprimere nell’immaginario tutti gli stereotipi succitati, e capace a distanza di 80 anni (chi scrive l’ha verificato durante l’acceso dibattito di queste settimane) di far prevalere nella memoria collettiva gli aspetti buffi, bonari e positivi di un personaggio come Mammy. Da questo punto di vista, la scelta di Warner di applicare l’introduzione, indubbiamente dettata dalla volontà di intercettare le esigenze della sua utenza e di non perdere abbonati, risulta sensata, nella misura in cui può mettere in luce, per chi avrà voglia di non “skippare” il video, gli aspetti realmente problematici della rappresentazione sullo schermo.

 

Via col vento

 

Una scelta editoriale, non una censura, esattamente come scelte editoriali, di segno opposto e assai più semplicistiche, sono quelle che si sono susseguite, a spron battuto, nei giorni successivi, per cui piattaforme come Hulu e Netflix hanno rimosso episodi di serie televisive come Scrubs e Community in quanto includevano esempi di blackface, indipendentemente dal contesto in cui essa era inserita (in alcuni casi è stato addirittura l’autore delle serie a optare per la rimozione, come Tina Fey per la sua 30 Rock). Scelte discutibili, perché la rimozione (per quanto, crediamo, non definitiva) non può in alcun caso contribuire a un discorso necessario sulle modalità di rappresentazione delle minoranze. Più complesso il discorso legato all’effetto domino delle defezioni di doppiatori bianchi dai ruoli di personaggi animati appartenenti a minoranze: come spesso accade, tra la risonanza mediatica e la plateale ipocrisia degli attori statunitensi, il senso delle cose è sfuggito di mano. Poco ci importa delle futili e anche un po’ imbarazzanti scuse pronunciate da interpreti vocali che dicono di essersi accorti solo ora di aver sbagliato nel doppiare un personaggio (pensiamo alla pur bravissima Allison Brie, voce di Diane Nguyen in BoJack Horseman); sono loro i primi a travisare un movimento che, nella sua forma originaria, troviamo non privo di senso. Non si tratta, infatti, di voler appiattire il linguaggio cinematografico e televisivo su un deplorevole grado zero della messa in scena per cui “solo i neri possono interpretare i neri, solo gli asiatici possono interpretare asiatici” e così via (anzi, a essere appiattito, in un doppiaggio esclusivamente bianco, è l’inglese parlato, privato delle peculiarità di inflessione e di gergo che arricchiscono i vernacular english propri delle minoranze, annullati dove non addirittura scimmiottati). Il punto, come ancora una volta ben spiegato da Hollywood, è che per decenni, dalle origini del cinema a oggi, gli interpreti bianchi hanno avuto accesso a ogni tipo di ruolo, a scapito di interpreti di etnie differenti. Il punto non è che un bianco non possa dare la voce a un personaggio vietnamita; ma che un attore vietnamita abbia, oggi come 80 anni fa, scarsissime possibilità di essere scelto per quel ruolo.

 

Via col vento

 

Come si modifica una prassi calcificata in 120 anni di storia dell’audiovisivo, e fondata su ineguaglianze sociali macroscopiche per le quali si lotta in tutt’altra sede rispetto a Hollywood? Chi scrive non ritiene certamente di avere una risposta pronta né esaustiva, ma un modo per cominciare a cambiare le cose, a livello industriale, è la cosiddetta “discriminazione positiva” o affermative action: le famose e tanto controverse quote obbligatorie di presenza di donne o afroamericani o membri della comunità LGBTQI e così via. Mentre il dibattito, anche tra addetti ai lavori, si surriscalda sulle rimozioni degli episodi con blackface e sembra indicare che tra la conservazione dello status quo e l’apocalisse del politicamente corretto non ci sia alcuna via di mezzo, pochissimi hanno notato che c’è chi sta seguendo strade altrettanto “positivamente discriminatorie”, ma meno plateali e ipocrite. Come per esempio BBC, che ha stanziato 100 milioni di sterline per far sì che, dal 2021, ogni sua serie televisiva abbia almeno il 20% di diversity nel cast & crew, ovvero uno su cinque dei talenti coinvolti apparterrà a una minoranza. È un punto di partenza, un codice di comportamento, una discriminazione positiva che si rende necessaria, per augurarsi che tra un tot di anni non lo sia più.

 

Le immagini sono dei fotogrammi da Hollywood, Show Me a Hero e Via col vento