approfondimenti
OPINIONI
Il passato non si scrive una volta sola
Un contributo sull’uso, riusi e processualità della storia. L’erezione, l’abbattimento e la risignificazione dei monumenti sono procedure simbolicamente pressanti della continua revisione e discontinuità della storia, che impone citazioni attuali e non immedesimazioni funeree nel passato a favore dei vincitori
«Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie», afferma un celebre passaggio delle Tesi sul concetto di storia, VII, di Walter Benjamin. Frase così significativa da essere apposta sulla lapide commemorativa che indica approssimativamente il suo luogo di sepoltura a Port-Bou, sui Pirenei. Poi, a essere sfigati, invece di un imperatore romano guerrafondaio o dell’abile stratega sudista Lee ci è toccato un massacratore di africani e partigiani come Graziani, che ha perso tutte le battaglie campali. Invece di un ideologo imperialista ispirato come Kipling ci è toccato lo straccione Montanelli. Volete mettere «il fardello dell’uomo bianco» del primo con la soddisfazione, del secondo, per aver trovato nel suo XX battaglione eritreo quanto «invano avrei cercato fra le ghenghe romane o parigine, fra le coltri di poetesse uterine o fra i lacci d’intellettuali castrati»?
Insomma, abbiamo pure monumenti di barbarie a scarso contenuto culturale.
Beninteso, ogni documento e monumento viene fatto valere come gesto di forza, mette in pratica la logica dei vincitori sulla pelle dei vinti e a volte è soggetto a contestazione e rovesciamento con atti di forza simmetrici: «come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro». L’abbiamo visto in atto in Usa, UK e Belgio (dove hanno prima agito poi discusso) per le statue di criminali suprematisti e colonialisti, per i simboli dei feroci imperi del XIX secolo. E se ne “discute” in Italia a proposito di protagonisti del nostro tardivo imperialismo pezzente. Con corale e sessuata indignazione della cultura politica mainstream, che riprende il contro-slogan razzista #WhiteLivesMatter applicandolo alle povere statue perseguitate dal politically correct degli scalmanati teppisti “antifa”.
Facciamo però un passo indietro e vediamo specificamente come alcuni pezzi del “patrimonio culturale” vengano usati come filtro per selezionare una memoria rispetto a decine di altre che sono dimenticate, scartate, escluse e spesso completamente schiacciate.
I monumenti, come tracce della storia negli spazi della città, spesso diventano non solo espressione di un patrimonio autoritario, ma formule cristallizzate di memoria, avulse, strappate da un processo in divenire che dovrebbe essere invece il motore trainante della memoria e soprattutto della storia.
Questa considerazione preliminare interroga profondamente la natura “storica” del nostro sguardo, abituato a strappare dal flusso degli avvenimenti il patrimonio storico-culturale per farlo diventare oggetto astratto e non il frutto delle azioni e delle scelte (spesso infami) di uomini e di donne. Paghiamo ancora un approccio romantico al bene culturale, all’opera d’arte come valore assoluto, idea che da Winckelmann in poi ha canonizzato l’arte rendendola un modello che non dialoga, una norma incorruttibile che perde il suo “in divenire”, si astrae dai suoi contesti di riferimento e che deve quindi essere difesa senza se e senza ma.
Da qui arriviamo direttamente a una seconda questione: possiamo definire delle statue onorarie, celebrative delle discutibili vicende personali di alcuni uomini, dei monumenti o addirittura opere d’arte come tante penne del giornalismo italiano si sono sprecate a chiamare la statua di Indro Montanelli? Uno sguardo con poco discernimento storico e senza alcuna considerazione del contesto ci fa così considerare patrimonio storico oggetti di celebrazione individuale, applicando quella selezione brutale e autoritaria della memoria.
Dobbiamo fare attenzione a non confondere meri simboli di celebrazione con dispositivi di costruzione di memoria collettiva, come al contrario sono luoghi, edifici e spazi delle nostre città che ci parlano anche di ambivalenze e contraddizioni.
Perché un pezzo di bronzo raffigurante un uomo che incarna la brutalità del colonialismo italiano deve diventare automaticamente un monumento, un’opera di memoria collettiva, solo perché collocata in uno spazio pubblico? Come se non ci fosse stato un dibattito a riguardo, quando il comune di Milano decide di erigerla nel 2006, o come se non fosse già stata ben deturnata dalle compagne di NonUnaDiMeno l’8 marzo del 2019, durante un grande corteo per lo sciopero globale transfemminista. La levata di scudi in difesa del ritratto di Montanelli, in nome della tutela della storia, della memoria e dei monumenti ha rimosso il dibattito e le critiche che su questa statua si erano levate sin dal giorno della sua erezione, così come e in modo più grave e colpevole continua a forcludere il passato coloniale italiano.
Non dobbiamo avere un’idea cristallizzata e irenica della memoria. Come si accennava prima, i movimenti Blm negli Stati Uniti o nei paesi europei con un passato coloniale disvelato dagli uomini e dalle donne che ne pagano ancora sui loro corpi le efferatezze hanno tirato giù dal podio i ritratti di schiavisti, colonizzatori e sfruttatori all’interno di un movimento attivo che ha attraversato con radicalità le strade delle città contro il razzismo strutturale. Barrare le tracce del passato (e del presente) razzista incarnato nell’effigie di quegli uomini fa parte delle azioni del movimento, esprime soprattutto il fatto che niente è stato spostato e che il razzismo di ieri fa il paio con quello di oggi.
La furia iconoclasta, come sempre dovrebbe essere e come spesso è stato, è parte della processualità (“barbara” contro la barbarie, ammetteva Benjamin) del conflitto, si inserisce nella storia, cambia di segno alcuni avvenimenti, non li cancella, non li smantella, non li rimuove come noi abbiamo fatto col nostro infame passato coloniale.
Del resto, anche la damnatio memoriae dei Romani non prevedeva la completa rimozione delle figure e delle immagini degli uomini condannati a questa procedura, ma una evidente e attiva opera sanzionatoria. Le tracce delle cancellazioni, dei volti distrutti tagliati dalle teste dovevano essere evidenti, dovevano restare a memoria indelebile di un passaggio, di un cambiamento nel divenire storico.
Paradossalmente è proprio l’idea di cristallizzare i monumenti, di decontestualizzarli che non rispetta la storia più che buttare giù una statua. In tal senso anche chi, sulla scorta dei movimenti Blm, vuole eliminare i segni ancora presenti del fascismo si posiziona su un piano molto simile a chi li vuole conservare: i segni di quel passato vengono estratti dalla loro processualità storica, vengono imprigionati. In termini più netti: l’odiato obelisco del Foro Italico avrebbe dovuto essere buttato giù dopo la liberazione di Roma da parte dei partigiani e delle partigiane, distrutto dalla lotta di liberazione che aveva appeso a testa in giù il corpo in carne e ossa di Mussolini. Se è rimasto, probabilmente un motivo ci sarà, che ci parla anche tanto (e ancora) del rimosso sul fascismo, sugli indulti e sulla cancellazione di tanti avvenimenti avvenuta dal secondo dopoguerra. Come hanno detto Igiaba Sciego e prima ancora Gianni Rodari, di quel brutto obelisco bisognerebbe completare la storia, non abbatterlo e neppure ricoverarlo in un museo. Dovrebbe restare là, ma narrando ancora una volta il divenire degli avvenimenti, oppure andrebbe distrutto, ma dalla collettività che insieme decide di abbatterlo, perché è arrivato il suo momento, non perché altri hanno distrutto i segni del loro passato.
O la rimozione fa parte di un processo collettivo e condiviso o non ha senso e rischia di essere solo la controparte di chi difende senza discernimento e di chi porta a difesa la tutela del Colosseo e stupidaggini del genere.
Conservare vuol dire inserire le opere celebrative, i monumenti gli spazi e le memorie delle città e dei paesaggi culturali all’interno di un processo di analisi perenne, sempre in divenire, che più che creare modelli metta sempre in evidenza la funzione sociale e comunicativa dei monumenti. Del resto i beni culturali devono sempre riarticolarsi nei sistemi del presente, altrimenti cadono in damnatio memoriae, distrutti simbolicamente.
L’unica soluzione risiede in pratiche collettive di risemantizzazione, a partire da un dibattito radicale sui temi del razzismo, della schiavitù e dell’oppressione. Infatti – e qui torniamo a Benjamin – la “contestualizzazione” non è celebrazione di un gesto o di un monumento all’interno di un continuum, cioè della storia universale dei vincitori, ma il suo opposto: è sempre “ri-contestualizzazione”, citazione che svelle un gesto o un monumento dal contesto e lo ricolloca nel presente risignificandolo e rendendo la storia discontinua, secondo le ragioni dei vinti. Ciò che presuppone, di tutta evidenza, una riscossa degli oppressi.
Alla “celebrazione” che è sempre immedesimazione con la catastrofe va contrapposta la critica e una nuova narrazione. L’esempio di storia dei vinti che faceva Benjamin – lo Spartakusbund di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg – cita in Spartaco l’archetipo dello schiavo che si ribella e questo è anche il messaggio che ci trasmette oggi dagli Usa Blm. Ci toccherebbe davvero, a noi eredi del patrimonio culturale romano, elevare un monumento a quel tracio ribelle che, citato oggi, potrebbe riscattarci dalla barbarie di un retaggio di oppressione. Una statua per il gladiatore e liberatore Spartaco, non contestare il Colosseo o l’anfiteatro di Capua.
Ogni monumento o citazione “salva” e riscatta gli oppressi del passato o risignifica il patrimonio culturale lasciato dai vincitori secondo una nuova lettura che tenga conto della quota di barbarie in esso contenuta. E raschiar via la barbarie, distinguere gli strati storici sovrapposti, come si fa in ogni buon restauro, non è sempre operazione delicata e gentile. In certi casi l’ostinazione dei difensori della barbarie rende inevitabile la cancellazione brutale. Sempre ricordando che la storia si costituisce in un processo interminabile di revisione e reinterpretazione, che tocca i libri come i luoghi e le memorie pietrificate. Nella storia il “riuso” è la regola.
E oggi per stupratori e razzisti non butta bene, constatiamolo senza lacrime.
Immagine di copertina: tomba di Walter Benjamin a Portbou (foto: Klaus Liffer da wikimedia.commons)