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Normal People: l’originalità è nella relazione
La serie tv adattamento dell’omonimo romanzo di Sally Rooney amplifica le domande che il desiderio e la sessualità portano da sempre con sé, intrecciando alla costruzione di un amore il difficile rapporto con la nostra biografia emotiva
Cosa significa desiderare l’altro ancor prima di potergli rivolgere la parola? Cosa accade se quando lo si guarda, quando si posano gli occhi sul suo corpo, sul suo stare nel mondo, si ha già la sensazione di comprenderne ogni parte? Impossibile definire uno stato emotivo che, specialmente quando corrisposto, viene attraversato dall’adrenalina della proverbiale chimica: ma siccome il punto più in ombra si trova sempre sotto alla lampada, quella tensione irresistibile verso un preciso tu, quella fiducia fantasticata verso la carnalità dell’altro, si rivela presto la forma con cui il desiderio rincorre se stesso, lasciando che tutto il mondo, declinato in infinite volute di dolori e accidenti, possa finalmente collassare nell’astrazione del sentimento amoroso.
È solo l’inizio di un lungo viaggio, fisico e insieme interiore come il legame che unisce Marianne Sheridan e Connell Waldron, giovani protagonisti di Normal People, l’acclamato secondo romanzo di Sally Rooney e oggi omonima serie televisiva di cui Rooney è co-sceneggiatrice. Compagni di liceo a Sligo, città strategica ma impersonale nell’omonima contea irlandese, Marianne e Connell si annusano, si intuiscono, fino a precipitare all’unisono nella reciproca attrazione. Doppiamente emarginata lei, dalla socialità dell’ambiente scolastico che scambia la sua intelligenza per respingente stranezza, e dal calore del contesto familiare che nel suo caso è anaffettivo e potenzialmente violento; campione sportivo e studente dotato lui, ma logorato interiormente da una timidezza che somatizza in accondiscendente impasse verbale. Lei benestante, lui no (sua madre, single, è la donna delle pulizie nella villa dove vive la ragazza): molte apparenti differenze ma sufficienti, sotterranei punti di contatto per percepire la sensazione di scegliersi, di eleggere l’altro a destinatario del proprio desiderio.
Trovarsi, mettersi a nudo, stringersi nella sessualità non è però possibile che in segreto, perché quello che lui teme di perdere – il rispetto dei compagni, il quieto vivere che la credibilità acquisita procura – coincide con quello di cui lei è convinta di non aver bisogno, e che in fondo pensa di non meritarsi. Dalla frustrazione che ne deriva, ecco la prima di molte crisi, in un avvicendarsi degli anni che vede i due protagonisti smarrirsi, scambiarsi di ruolo, ritrovarsi al Trinity College di Dublino – dove il gioco è rovesciato, perché lei gode di ben maggiore consenso – e letteralmente inseguire il perché non possano fare a meno l’uno dell’altra.
Se l’amore, come qualcuno ha scritto, sembra in Normal People trasformarsi in una materia imprevedibile e inedita, è forse perché sondando un preciso momento di confine tra la giovinezza e l’età adulta, il romanzo prima e la serie poi trascendono la ben nota ipersoggettività dei sentimenti, allargando il focus della relazione al rapporto tra il contesto in cui si nasce e le scelte di vita che ne determinano l’elaborazione spesso luttuosa. Non parliamo della sola difficoltà di sopravvivere lavorando in una capitale quando si è studenti di provincia con l’affitto da pagare, ma del più sottile problema di emanciparsi dalla propria cultura interiore, che anche in chiave materiale realizza la sensazione di essere “bloccati” tra un passato perduto e un futuro che ancora non c’è. Perché, anche nei suoi momenti più felici ed effimeri, la relazione tra Marianne e Connell non ha davvero il potere di annullare lo sfondo da cui, sfiduciati, ciascuno di loro spera a modo proprio di fuggire ora attraverso, ora senza l’altro; e se la letteratura, così come il cinema, hanno nutrito l’immaginario collettivo con pagine e sequenze di vibrante intimità passionale, sublimando in infiniti stereotipi il tema del rapporto tra soggetto e oggetto del desiderio, è difficile negare come in Normal People prenda evidenza anche l’ingombrante fuori campo di un terzo ineludibile fattore: il giudizio del tempo su di noi, e la nostra paura di essere soli – di scoprirci alienati – nel doverlo affrontare per dare dignità alla nostra identità storica e sociale.
In un altro grande testo contemporaneo, Transiti, l’autrice Rachel Cusk scrive che «qualunque cosa vogliamo pensare di noi stessi, non siamo che il risultato di come gli altri ci hanno trattato». La storia di Connell e Marianne, pur nelle finestre delle rispettive solitudini, è quella di una coppia che sperimenta a poco a poco la crisi dell’immagine simbiotica del proprio amore e, per quanto possibile, si apre alla reciproca conoscenza dell’altrui emotività come naturale condivisione degli abusi subiti o paventati. All’idea astratta del sentimento si sostituisce gradualmente la cura dell’immagine dell’altro, non più fantasma idealizzato o temuto, ma figura tridimensionale, colta nella sua contingenza di vita e di percorso, nella convergenza di forze e poteri contrastanti. Questo itinerario così compassionevole e vivo, il cui esito è espressione di straordinario rispetto e reciproca catarsi, annovera lungo il suo corso il giogo di tutte le possibili strategie difensive, di distanza o complicità (compresa una sessualità pensata nei termini del controllo e della punizione), attraverso cui non solo l’amato potrebbe essere annullato dall’idea dell’amore, ma la realtà stessa rischia di offuscarsi e perdersi per sempre.
In Normal People questi corpi che fremono per unirsi devono costantemente fare i conti coi rispettivi abissi della propria biografia interiore, con i loro discorsi, qualcosa che non si può declinare al plurale, anche quando lo si crede, ma si può ugualmente provare a sciogliere. Al netto di un’ottima scrittura e di una regia esplicita e trasparente a un tempo, la grande qualità della serie risiede nei due giovani, straordinari interpreti, Daisy Edgar-Jones e Paul Mescal, capaci di processare una mappa emozionale di fronte a cui nulla appare risultativo, collocando lo spettatore molto vicino all’esperienza dei protagonisti, commuovendolo della loro commozione sulle cose.
Scrive Barthes nei suoi Frammenti che «il soggetto amoroso riconosce l’essere amato come “atopos” (qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori), cioè inclassificabile, dotato di una originalità sempre imprevedibile», che travalica il linguaggio stesso. Normal People riesce nell’impresa di raccontare le trasformazioni del sentimento fra due giovani esseri umani, i quali comprendono come l’originalità non appartenga né all’uno né all’altro, ma alla storia della loro stessa relazione. Scrive ancora Barthes: «Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione».