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MONDO
Il subcontinente in stallo: l’India nella pandemia
La prima parte di un approfondimento sugli effetti della pandemia nel subcontinente indiano tra crisi sanitaria, lavoro informale e migrazioni interne: una analisi dell’economia politica del lockdown e uno sguardo sulle tensioni che attraversa il paese.
Il 30 gennaio viene registrato il primo caso di Covid-19 in Kerala, si tratta di una studentessa tornata da Wuhan, dov’era impegnata in uno scambio universitario. Appena arrivata nel Kerala, è stata sottoposta a test sanitari e al tampone, risultando positiva al coronavirus. Contrariamente a quel che si pensi non è stata una casualità: già dal 23 gennaio il Ministro della Salute del Kerala, K.K. Shailaja, aveva convocato una task force per mettere in atto un piano sanitario e sociale in grado di fronteggiare un’eventuale emergenza.
Inizialmente la notizia non ha scosso l’opinione pubblica del paese, ancora impegnata ad accogliere Jair Bolsonaro e festeggiare il 70° anniversario della Repubblica. Nei successivi mesi l’India è stata attraversata da violenti conflitti interni, culminati nelle giornate che vanno dal 23 al 25 febbraio durante la visita di Trump al suo partner internazionale Narendra Modi, in cui la foga nazionalista degli estremisti hindu e della polizia si è scagliata su musulmani o presunti tali, colpevoli di manifestare contro la legge che li escluderebbe dallo status di cittadini.
Nel mese di marzo il dibattito politico si è polarizzato sui giochi politici del BJP, partito di destra al governo sotto la presidenza di Modi, volto a conquistare la maggioranza parlamentare nello Stato del Madhya Pradesh. Una volta capitolato il Premier Kamal Nath –esponente del Partito del Congresso indiano – il BJP, con un’abile gioco di trasformismo politico, ha posto alla guida dello Stato Shivraj Singh Chouhan.
Ad un mese e mezzo dalla comparsa del primo caso di Covid-19 i casi sono continuati a crescere in tutto il subcontinente, accompagnanti dalla minimizzazione del problema da parte del Governo federale.
Fra i pochi a parlare del tema c’è il Ministro della Salute Shri Ashwini Kumar Choubei, che il 13 marzo ha dichiarato: « Covid-19 non è un’emergenza sanitaria, niente panico».
Il 19 marzo viene dato il primo timido segnale d’intervento da parte del Governo. In una conferenza televisiva il Primo Ministro Modi annuncia il “Janata Curfew” dalle 7 alle 21 di domenica 22 marzo, garantendo la persistenza dei servizi essenziali e la responsabilizzazione degli individui come metodo preferenziale per fermare la diffusione del virus. Come prova di coesione nazionale contro la diffusione del virus, viene chiesto ai cittadini di mostrare la propria gratitudine a tutti i lavoratori essenziali battendo pentolame o suonando campane fuori dal proprio balcone: tutti insieme, come una grande nazione pronta a pagare con la moneta dell’eroismo e della gratitudine i milioni di persone che tengono in piedi il paese.
Forte della risposta popolare, Modi ritorna a parlare a reti unificate alle otto di sera del 24 marzo. Riproponendo la prassi adottata per l’istituzione della politica di demonetizzazione, annuncia con sole quattro ore d’anticipo il più grande e duro lockdown conosciuto dal mondo. Così facendo, il Primo Ministro ha posto in essere una vera e propria guerra, attingendo alla figura simbolica dell’epica battaglia del Mahabharata:«il Mahabharata è stato vinto in 18 giorni, noi sconfiggeremo il virus in 21 giorni».
La battaglia non è stata affatto vinta in 21 giorni. La prima proroga ha esteso il lockdown fino al 30 aprile, poi fino al 4 maggio ed ora fino al 17 maggio – seppurecon delle parziali riaperture volte a ridare ossigeno all’economia indiana.
Come in ogni guerra,la volontà di potenza della nazione si esprime appieno nel rafforzamento dei confini esterni e nella moltiplicazione di quelli interni. Quella che Samaddar ha descritto come una triplice crisi – ecologica, capitalistica e biologica – si connota come tratto di lunga durata della crisi globale in atto. Il Governo, impegnato nel voler far diventare l’India asse portante del nuovo capitalismo globale, è costretto a rivedere i propri calcoli, almeno sulle prospettive di medio periodo.
Dal 25 marzo il fiume sotterraneo da cui ha tratto sostentamento l’economia indiana, è emerso in superficie riversandosi nelle strade del subcontinente. Le masse di lavoratori migranti chiamati a svolgere “lavori informali” nelle metropoli indiane sono state escluse dal popolo chiamato a combattere sul fronte del nuovo mahrabhatra: la battaglia che sono costretto a combattere è quella per la sopravvivenza.
Di assembramenti anomali in mesi di silenzio
Nel mese e mezzo intercorso fra il rilevamento del primo caso positivo di Covid-19 e la dichiarazione del Janata curfew in India tutto è continuato a procedere secondo il normale corso delle cose. In alcuni Stati – come West Bengal e Kerala–sono state adottate misure parziali per cercare di fronteggiare la situazione, dando così l’idea che l’emergenza dovesse essere gestita soprattutto a livello locale, dato il mancato intervento del Governo federale.
Eventi come il Tabaghli Janaat hanno portato nel paese migliaia di persone da tutto il mondo, atte a partecipare agli eventi religiosi avvenuti nelle settimane immediatamente precedenti al 22 Marzo. Nel quartiere di Nizamuddin a New Delhi si sono riversate le masse di fedeli che per molti giorni hanno attraversato la città senza che fossero adottate misure di prevenzione. Solo dopo la dichiarazione del lockdown sono stati effettuati i primi controlli sulle persone che hanno soggiornato e risiedono nelle zone antistanti alla moschea di Markaz a New Delhi. A seguito dell’evento, le circa 25mila persone aderenti all’organizzazione religiosa sono state contattate con la richiesta di mettersi in quarantena e di sottoporsi a controlli sanitari. Dai dati dei controlli emerge come l’evento sia stato uno dei maggiori vettori di diffusione del coronavirus.
Il collegamento fra l’evento e i numerosi casi di coronavirus ha rinvigorito la campagna razzista portata avanti dal BJP contro i musulmani. L’epifenomeno di questa ondata si può rilevare nelle dichiarazioni del parlamentare del Karnataka Renukacharya, esponente del BJP, arrivato a dichiarare che i musulmani dovrebbero essere sparati per aver diffuso volontariamente il virus e per una presuntanon volontà di effettuarecontrolli sanitari.
Le celebrazioni Sikh nel Punjab, avvenute fra il 10 ed il 12 marzo, hanno portato aestendere la mappa della diffusione di massa del coronavirus in india. Il caso è emerso in seguito alla morte di coronavirus di un pastore Sikh avvenuta il 26 marzo. I controlli con le persone che sono state a contatto con lui sono stati eseguiti una settimana dopo, trovando fra questi 19 persone positive al test e portando alla quarantena di 15 villaggi.
Nella narrazione pubblica si adottano due pesi e due misure per induisti – a Tirupati si sono assembrate decine di migliaia di fedeli hindu, il 24 marzo il Primo Ministro dell’Uttar Pradesh ha partecipato al Ram Navami ad Ayodhya insieme a folle di fedeli – e musulmani.
Il sistema sanitario indiano davanti all’emergenza
Gli ospedali pubblici indiani si trovano in uno stato di perenne crisi. Le costanti di quest’ultima sono rappresentate da sovraffollamento, carenze di personale sanitarioe impossibilità di garantire un’adeguata divisione dei reparti, soprattutto per i casi dimalattie infettive. A completare il quadro si aggiungono fattori esterni, come la diffidenza di molti pazienti nei confronti delle cure mediche moderne e le patologie pregresse dovute alla malnutrizione.
Infatti, nel mese di marzo sono stati numerosi i casi registrati di hindu che hanno bevuto urina di mucca e fatto il bagno nel letame, sicuri che queste fossero cure più affidabili della medicina inglese. Tali ricette hanno ottenuto anche l’avallo istituzionale nello Stato di Assam, dove la Presidentessa dello Stato, Suman Aripriya, ha chiesto ai funzionari politici della zona di diffondere queste cure, in quanto utili contro il coronavirus e il cancro.
Nel discorso istituzionale, la totale inadeguatezza del sistema sanitario davanti alla pandemia è stata completamente rimossa dal dibattito pubblico.
Con soli 0,7 posti letto ogni mille persone e la dotazione di 48mila ventilatori su tutto il territorio federale, la diffusione della pandemia potrebbe produrre effetti devastanti nel paese. La chiamata di Modi alla mobilitazione popolare per gli eroi in prima linea non è stata e non sarà in grado di risolvere i problemisanitari.
Con lo stanziamento del solo 1,5% del PIL, l’India è il paese con la spesa sanitaria nazionale più bassa del mondo. Il sistema sanitario pubblico si è trovato già in precedenza a dover chiedere l’aiuto dei privati, date le carenze strutturalinelle zone ruralie ora alza bandiera bianca davanti all’emergenza pandemica.Inoltre, il Governo ha deciso di lucrare sull’emergenza sanitaria globale, concentrandosi sull’esportazione di materiale sanitario piuttosto che produrre scorte per l’emergenza nascosta. La situazione d’impreparazione è riscontrabile nelle carenze di forniture mediche. Ad esempio, nel Bihar, al 25 marzo è registrata la disponibilità di sole 1100 mascherine N95, 300 kit di protezione individuale e 250 ventilatori polmonari.
In questi mesi, sono arrivati in soccorso i finanziamenti di 1 miliardo di dollari da parte della Banca Mondiale equellidi 2,9 milioni di dollari da parte degli USA per lo sviluppo di laboratori, ricerche mediche e supporto tecnico da parte di esperti. Davanti alla materialità dei fatti si rivela effimero lo stanziamento di fondi da parte della Banca Mondiale, lasciando anche mano libera al Governo federale sulle modalità di collocazione dei fondi negli Stati, mentre i finanziamenti made in USA si inseriscono nel mosaico della delocalizzazione degli investimenti per la ricerca attuata dall’amministrazione Trump.
Le divisioni presenti nel paese non fanno altro che riprodursi all’interno degli ospedali, dove nella maggior parte dei casi a Dalit e migranti viene riservato un trattamento escludente. La partizione fra sistema sanitario pubblico e privato prevista dalla Costituzione indiana, si estrinseca in una dualità d’accesso a cure mediche dignitose nel paese: da una parte la sanità privata è polo d’attrazione per pazienti internazionali attratti dal basso costo delle operazioni, e per pazienti delle classi medio-alte; mentre, dall’altra parte la sanità pubblica indiana è una barca che cola a picco.
Il sistema sanitario si trova schiacciato ancora su un’altra dicotomia: ospedali nelle città e nelle metropoli contro carenza di strutture nelle zone rurali, fondamentali per controllare l’espansione della pandemia.
Inoltre, lo stigma verso migranti, Dalit e provenienti da focolai diviene tratto fondante del sistema sanitario in tempo di pandemia. Come si evince da vari reportage il virus esaspera le contraddizioni presenti nella società indiana tracciando il discrimine d’accesso legato a condizioni di genere, di casta e di razza/religione.
Con la curva dei decessi che segue la curva di una parabola ascendente, si rivela la doppia faccia di un subcontinente a più velocità, in cui il distanziamento fisico è impraticabile per larga parte di coloro che non possono permettersi né cure in ospedali privati né tantomeno una casa in cui essere a distanza di sicurezza da altre persone. Da una ricerca sulla condizione abitativa in India emerge infatti come il 66% della popolazione rurale e il 45% di quella urbananon abbia la possibilità di avere spazi personali nella propria abitazione.
La materialità delle vite sprofonda nell’economia politica del lockdown
Per prevenire l’esautoramento dell’efficacia del sistema sanitario indiano, il discorso istituzionale è stato immediatamente deviato sulla responsabilizzazione individuale, marcando una totale continuità con le politiche adottate dai governi occidentali. Luoghi di culto, scuole, uffici pubblici e tutti i settori non essenziali sono stati chiusi dalla sera al mattino. Tale scelta politica accentua le stratificazioni presenti nella società indiana: da una parte stanno coloro che riescono ad andare avanti e dall’altra gli esclusi, le schiere di invisibili necessari al funzionamento della locomotiva economica federale.
Con il blocco della produzione e la limitazione alla circolazione dei mezzi si vive una doppia crisi di natura produttiva e finanziaria. Il settore manifatturiero versa in una profonda crisi, capace di far saltare un pezzo della catena globale del valore fondata sul Just in Time.
Dentro e fuori le fabbriche si constata la materiale assenza di forza-lavoro disponibile all’impiego nel cosiddetto transit labour – categoria prevalentemente composta da lavoratori migranti – dovuta al blocco della vita economica nelle città e al ritorno forzato alle zone rurali di provenienza. Questa forza-lavoro non qualificata si ritrova da un giorno all’altro col cantiere chiuso, esclusa dalle case in cui si lavora come domestiche e dalle vie percorse quotidianamente per vendere la propria merce.
I dati pubblicati dal Nikkei/IHS fotografano lo stato della crisi: l’indice di produzione crolla dal 49.3 di marzo al 5.4 di aprile, il 97% delle 500 aziende sottoposte a inchiesta hanno visto crollare le proprie vendite fino a riportare il segno zero, mentre l’indice composito di produzione manifatturiera passa dal 50.6 di marzo al 7.2 di aprile. Uno dei punti di cristallizzazione di tale situazione è la situazione del settore automobilistico: la produzione è stata bloccata e le vendite di auto segnano quota zero in India nel mese d’aprile.
D’altra parte, l’ambizione del Premier Modi di portare in breve tempo l’India nell’alveo delle potenze economiche mondiali conosce una drastica battuta d’arresto con previsioni di crescita economica fra il -16% e il -20% nel primo quadrimestre.
Come non ha esitato a mostrare in questi anni di Governo, Modi e il suo partito sono tutt’altro che propensi a un piano di ricrescita basato sull’istituzione del benché minimo Stato sociale, anzi allo stato di cose attuali il leitmotiv della socializzazione dei rischi e privatizzazione dei guadagni potrebbe attraversare la vita del paese per molto tempo ancora.
Le misure governative, per quanto effimere, non hanno tardato ad arrivare. Il 27 marzo la Ministra delle Finanze del Governo federale Nirmala Sitharaman ha annunciato alla nazione il piano economico-finanziario per fronteggiare l’emergenza. Con lo stanziamento di un fondo di 1700 miliardi di rupie –equivalenti a circa 20,8mld di euro – il Governo ha reso esplicita la propria incapacità di fronteggiare la crisi in atto. Le misure prevedono: immissione diretta di liquidità per forza-lavoro, imprese, poveri e chiunque abbia bisogno di tali misure, fornitura di cibo diretta alle famiglie per quantità pari a 5kg di riso al mese per tre mesi e 1kg di ortaggi/legumi a scelta al mese per i prossimi tre mesi.
Inutile ribadire che l’intervento è più che fallace: in un paese in cui il 91% della forza-lavoro è sottoposta a tipologie di lavoro informale l’immissione diretta di liquidità è propriamente impossibile – data anche l’assenza per molti di un conto bancario – senza considerare poi l’eventuale tasso di dissipazione degli aiuti nelle tasche di funzionari della pubblica amministrazione e di polizia. Per quest’ultimo caso, è più che tangibile l’assenza di una distribuzione capillare degli aiuti nei territori rurali e nelle rotte migratorie interne al paese, dove all’assemblarsi di persone che chiedono cibo la polizia risponde con la violenza del bastone.
Nei viaggi di ritorno presso il proprio villaggio, le testimonianze dei migranti ribaltano la narrazione governativa mostrando le condizioni in cui vive larga parte della popolazione. Senza stipendi o risparmi le condizioni del viaggio si fanno di giorno in giorno più difficili.
Nella materialità dei fatti la società degli esclusi si ritrova senza rifugi per la notte, soldi e cibo. Nell’ultimo mese, i telefoni dei call-center impegnati nel tracciare le condizioni dei migranti hanno registrato, nelle più di 11mila chiamate ricevute, la drammaticità dell’esodo. Il 50% degli intervistati ha cibo per meno di un giorno, il 72% ha delle razioni destinate a finire in due giorni; per quanto riguarda gli aiuti promessi dal Governo si registra la totale assenza del Governo: il 96% degli intervistati non ha ricevuto razioni da parte del Governo, mentre il 70% non ha ricevuto cibo precotto. Dal punto di vista della situazione economica il 78% degli intervistati ha meno di 300 rupie (3,65€) con sé, il 98% non ha ricevuto alcun sostegno economico da parte del Governo e l’89% non è stato retribuitodal proprio padrone durante il lockdown.
Dal 4 maggio si apre la fase di flessibilizzazione del lockdown. Per permettere al processo di accumulazione di capitale di ripartire, gli Stati dell’Uttar Pradesh, Madhya Pradesh e Gujarat adottano una strategia ordoliberista di medio periodo.
Si punta a ricollocare l’esodo di investimenti finanziari dalla fabbrica globale cinese agli stabilimenti dell’antico Raj, preparando loro le condizioni di possibilità del processo d’accumulazione originariatramitela sospensione della quasi totalità delle leggi sul lavoro per tre anni, concessione di terreni a fondo perduto e allungamento della giornata di lavoro a 12 ore.
La tensione fra fascistizzazione dello Stato ed ordoliberalizzazione dell’economia trova qui sintesi nell’impossibilità materiale per la forza-lavoro di avere minime condizioni di riproduzione sociale oltre la costrizione della produzione. La realtà è quindi chiusa in un contesto spaziale che nega la mobilità dei subalterni, dove il tempo di lavoro viene esteso alla totalità del tempo di vita.