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Schiavitù e lotta nelle campagne italiane

“Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne” (aut aut edizioni), della giornalista Sara Manisera, è un viaggio tra la dignità dei braccianti che raccolgono il cibo destinato alle nostre tavole. Uno strumento per ricostruire la «memoria interrotta» delle battaglie contadine

Il nazionalismo è una bugia che lo sfruttamento mostra in tutta la sua violenza. Lo stiamo vedendo in questi giorni con una destra che preferisce mettere in pericolo la salute pubblica e la tenuta delle filiere alimentari e dell’assistenza ai più deboli pur di non riconoscere i diritti a centinaia di migliaia di lavoratori stranieri già presenti sul territorio nazionale. Lo stiamo ascoltando dalle parole del capo politico del M5S che sembra preferire l’illegalità di massa nelle campagne italiane al rischio, tutto da verificare, di cedere voti a Salvini. Si può leggere tra le righe di un libro uscito lo scorso autunno che si chiama: Racconti di schiavitù e lotta nelle campagne.

L’autrice è la giornalista Sara Manisera e il testo arriva dopo un lungo lavoro di inchiesta sul campo, anzi tra i campi. Seguendo il ritmo delle stagioni Manisera si è spostata tra Puglia, Piemonte, Calabria e Sicilia, sulla scia dei braccianti che raccolgono la frutta e la verdura che arriva sulle nostre tavole. Partenza e arrivo di questo movimento sono il recupero della memoria «interrotta» delle emigrazioni e dello sfruttamento agricolo degli italiani nel secolo scorso.

«Il vero problema è non aver trasferito quella storia e quella memoria alle migrazioni di oggi», scrive Manisera. Nelle stesse terre in cui i braccianti italiani erano sfruttati o da cui partivano andando incontro a nuove forme di sfruttamento, oggi subiscono una sorte ancor più dura gli operai agricoli dell’Europa dell’est e del continente africano. Attraverso i racconti dei nonni emigranti e la ricostruzione di alcune lotte contadine esplose in Sicilia dopo l’unificazione italiana e la seconda guerra mondiale l’autrice ritrova percorsi comuni tra i braccianti di ieri e quelli di oggi. Fuori da ogni retorica sono gli aspetti dell’esperienza quotidiana a denunciarlo, sia nei rapporti di potere in ambito lavorativo che nei modi di organizzare la propria sopravvivenza. Per esempio abitando baracche di lamiera.

In questa ricerca di somiglianze, Manisera non dimentica di sottolineare la capacità delle forme di sfruttamento di utilizzare le differenze linguistiche, culturali e del colore della pelle per rompere i legami sociali e costringere i lavoratori sfruttati in una condizione di maggiore isolamento e debolezza rispetto al periodo storico precedente. Così il caporalato diventa un nemico più ostico perché dei caporali non si condivide il bagaglio di conoscenze (anche quando sono loro stessi immigrati). Ribellarsi è ancora più difficile: «Immagina se uno di noi andasse in Africa, senza conoscere nessuno, senza sapere la lingua», viene detto all’autrice mentre si trova in Calabria. E succede che nelle campagne piemontesi per la prima volta nella storia gli stagionali finiscano a dormire per strada. Non era stato il destino di chi scendeva dalle montagne negli anni Cinquanta, né di meridionali e studenti nei Settanta e Ottanta, ma accade a molti braccianti di oggi: «perché sono neri».

Soprattutto, il viaggio della giornalista nei «ghetti» dell’Italia contemporanea serve a dare voce alle persone che li popolano. Lavoratori, prima che migranti. «Uomini con la schiena dritta, coscienti e informati». «Chissà perché – chiede Manisera – queste persone non sono mai intervistate e riprese dai servizi televisivi […]. Non li mostrano mai i negri con una coscienza politica. Non sia mai smettano di diventare schiavi. O noi di considerarli tali». Il testo, invece, mette in primo piano proprio le parole e le esperienze dirette che provengono da quei luoghi infernali. Discorsi che smascherano il saccheggio neocoloniale delle terre di partenza dei lavoratori, pronunciati magari da uomini che parlano molte lingue, e insieme gesti di ospitalità consueta e profonda umanità.

Tra i campi e i luoghi di alloggio che li circondano, poi, si ritrovano i tanti puntini che compongono la mappa di un’Italia migliore. Un pezzo di paese che esiste già e si batte lontano dai riflettori per trasformare il sistema dello sfruttamento e della produzione agricola, tenuto sotto scatto dalla Grande Distribuzione Organizzata che ricatta gli stessi produttori che a loro volta ricattano i braccianti. Contro di essa nessun politico del «Prima gli italiani» mette mai bocca, nonostante siano tanti gli italiani a subirne le nefaste conseguenze: come produttori o braccianti, ma anche come consumatori o abitanti di territori in cui la massimizzazione del profitto produce devastazione ambientale e gravi conseguenze sulla salute. Sos Rosarno, SfruttaZero, Orto Gentile, Ciccio, Nino, Federico, Walter, Dulce sono alcuni dei ciceroni di Manisera, fotografati tra le pagine del libro sempre in movimento, nelle loro battaglie quotidiane per sostenere i Fafà, Abdul, Bubakar e Jungle.

«Mondo è stato, mondo è, mondo sarà», dice all’inizio Teresa, che andò in Germania con i suoi sette fratelli per fuggire non dalla guerra, ma dalla fame del Meridione italiano degli anni Sessanta del secolo scorso. In quel detto popolare si mischiano saggezza e fatalismo. Coltivare la prima e dare torto al secondo è la sfida che abbiamo davanti per scrivere il futuro diverso di una storia che riguarda tutti.

Foto di copertina di Antonello Mangano (CC via Flickr)