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CULT
Uno sport popolare o un supermercato?
I servizi segreti ci avevano avvertito. Attenzione, avevano scritto nell’ultima relazione al parlamento, la strumentalizzazione politica delle curve negli stadi prosegue sia da destra che, novità, da sinistra : antagonisti, disobbedienti, autonomi, anarchici, fascisti, nazisti, secessionisti, nazi-maoisti e chi più ne ha più ne metta flirtano sempre più apertamente con rapinatori, ladri, drogati, scippatori, spacciatori, stupratori e insomma, utilizzando la vulgata istituzional-giornalistica, con tutti quei delinquenti che nel calcio infangano il nome dei tanti, veri, pacifici tifosi che pagano il biglietto e se ne stanno lì buoni a cantare l’inno coperto dal copyright indossando la maglia ufficiale che trovi nei punti-vendita della società e magari scollettando per quelle coreografie che tanto piacciono in televisione, dove milioni di altri veri, buoni, pacifici tifosi amano pascersi a pagamento non solo del tocco virtuoso ma anche della palpitante emozione di vedere, se capita, i cattivi all’opera.
Non possiamo lamentarci, eravamo stati avvertiti. Si deve vigilare, ci è stato detto, su quelle che più che semplici curve sono ormai alambicchi ribollenti d’inedite – gli allarmi sociali sono sempre nuovi ed inediti, altrimenti fanno notizia quanto un incidente stradale – contaminazioni teppistico-sovversive.
L’allarme si è rivelato fondato ai soliti livelli: a scuotere il paese con la propria violenza è stata infatti proprio una delle più apolitiche, menefreghiste ed auto-referenziali mob del nostro calcio, quella del Napoli. Una di quelle curve di cui si può dire di tutto ma non che possano essere strumentalizzate o etero-dirette. Di quelle che se decidono di combinare guai lo fanno in proprio, senza bisogno delle imbeccate del nazi-skin o dell’autonomo in passamontagna.
Niente di grave. L’ennesima toppa. Non è certo la prima né sarà certo l’ultima. Abbiamo fatto il callo all’insipienza ed al pressappochismo con cui viene trattato in Italia non soltanto il fenomeno degli ultrà ma, più in generale, ogni forma di conflitto impolitico, tanto più se di matrice “giovanile”. Parlo in generale: istituzioni, accademia, mass-media; in poche parole, l’Establishment nella sua interezza.
Un interessato disinteresse sembra voler incapsulare il giovane – e meno giovane – “teppista” in una dimensione in cui a dominare non sono le consueti leggi della logica ma, come in un romanzetto di fantascienza, i desideri e le convinzioni delle divinità di turno. Questa è la dimensione del Grande Dio Zorg, che se ne sbatte alla grandissima di quel che la realtà sembrerebbe suggerire o di quel che si può arguire dalla storia, spesso di quel che già il semplice buon senso dovrebbe rendere evidente.
Prendiamo gli incidenti di Avellino-Napoli. Gli ultrà, nel mondo di Zorg, sono poche centinaia di delinquenti comuni [per città], di matrice Lumpen, sottoproletariato, che per interesse [taglieggiamento delle società, business sui biglietti e trasferte, spaccio di stupefacenti, etc.] o per semplice libidine di violenza compiono efferatezze facendosi scudo della massa dei veri tifosi. Visto il tipo di identikit, non c’è bisogno di particolari motivi per innescare la loro violenza. Tutto quel che avviene prima e intorno all’atto non ha alcuna importanza, è un semplice pretesto.
Dallo stadio di Avellino le prime cronache televisive ricostruiscono i fatti, cito a memoria, in questo ordine: tribuna napoletana molto affollata, la caduta di un ragazzo dentro una intercapedine, i ritardi nei primi soccorsi, l’inizio degli incidenti con l’invasione di campo, l’arrivo dell’ambulanza, le tensioni che ritardano ulteriormente i soccorsi, le cariche contro i poliziotti ed i carabinieri. Nelle riprese televisive si nota il nutrito, ma nel caso dei napoletani consueto, lancio di razzi e mortaretti, mentre vengono utilizzate come armi le aste flessibili delle bandiere e le cinte dei pantaloni.
Nel momento dell’invasione gli ultrà napoletani non mostrano il minimo interesse verso i rivali avellinesi, nonostante la natura derbystica della partita; tutta la loro rabbia sembra rivolta verso le autorità, in quel momento rappresentate dalle divise della polizia e dei carabinieri. Lo scontro appare ancora più violento per i rapporti numerici ribaltati rispetto al solito, e che non permette alle forze in divisa di far valere il proprio migliore armamento ed addestramento. Il risultato è televisivamente sotto gli occhi di tutti, dal vicequestore colpito da infarto all’inseguimento dell’anziano e corpulento carabiniere, fino alla fuga precipitosa nei sotterranei. L’effetto è un po’ quello dell’uomo che morde il cane, di stupore, perché di solito le cose vanno in tutt’altro modo…
Ma la cadenza dei fatti, nel mondo di Zorg, non ha alcuna importanza. Così, gli scontri che seguono la caduta mortale diventano nei giorni seguenti, in vari sommari giornalistici, “incidenti in cui perde la vita un ragazzo”. Si inverte con estrema noncuranza il rapporto causa-effetto, sembrano essere gli incidenti – quindi gli ultrà – a causare la caduta e quindi la successiva morte. Qua e là si prova anche ad accennare che il giovane era privo di biglietto e che magari stava scavalcando, come dire che insomma se l’è quasi cercata, ma la famiglia smentisce e i borborigmi tacciono.
L’importante è però di poter disporre di un perfetto colpevole. Nel mondo di Zorg se gli ultrà non fossero stati lì nello stadio di Avellino il ragazzo sarebbe ancora vivo e non sarebbe successo nulla, come mai nulla negli stadi succede. Le strutture sono sicure, gli standard di sicurezza adeguati, il pubblico alieno da ogni turbolenza. Se non fosse per questi corpi estranei che ne inquinano l’organismo, il calcio sarebbe un’isola felice.
Ovviamente non è così. Senza andare indietro fino alle cronache di Tacito sulle botte da orbi tra tifoserie ostili, la storia ci subissa di dati sulla violenza legata prima ai giochi e quindi allo sport che anticipano di decenni la nascita del primo, moderno hooligan calcistico.
Restando in Italia e nel calcio, il primo atto di turbolenza si registra già nel 1905, con una invasione di campo nel corso di Juventus-Genoa. Nel successivo decennio, nonostante la quantità ancora ristretta del pubblico, gli incidenti aumentano: sulla stampa appaiono i resoconti di sassaiole contro gli arbitri in Andrea Doria-Internazionale [gennaio 1912] e in Novara-US Milanese [dicembre 1913]; di scontri intorno allo stadio in Milan-Andrea Doria [febbraio 1913]; Lazio-Juventus Roma e Spes Livorno-Pisa Sporting Club [gennaio 1914]; Internazionale-Casale [giugno 1914].
Nel primo dopoguerra, insieme al pubblico, aumentano sia di quantità sia di “qualità” gli episodi “da cronaca”: la stampa dell’epoca dà vasto risalto agli scontri tra tifoserie dopo Lucca-Parma nella stagione 1923-24 e, in quella che segue, all’invasione di campo dei tifosi del Bologna durante in terzo spareggio per il titolo nazionale contro il Genoa, all’Arena di Milano. Sempre nella stagione 1924-25, a giugno, e sempre tra tifosi genoani e bolognesi, si registra alla stazione torinese di Porta Nuova addirittura una violenta sparatoria.
Anche durante il fascismo, nonostante la coltre di censura che ammanta la stampa, ci sono prove di intemperanze calcistiche. Nel “Fondo di gabinetto di Prefettura” dell’Archivio di Stato di Milano una serie di documenti ci fanno scoprire che già nel 1930 si parlava di “partite a rischio”, come ad esempio Ambrosiana-Genoa del 15 giugno 1930. Nonostante le copiose forze di polizia presenti si registrarono ben cento feriti, ma non per la violenza dei tifosi bensì per il crollo di una superaffollata tribuna. A volte fa più danni l’avidità che la violenza.
Si potrebbe andare avanti così fino ai giorni nostri. O meglio, fino ai primi anni settanta, quando in Italia si affaccia sulla scena calcistico-mediatico-ansiogena una figura inedita, che si pensava potesse appartenere soltanto alla specificità inglese. Fino alla comparsa di quello che da noi verrà definito ultrà – o ultras – l’Establishment non aveva mai reagito con eccessiva paranoia alle intemperanze del pubblico calcistico, dopotutto è appunto dal medioevo che ci si picchia di santa ragione, ma ‘sto tipo di giovane che inizia ad aggregarsi nelle curve ricorda fastidiosamente lo stesso tipetto che, in forme politiche, gli rompe già da qualche anno le scatole nelle scuole e nelle università e nelle fabbriche. Sono le stesse facce che puoi trovare negli scontri di piazza o a sfondare i botteghini ai concerti rock. Il ’68 sembra non aver soltanto prodotto la figura del giovane rivoluzionario ma anche aver dato visibilità a forme di antagonismo tanto rabbioso quanto impolitico, abbastanza sconosciute e razionalmente “sfuggenti” da poter essere trasformate in ottimi capri espiatori.
Con la figura dell’ultrà, Zorg trova in definitiva sì un nuovo ed irriducibile avversario, ma anche un perfetto folks devil, una figura tanto “indifendibile”, da poter essere utilizzata in più forme, da cavia di nuove tecniche di repressione [tanto, chi si lamenta se ad un ultrà si negano i diritti di ogni cittadino? È un ultrà, se l’è cercata!] a figura contaminante e denigratoria di ogni altra forma di antagonismo sociale e politico. Dopotutto, nei terribili tre giorni di Genova 2001, tra i manifestanti non si erano infiltrati anche molti ultrà? O in realtà tutti i manifestanti erano degli ultrà?
[da Carta n.37, 2003]