OPINIONI
I destini generali. Homo homini virus
Mai come oggi si rende visibile l’inestricabilità delle biografie e dei percorsi individuali. Le forze politiche sembrano sospendere la conflittualità, ma è il momento di attaccare ed elaborare inedite rivendicazioni.
«Nulla è sicuro, ma scrivi»
(Franco Fortini, Traducendo Brecht)
L’Italia ai tempi del coronavirus, i diari della quarantena, le analisi (più o meno lambiccate) dello stato d’emergenza… Gli interventi sul Covid-19 – fra post, articoli e addirittura instant-book – sono diventati ormai un vero e proprio genere giornalistico, quando non letterario. Questo stesso sito prova a riflettere quotidianamente su quello che è, oltre ogni ragionevole dubbio, l’evento più foriero di conseguenze sociali e proliferazione di discorso degli ultimi anni.
È come se, detto in maniera superficiale, la sorpresa di trovarci presi collettivamente (seppur isolati) in una situazione tanto nuova e inaspettata avesse “risvegliato” l’esigenza di comunicare, condividere sensazioni, raccontare storie. D’altronde, è giusto quello che insegna il Decamerone (tanto per fare il paragone dei paragoni, vale a dire il più ovvio e banale): la novella, la narrazione cioè di episodi più o meno fittizi, non è qualcosa che semplicemente accompagna l’epidemia, o serve ad ammazzare il tempo che intercorre fra l’inizio e la fine del contagio, ma vuole esserne la cura, reclama a sé un potere taumaturgico.
Di fatto, è anche quello che si intravede nella bellissima, intensa testimonianza di Emma Gainsforth per cui: «Nel mio palazzo ho lanciato un’idea: scrivere. Usiamo una chat e abbiamo deciso di elaborare una sorta di decalogo, delle regole belle che ci aiutino ad affrontare insieme la situazione, che significa in sostanza parlare di quello che questa situazione significa per ognuno di noi e aiutarsi». Come si fa ad affrontare un “male”, un morbo, se non appunto nominandolo, arrivando a costruire una definizione comune – e proprio per questo in continuo mutamento – di quel male? Nell’esigenza di dirsi e di esporsi, si espone il più delle volte il proprio sé, se ne pro-pone un’immagine il più possibile nuda, sincera e “ripulita” dalle sovrastrutture (oppure, al contrario, ci si avventura in un iperuranio teorico talmente affettato che ciò che infine si intravede sotto la maschera non è altro che l’Io di chi prende parola, elucubra, si profonde in profondi distinguo…).
Si scrive cioè spesso, e per farla breve, in prima persona (sia grammaticalmente che concettualmente). Non è un elemento da poco. È come se il virus più di altro ci costringesse, nel momento di articolare un qualsiasi discorso, a “partire da sé”, a dichiarare nella maniera più trasparente possibile il punto da cui si osserva. A esplicitare (innanzitutto a se stessi) il rapporto – in termini di condizioni di salute, stress psicofisico, empatia relazionale – che si ha con il fenomeno del Covid-19.
Davvero, è come se la presa di parola attorno all’epidemia fosse una sorta di coming out che si traduce automaticamente (seguendo sempre Gainsforth, così come altri articoli usciti qui su Dinamopress) nella rivendicazione di una fragilità, esperita o meno. È lo sforzo, appunto, di pensarsi (pensare il sé) al di fuori dei parametri neoliberisti della produttività, della performance (lavorativa, sessuale…) o dell’accettazione (leggi: della negazione) del rischio in quanto paradigma esistenziale: la tensione diaristica, a volte addirittura intima, che sembrano avere la maggior parte degli articoli usciti negli ultimi tempi sulla tematica è in primo luogo la manifestazione di un’incertezza che, dall’andamento generale e collettivo del contagio, passa a essere caratteristica ormai inseparabile delle nostre “individualità parlanti”, comunicanti (a fatica).
Si tratta, anche, di rompere un certo tabù del pudore: alcune debolezze, “limitazioni”, che forse prima venivano custodite nel non-detto e nel privato, vengono ora mostrate e sviscerate pubblicamente, proprio perché costituiscono la leva su cui si legittima il proprio discorso… Di contro, basterebbe già questo elemento a farci guardare con sospetto alcune delle prese di posizione più chiacchierate e controverse sul tema del coronavirus. Esplicitiamo subito: al di là dei concetti espressi e delle implicazioni teoriche, non è già significativo che gli interventi di Agamben e del collettivo Wu Ming si articolino attorno a degli Io letterari che si vogliono appunto esterni al fenomeno, padroni del proprio “arsenale linguistico” e quasi mai scalfiti dalla tempesta in atto? Una postura stilistica che sembra quasi diventare auto-assoluzione e (compiaciuto) rifiuto di corresponsabilità…
Invece – e peraltro in un contesto giornalistico-informativo dove in tanti sembrano scrivere soprattutto “per aumentare il proprio ego” – la parresia tanto richiamata e decantata dai Wu Ming come esercizio di smascheramento del Potere, viene sempre più esercitata come riconoscimento di una fragilità di cui prima forse non si poteva, o non si sapeva dire. Per usare ancora le parole di Emma Gainsforth, nel raccontare il rapporto con un suo vicino di casa al tempo del virus: «ci siamo detti fragili, e abbiamo ribadito il desiderio che abbiamo di farla insieme, la nostra fragilità, spiegandocela…».
Si tratta sempre di una pratica contro-culturale, come pretenderebbero Agamben e Wu Ming, ma più sottile e in fin dei conti più efficace nella fase attuale: piuttosto che attaccare frontalmente il Palazzo d’Inverno, si tenta di mettere in atto una critica introspettiva, per vedere fino a che punto e come agiscono in noi poteri e inibizioni cui ci siamo assuefatti. Ci si scontra – dolorosamente – col limite, con la finitudine. Verrebbe da prendere a prestito le formulazione del poeta e scrittore Cesare Viviani, secondo cui «qualunque discorso e qualunque ragione sono incapaci, impossibilitati a confrontarsi, commisurarsi con il limite insuperabile, irriducibile: impotenti anche solo a pronunciarlo. L’unica parola che può trovare una propria misura di fronte al limite insuperabile è la parola della poesia: si ferma, rispetta il limite, si arresta di fronte al vuoto, concretezza assolutamente inagibile, mentre il discorso e la ragione cercano sempre di dirlo, di rappresentarlo in qualche modo».
Che cos’è l’acqua?
In questo senso, e a maggior ragione nel contesto di ciò che è stato da poco definito dall’Oms una “pandemia globale”, raccontare rappresenta una forma di cura, la parola (se poetica, vale a dire corrispondente a un’urgenza intima e vivida) rivendica un potere taumaturgico. Perché diventa il luogo privilegiato in cui finalmente articolare un pensiero condiviso, che parta dalla fragilità e dalla vulnerabilità di tutte e tutti. Ma soprattutto perché – val la pena di ribadire quella che, da una parte, può sembrare una banalità e, dall’altra, un gesto di irrispettoso cinismo, se si pensa a chi a causa del virus si trova ora in una situazione liminare fra vita e morte – è attraverso la parola e la retorica che stiamo costruendo un senso collettivo di ciò che sta avvenendo. Un senso che, innanzitutto, ci viene imposto, beninteso: è dall’alto appunto che viene certificata la natura epidemica, prima, e pandemica, poi, del contagio, è attraverso il discorso ufficiale che ci si dice che ci troviamo in uno stato di emergenza, di eccezione… così come, però, siamo poi noi dal basso – attraverso l’infinita discussione virtuale che pare essere rimasto l’unico strumento politico a disposizione – che andiamo a re-intepretare, a risignificare le possibili posizioni da assumere e l’entità della posta in gioco.
Questo per dire che, oltre a essere un esercizio di confronto interpersonale col limite, la presa di parola rimane ancora (e forse mai come ora) un “campo di battaglia”, il terreno sul quale verranno decise le traiettorie che prenderanno gli eventi e i modi con cui da tali eventi ne “usciremo” in quanto società.
In altri termini, riprendendo il ragionamento di David Foster Wallace davanti agli studenti del Kenyon College nel 2005, occorre avere comunque il coraggio di chiedersi che cavolo è l’acqua?, di ricordarsi che quanto più rimaniamo isolati per via del contagio tanto più risulta difficile percepire i contorni, fluidi, dell’infosfera in cui siamo immersi.
Ma è a questo livello che vengono imposte le misure con cui abbiamo a che fare. Quindi sì, anche a costo di apparire (di essere!) irrispettosi, abbiamo bisogno di compiere dei continui esercizi di decostruzione, di formulare ipotesi magari per assurdo. Di dirci, cioè, che non c’è evidenza scientifica, politica o sociale “così lampante” per cui lo stato di emergenza a cui ci stiamo conformando sia la migliore delle soluzioni possibili, quando non l’unica da mettere in campo. Proviamo a essere chiari: non si sta mettendo in discussione il fatto che, a fronte di una rapida e superficiale analisi costi/benefici, ci sia bisogno di stare il più possibile a casa (per chi può, purtroppo) per rallentare il contagio e dunque non mettere sotto stress il sistema sanitario nazionale.
Un po’ più sottilmente, si prova solo a mantenere ferma la considerazione per cui l’isolamento individuale non è la conseguenza inevitabile di una reazione naturale al pericolo, o la semplice implementazione di precetti comprovati dal consesso scientifico, bensì il frutto di una scelta che stiamo prendendo collettivamente (e, su alcuni piani, anche inconsciamente).
Sic et simpliciter: stiamo decidendo in quanto comunità – attraverso la combinazione di tutta una serie di pratiche e contro-pratiche discorsive e per tutta una serie di (ottime!) ragioni di carattere etico, statistico, strategico, etc. – che non vogliamo in alcun modo e assolutamente pagare il “costo simbolico e materiale” di metterci nella condizione di dover scegliere se mandare in terapia intensiva chi ha più probabilità di salvarsi, mentre lasciamo alla deriva verso un decesso quasi certo chi è più compromesso in termini di salute (cosa che, per inciso, sta già avvenendo in alcuni contesti).
È questa, mi pare, la “faglia” attorno alla quale stiamo orientando le nostre azioni. Eppure, se così è, sembra ancora più lecito instillare ulteriori dubbi, forte è la tentazione di ipotizzare – cartesianamente – l’esistenza di un “dio maligno”. Perché, davvero, se questo è l’oggetto del contendere, va da sé che diventa possibile ipotizzare (e lo si sta facendo) tutta una serie di “soluzioni alternative”, dall’esproprio di mezzi e risorse private alla placida applicazione della “selezione naturale” (leggi: darwinismo sociale), per le quali si può legittimamente sostenere che non siano tanto distanti in termini di costi/benefici da quelle che stiamo attualmente adottando.
Oppure, ci si può avventurare in esercizi di più o meno acuminato benaltrismo, dal mettere in luce come ci siano “emergenze” che causano molti più morti del Covid-19 o che ci sono altre e ben più importanti crisi in corso come quella dei migranti al confine turco-greco. E, in effetti: se la probabilità statistica (di diffondere il contagio) diviene l’unica misura etica del mio agire verso gli altri, non appare lecito – almeno per un po’, nell’isolamento delle nostre stanze – sostenere che avremmo (anche dal punto di vista meramente statistico!) molta più cura del prossimo violando il divieto e andando a portare solidarietà ai detenuti in lotta oppure andando a sfidare i neonazisti che in Grecia danno la caccia al migrante (continuando insomma a fare gesti di interposizione fisica e disobbedienza civile, come lo era il corteo dell’8 marzo poi annullato)?
Il fatto è che l’epidemia di Covid-19 sta mettendo in luce, con forza, tutta una serie di contraddizioni sistemiche delle nostre società, per non dire contraddizioni interne al neoliberismo per come lo si declina nei vari contesti. Lo si sta ripetendo oramai da più parti: già solo in Italia il virus ha reso evidenti una miriade di fratture preesistenti, dai lavoratori costretti comunque ad andare al lavoro a migranti e detenuti stipati nelle carceri e nei Cpr, dalle donne per cui l’invito a restare a casa rappresenta un rischio di subire violenza a chi invece una casa proprio non ce l’ha, o ce l’ha in condizioni precarie, di evidente sovraffollamento… L’epidemia, ma in particolare le misure messe in atto per contrastarla, significano qualcosa di profondamente diverso a seconda che tu sia nero o bianco, donna o uomo, povero o ricco, in salute o meno, etc. È qui che entra in gioco l’infosfera, l’insieme delle retoriche pubbliche e private, l’acqua in cui siamo immersi e di cui forse fatichiamo a renderci conto.
Più che dello stato di emergenza o dell’incremento di controllo sociale, infatti, si dovrebbe forse aver paura del clima di “sospensione” che si è venuto a creare e su cui sta insistendo il discorso ufficiale (peraltro in continuazione contraddetto dall’intensificarsi delle “fratture” di cui sopra).
Si sta verificando, cioè, la diffusione di una retorica per cui “adda passà a’ nuttata”, per cui “fra due mesi rideremo di sto momento”, perché “io resto a casa e finalmente posso prendermi del tempo per me stesso, oppure fare quella o la talaltra cosa che avevo lasciato in sospeso, visto che poi anche Pornhub ha messo a disposizione l’account premium gratis, etc.: un gigantesco processo di “messa fra parentesi” della conflittualità politica che, infatti, si traduce in una concentrazione del consenso nelle mani dello status-quo e nella conseguente apertura (come descrive Augusto Illuminati) di una nuova fase governativa, forte della subentrata esigenza di “unità nazionale”. E dunque ci si stringe, si spera tutti assieme magari sventolando il tricolore dai balconi, contriti, stremati dallo sforzo ma in fin dei conti orgogliosi, tutti quanti in attesa di “tornare alla normalità”.
La normalità che non vogliamo
Eppure, com’è possibile che di fronte a tutto ciò non si ribadisca quanto ci hanno insegnato le rivolte che fino a pochi giorni fa animavano piazze e strade di mezzo mondo? «Non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema», diceva una frase apparsa su un palazzo in Cile, a riassumere perfettamente lo spirito delle proteste di massa dei mesi scorsi. Non si vede perché non dovrebbe essere fatta valere un’istanza simile anche durante questi giorni di quarantena, che da locale si è fatta nazionale, e chissà se presto europea e mondiale. A parte che verosimilmente non ci sarà nessun ritorno alla “normalità” così per come l’abbiamo conosciuta fino ad adesso, ma soprattutto non la vogliamo la vostra normalità.
Per inciso, è proprio questo l’elemento maggiormente irricevibile delle analisi à la Wu Ming o Agamben: anni di interventi e discorsi volti a dimostrare che la nostra quotidianità non era che la maschera di un’oppressione costante e ora, che davvero la maschera sta saltando, di fatto si teorizza che l’emergenza non c’è, o che comunque trattare la fase attuale come un’emergenza fa solo bene al potere e, anzi, sarebbe meglio mantenere la calma piatta della normalità. È un esito davvero paradossale, quando non direttamente contro-rivoluzionario del loro ragionamento. Non è solo questione di mantenere attivo il senso di realtà, ma è proprio un problema di inefficacia dal punto di vista strategico e di immaginazione del presente e del futuro: invece che sprecare tutte le energie speculative per dimostrare che non esiste alcuna emergenza, andrebbe ribadito che l’emergenza c’è, eccome, ed è l’unica buona notizia in mezzo al casino attuale.
Il punto è che non stiamo assistendo ad alcuna sospensione del conflitto (cosa peraltro impossibile), bensì alla sua esternalizzazione nel presunto rapporto uomo/natura.
Al netto di alcune “scaramucce” del panorama nostrano (e a un andamento dei rapporti di forza a livello europeo e mondiale che pare a tutta prima schizofrenico), le forze politiche convergono verso il medesimo intento perché – ci si dice implicitamente – bisogna unirsi e salvare le sorti dell’homo sapiens a livello mondiale. La realtà è che, ancora una volta, la lotta di classe viene ricomposta a livello retorico in quanto “lotta fra specie”: i costi delle nuove conflittualità emergenti vengono “scaricati” verso la soglia fra umano e naturale, fra lavoro e ambiente.
Tuttavia, lo sappiamo fin troppo bene, una tale soglia non è che un costrutto teorico: seguendo Bruno Latour e Donna Haraway (l’uno che ci invita a scongiurare la nostra entrata nella caverna platonica, l’altra che invece vorrebbe condurci per mano fin dentro le sue più remote oscurità), dovremmo invece sforzarci di pensare lo Chthulucene come spazio di agibilità politica, il nostro mondo come un multiverso popolato da ibridi che travalicano la distinzione fra umano e naturale. Perché se è vero che il Covid-19 contagia tanto Donald Trump quanto il fattorino di Deliveroo, è altrettanto vero che la genesi e la diffusione del virus non possono essere lette al di fuori del più generale processo di antropizzazione dell’ambiente, delle dinamiche dell’estrattivismo, etc.
Dunque – come si titolava sempre su Dinamopress in una fase politica non poi così dissimile da quella attuale – è “l’ora della convergenza, il momento di attaccare”. Mai formulazione fu più profetica, difficilmente potrebbe darsi una lettura tanto chiara e lampante della congiuntura presente. La domanda non è se sia “giusto” o meno lo stato di emergenza, ma quali nuovi strumenti politici possano essere messi in campo collettivamente all’interno delle sopraggiunte condizioni (sociali e, soprattutto, sanitarie) e quali alleanze possibili vadano coltivate e approfondite all’interno delle nuove conflittualità.
In questo, più che le varie diramazioni teoriche della biopolitica, letture strutturaliste o post-strutturaliste dei rapporti di forza, azzardate previsioni geopolitiche, etc., potrebbe davvero venirci in soccorso la parola, nella sua declinazione più marginale e “poetica” come citavamo in apertura. Diceva Franco Fortini, dalla cui riflessione prende peraltro spunto questo testo, che occorre «mantenere sempre vivo e attivo l’orrore per la ineguaglianza, non già dei destini, ma dei criteri e livelli della loro interpretazione».
Stiamo vivendo il momento probabilmente più polemico (nel senso filosofico-etimologico del termine) degli ultimi vent’anni di storia repubblicana, in Italia, e comunitaria, sul piano europeo, dove un mondo vecchio sta morendo lasciando uno spazio inedito per inedite rivendicazioni (come quella, sacrosanta, del reddito di quarantena).
Mai come oggi, cioè, si rende visibile e politicamente rilevante l’inestricabilità delle biografie e dei percorsi individuali – e se è dalla vulnerabilità e fragilità private che si sta partendo: dai miei genitori, nella zona rossa lombarda, con mio padre agli inizi di una grave malattia che subisce lo slittamento di visite e cure, dai conoscenti anziani, vulnerabili e dunque rinchiusi in casa, alla propria compagna di vita, bloccata all’estero, o agli amici e colleghi a loro volta bloccati nella routine criminale di un lavoro che non gli consente di mettersi in sicurezza, ai compagni e alle compagne degli altri paesi che ancora (non senza buone ragioni) lottano con assembramenti per le strade e per le piazze, fino all’aria che ci circonda, agli andirivieni del Pil e dello spread, fino al pipistrello o al pangolino da cui si è originato lo spillover a me che scrivo e, con la scrittura, provo a dirmi io attraverso il noi – si rende urgente considerare, in un unico movimento di comprensione teorica e solidarietà pratica, i destini generali. Provare a ricomporre questi ultimi a un livello di interpretazione e di conflittualità più dignitose per tutti e tutte: non c’è mai stato altro all’orizzonte, è la sfida a cui ci chiama il presente.