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Per una filosofia impura
L’ultimo libro di Marco Mazzeo prova a indagare il capitalismo contemporaneo a partire dalla nozione di “storia naturale”. Si tratta di un programma filosofico fra i più ambiziosi degli ultimi anni. La recensione integrale al testo, comparsa ieri in forma breve su Il Manifesto
Il libro di Marco Mazzeo, Capitalismo linguistico e natura umana. Per una storia naturale (DeriveApprodi, pp. 226, £ 13), è uno dei pochi saggi filosofici, tra quelli pubblicati in Europa negli ultimi anni, che non si limitano a spostare mobili tarlati da un angolo all’altro della stessa stanza, ma propongono un trasloco in grande stile. È un saggio spigoloso, inquieto e inquietante quanto basta, niente affatto diplomatico (a differenza delle innumerevoli bibliografie ragionate che si spacciano per operette morali o scientifiche). Più che una recensione, questo sembra uno spot pubblicitario, borbotterà il fine intenditore alle prese con la consueta gastrite intellettuale. Rispondo: un libro di pensieri in movimento merita un elogio preliminare, privo di cautele e perfino ingenuo, che suoni come un avviso ai naviganti. A rinunciarvi, ci si comporterebbe, allora sì, alla stregua di quei pubblicitari prudentissimi che non si discostano mai dalla loro stucchevole top ten.
Il discorso sul metodo, con cui il libro esordisce, è irto di polemiche. I bersagli maggiori sono un naturalismo pronto a sogghignare, se solo sente parlare dei rapporti di produzione come di un ingrediente non trascurabile della natura umana; ma anche il suo complice camuffato da rivale, cioè uno storicismo soave, disgustato da ogni menzione dei requisiti innati dell’Homo sapiens da cui dipende la possibilità, anzi l’inevitabilità, della storia tutta, compresa quella dell’arte. Secondo Mazzeo, occorre sbarazzarsi, con buoni argomenti ma poco garbo, delle filosofie pure, refrattarie alla contaminazione e al chiasmo, che amministrano con ammirevole rigore la propria irrilevanza.
Pura, ma sarebbe meglio dire innocua, è una filosofia che pretenda di non avere presupposti materiali, percettivi, produttivi, politici; di non essere orientata, e spesso strattonata, da quanto avviene alle sue spalle. Una filosofia che trascuri educatamente l’ispido fondamento empirico, conficcato nel nostro modo di stare al mondo, delle categorie a priori e dei principi primi. I cultori di questa triste disciplina universitaria ritengono di soggiornare in un eterno presente (costellato però da consigli di facoltà) e di forgiare pensierini valevoli sempre e comunque. Peccato che l’illusione dell’eterno presente e lo sforzo di distogliere lo sguardo dall’opacità di vicende transeunti siano caratteristiche risapute della vita in un carcere di massima sicurezza. Proviamo a evadere, suggerisce Mazzeo. Desiderabile è una filosofia impura, che non esiti ad applicare la logica modale e l’etica aristotelica all’attività di un call center, ai fumetti di Zerocalcare, a un colloquio di lavoro intrapreso per ottenere una supplenza di due settimane. Una filosofia che riconosca, o addirittura rivendichi, i suoi presupposti extrafilosofici, cercando semmai di retroagire su di essi, di condizionare almeno un poco gli stati di cose che non smettono di condizionarla.
Mazzeo, che nel corso del tempo ha scritto pagine importanti sul tatto, su Wittgenstein, sulla malinconia, in questo libro si occupa del capitalismo contemporaneo. Di un capitalismo definibile all’incirca così: un episodio della prassi umana che mobilita a proprio vantaggio tutte le prerogative che rendono umana la prassi. Oppure: un risultato storico contingente, quindi passibile di distruzione, che però si avvale del punto di partenza della storia, situato in talune proprietà invarianti della nostra specie. Per abbozzare un ritratto attendibile di questo capitalismo, nel quale vige un inedito connubio tra ciò che conta da sempre (natura umana) e ciò che predomina soltanto ora (lavoro salariato e profitto), Mazzeo punta tutte le sue fiches sulla nozione di “storia naturale”. Nozione antica, arredata a puntino da Linneo e da Buffon, ma ripresa di buon grado anche da testi recenti di “psicologia evoluzionista”. Niente di utile, secondo l’autore, si può ricavare dagli antenati e dagli epigoni. La storia naturale è una forma di sapere che, non prestandosi a una rievocazione benevola durante il torpore della digestione, esige di essere inaugurata da capo. Di che si tratta, dunque?
Non importa narrare i cambiamenti intervenuti nel globo terrestre, dallo scioglimento dei ghiacciai alla imminente estinzione di molti mammiferi, constatando allibiti che anche la materia inorganica e organica può vantare un divenire accidentato. Né importa ricordare il mal di denti patito da Robespierre quale prova inconfutabile della persistenza di un grumo, anzi di un ascesso, molto fisiologico in seno ai grandi rivolgimenti politici. Gli eventuali fautori della storia naturale faranno bene a mettere al bando ogni uso generico del sostantivo (storia = mutamento) e dell’aggettivo (naturale = corporeo). A sentire Mazzeo, per ‘storia’ bisogna intendere soltanto i conflitti e i poteri, i riti e le tecniche, che segnano l’esistenza dell’unica specie che, oltre a vivere, deve rendere possibile la propria vita. E per ‘naturale’, soltanto ciò che, nel corredo biologico di quella medesima specie, provoca l’innovazione delle condotte e la variabilità delle istituzioni.
Avendo circoscritto con severità il significato di entrambe le parole da tenere congiunte, Mazzeo assegna un paio di compiti gravosi alla filosofia impura chiamata storia naturale. Il primo compito è intuibile: mettere in chiaro quali siano i principali istigatori naturali di una storia che di naturale, nel senso becero di prefissato e prevedibile, non ha nulla. Che cosa, nell’antropogenesi (formazione della specie) e nell’ontogenesi (formazione dell’individuo), fomenta una prassi aperta tanto alla Comune di Parigi che al nuovo fascismo di Salvini? La risposta, cui Mazzeo dedica molte pagine, è netta: promotori biologici della storia errabonda sono la facoltà del linguaggio e la neotenia, ossia la persistenza di caratteri infantili anche in età adulta. Il linguaggio, che pure è un dispositivo collocato nell’emisfero cerebrale sinistro, consente di revocare ogni collocazione sociale e politica, dato che introduce nel nostro metabolismo il possibile e la negazione, il passato remoto e il futuro anteriore, l’‘io’ e il ‘noi’. L’infanzia cronica con cui abbiamo dimestichezza, insomma la neotenia, obbliga l’animale umano, di tutti il più sprovveduto o il meno specializzato, ad adattarsi sempre di nuovo, con esperimenti provvisori, a un contesto vitale che resta indeterminato e perturbante. Il condizionale ipotetico che la sintassi ci reca in dono e la tenace duttilità infantile, lungi dall’implicare fatalmente il lavoro intermittente oggi di moda, costituiscono piuttosto la radice unitaria sia di rivolte implacabili sia di una sottomissione paga di sé.
C’è poi un secondo e più impegnativo compito che la storia naturale dovrebbe assolvere. Mazzeo invita a collezionare con meticolosità i fenomeni economici, emotivi, istituzionali in cui si incarna per un momento, in una forma mai neutrale, un tratto immutabile della nostra specie. Evidente è il cambiamento dell’angolo visuale: sono particolari fatti storici, ora, a esibire e a ricapitolare gli aspetti della natura umana che danno luogo alla sequenza di variazioni imponderabili che porta il nome di storia. Il capitalismo contemporaneo, sostiene Mazzeo, è gremito di questi fatti: siamo al cospetto di un rapporto sociale molto peculiare, e senz’altro transeunte, che però elegge a principali forze produttive il linguaggio verbale e la neotenia, cioè due prerogative permanenti del primate Homo sapiens.
L’attuale processo produttivo non è più taciturno, ma loquace. Nella cassetta degli attrezzi di ogni salariato tartassato a dovere troviamo l’intero repertorio dell’“agire comunicativo” di cui anni fa un filosofo cuorcontento, Jürgen Habermas, ha intessuto le lodi: domande, avvertimenti, sollecitazioni, dialoghi, allusioni, elogi, promesse ecc. Salvo aggiungere che la facoltà del linguaggio, allorché timbra il cartellino, genera plusvalore, non reciproco riconoscimento tra le autocoscienze. E poi: la flessibilità come unica dote professionale, la prospettiva di una formazione ininterrotta, la prontezza nel reagire all’imprevisto, l’abitudine a non contrarre stabili abitudini, che altro sono se non la manifestazione plateale, storica, fattuale della neotenia?
Oltre che della facoltà del linguaggio e dell’infanzia cronica, il modo di produzione dominante si giova anche, secondo Mazzeo, di un tassello della natura umana che una tradizione per lo più ripugnante ha chiamato spirito. Questa paroletta altezzosa, brandendo la quale l’armata bianca bruciava vivi i bolscevichi presi prigionieri, designa però una zona imprescindibile della nostra esperienza: quella sfera pubblica in cui viene meno la possibilità di separare l’interiorità dall’esteriorità e di opporre il singolare al plurale. Dello spirito in quanto sfera pubblica danno conto i “fenomeni transizionali” indagati dallo psicoanalista Winnicott, cioè gli oggetti e gli eventi del gioco, che ritagliano un ambito intermedio tra mente e mondo, dentro e fuori; nonché i “nomi di massa” (per esempio ‘latte’ e ‘pane’), che eludono l’alternativa tra uno e molti. Ma dell’andante con brio a proposito dello spirito, che rallegra la parte finale del libro, non dirò altro. Basti sapere che, per Mazzeo, il capitalismo contemporaneo fa leva su tutto ciò che rende pubblica, impersonale, dunque spirituale la vita dell’animale umano.
Concludo muovendo una critica all’autore. Egli scrive che il materialismo storico marxista è stato troppo disattento alla biologia per riuscire a fare i conti con l’economia dei nostri giorni. E che soltanto la storia naturale ha qualche chance di venire a capo di un capitalismo linguistico e neotenico. Condivido questa tesi di fondo. Mi sembra però inadeguata, a tratti, la forma dell’esposizione. A Mazzeo capita di enunciare i suoi argomenti con rapidità concitata, costipandoli in poche battute. Si comporta come un monello che prevede di scandalizzare gli adulti. O come un pirata che rinuncia a procedere con ordine geometrico durante l’arrembaggio. O come la frazione estremista di un partito ortodosso e titubante. È un atteggiamento ingiustificato e controproducente. Di filosofi adulti da sorprendere e turbare, non vi è più traccia. A Mazzeo conviene governare meglio che può la nave ammiraglia, anziché assaltarla con la foga del bucaniere. È opportuno che la frazione estremista accetti di trasformarsi in comitato centrale. Le apparenti note al margine, di cui il libro è cosparso, devono mostrare schiettamente quel che in realtà già sono: la presentazione di un programma filosofico non poco ambizioso.
*La versione estesa dell’articolo Elogio della filosofia impura è comparsa su Il Manifesto