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Sulla strada del potere nero

“Statale 106”, il saggio-inchiesta uscito di recente per Minimum Fax del reporter Antonio Talia, racconta il sistema di potere delle mafie originarie della Calabria che dilaga nei cinque continenti, ripercorrendone le iniziazioni lungo un viaggio storico-politico, sociale e geografico lungo 30 anni, sul tratto reggino della “stradale della morte”. La statale 106 che da Reggio-Calabria si allunga per 491 km fino a Taranto.

Percorrere un tratto di strada a doppio senso lunga 104 km, stretta tra le acque del mar Jonio e le pendici dell’Aspromonte: una lingua di asfalto che abbraccia una sola, intera provincia, ma che racconta di 30 anni di crimini commessi in cinque continenti diversi. È il viaggio che ha condotto lungo la dorsale jonica, sponda Reggio Calabria, il reporter Antonio Talia, giornalista calabrese, reggino di nascita ma esperto di esteri, già corrispondente da Pechino, Hong Kong e Indonesia. Ne è venuta fuori una inchiesta giornalistica che si legge quasi come un romanzo noir: Statale 106. Viaggio sulle strade le segrete delle ‘ndrangheta (Minimum Fax).

 

Antonio Talia fa partire il suo viaggio-inchiesta nell’agosto del 1989. Dal chilometro 15 di quella stessa strada statale, cioè da Bocale, «dove la classe dirigente reggina dell’epoca, degli anni ‘60 e ‘70 – amministratori, professionisti, avvocati, tutti coinvolti nel settore pubblico – fece costruire villette a ridosso del mare per fuggire dall’afa che paralizza la città quando il vento soffia da sudest per giorni». E da un omicidio che costituisce uno spartiacque nella storia recente, politica ed economica, dell’Italia, specie meridionale: quello avvenuto proprio davanti a una di quelle villette a picco sul Mare Jonio nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 1989.

Dall’assassinio, cioè, di Lodovico Ligato, ex giornalista, ex parlamentare, democristiano, all’epoca dei fatti presidente da poco dimissionario della prima azienda pubblica d’Italia per numero di dipendenti, le Ferrovie dello Stato, che venne freddato davanti alla porta di casa da 26 proiettili esplosi da tre armi diverse. La moglie del grand commis reggino, Eugenia Mammana, riesce invece per miracolo a scampare alla furia dei killer chiudendosi dietro la porta blindata. Nei giorni seguenti la donna così racconterà al sostituto procuratore Bruno Giordano: «Mio marito voleva far paura a tante persone. Aspettava gli aiuti che qualcuno nel suo partito gli aveva promesso, e che non sono mai arrivati. Voleva rifarsi dalla delusione e dall’ abbandono da parte della Dc. Perché se ne erano serviti e poi lo avevano messo da parte». E ancora: «Ho espresso agli inquirenti certezze e fornito impressioni che mi inducono a pensare che è a Roma, tra le carte dei processi in cui è imputato mio marito (scandalo lenzuola d’oro), è lì che bisogna cercare la spiegazione del delitto».

Una morte dimenticata in tutta fretta, quella di Ligato, e su cui il potere scudocrociato romano fece stendere il silenzio da subito. Il presidente della Dc, Ciriaco De Mita, il segretario del partito, Arnaldo Forlani, il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, la Dc reggina con il padrino politico di Ligato, il ministro per il Mezzogiorno, Riccardo Misasi, non pronunciarono neppure una parola. Eppure, l’uomo, soltanto sei anni prima, era stato il parlamentare reggino più votato di sempre. E, proprio Misasi, reggino come lui, l’aveva proiettato al vertice delle Ferrovie, a gestire un patrimonio di trentasei miliardi delle vecchie lire. Il delitto di Ligato, secondo quanto hanno stabilito tre gradi di giudizio, si colloca al culmine della guerra di ‘ndrangheta che allora era in corso. Cominciato nel 1985, il conflitto tra clan calabresi che si chiude nel 1991, l’anno dopo dell’assassinio del manager pubblico, lascia sul campo di battaglia oltre 600 cadaveri. «Quell’omicidio eccellente avvenuto nello spiazzo di Bocale costituisce la summa e il vertice di una stagione, ed è per questo che è stato dimenticato», scrive Antonio Talia, in Statale 106.

Ed è da lì, dal chilometro 15 della S.S 106 lato reggino che poi il reporter si inoltra in un lungo viaggio temporale, storico e geografico, collocandosi precisamente all’intersezione tra il sistema di corruzione politica e il meccanismo degli appalti gestiti quasi ovunque dall’ndrangheta negli ultimi 30 anni. Così, a partire da questo “delitto eccellente” il cui movente sarebbe da ricercare nei soldi pubblici da spartire tra le cosche all’indomani dell’approvazione, l’8 maggio del 1989, del «decreto Reggio» (lo stesso autore del libro si chiede, infatti, se 556 miliardi delle vecchie lire non sono abbastanza per tradire e uccidere il politico più potente della zona) Antonio Talia ci conduce lungo la strada del potere nero, tra formule di giuramento e riti di iniziazione che, dai piccoli paesi della provincia di Reggio Calabria come Montebello Jonico, Bova, Africo Nuovo, Platì, Locri, Siderno, raggiungono i circoli esclusivi che frequenta la borghesia mafiosa del capoluogo. Reggio Calabria, «sorgente e capolinea della Statale 106, lo snodo sul quale convergono e dal quale si irradiano tutte le terminazioni nervose della costa jonica che poi si diramano a Milano, Toronto, Duisburg, Sidney, Montevideo e Hong Kong».  I delitti e gli affari diventano globalizzati: la “sindrome”, come la definisce Antonio Talia, i cui tentacoli si estendono in cinque continenti, e dove la mente e la testa ritornano sempre qui, lungo questo lingua di asfalto bollente che dalla Calabria si estende in Basilicata e poi in Puglia.

Statale 106, dunque, è un viaggio attraverso il cuore nero del potere. Tra «camarille nascoste, incontri segreti, rituali presi in prestito dalla massoneria e continui raccordi tra politici, imprenditori e criminali». Scrive Talia: «sono stati gli uomini neri, nella loro sede segreta (il circolo Poseidonia, abbattuto da una ruspa su ordine della magistratura nel 2018), stringendo accordi tra loro, a rendere la città, la provincia, la Statale 106 così. Sono stati loro a diffondere la sindrome ovunque, dal Canada all’Australia, dalla Germania a Hong Kong». Uomini neri, professionisti dell’economia e della politica di cui Talia fa nomi e cognomi. Come quello dell’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare negli anni ‘80 del Psdi (partito socialdemocratico italiano) la cui figura aleggia per più di 40 anni tra le pieghe della storia più nascosta di Reggio Calabria, fino alla condanna in primo grado ricevuta nel 2018 per associazione mafiosa nell’ambito del processo Gotha.

Così, da quando nell’estate del 1970 a Sbarre, periferia di Reggio Calabria, mentre imperversava la rivolta del “Boia chi molla” e il giovane avvocato Paolo Romeo (allora iscritto ad Avanguardia Nazionale) in combutta con il boss Paolo De Stefano aveva nascosto per alcune settimane il leader neofascista stragista  Stefano Delle Chiaie: erano passati 48 anni, ma il cuore del potere nero era rimasto intatto. Intatto, come la «sindrome che imperversa nella zona e che ha assunto una consistenza talmente sottile da potersi autoperpetuare a prescindere dagli uomini che la incarnano di volta in volta». Sindrome così definita da Antonio Talia: «una patologia del comportamento, un complesso di atteggiamenti, mentalità e rituali».