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La fantastica signora Maisel. Compromettere la perfezione
Arrivati alla terza stagione, “La fantastica signora Maisel” si conferma uno dei più affascinanti prodotti televisivi, capace di corrodere i vincoli della perfezione attraverso gli inciampi della sua protagonista
In inglese hanno un’espressione idiomatica efficace per indicare la necessità di non fermarsi alle apparenze: there is more than meets the eye. Un monito che i prodotti di Amy Sherman-Palladino ci chiedono di tenere a mente per uscire dalla perniciosa etichetta di “carineria”. Certo, è facile lasciarsi soddisfare da ciò che i nostri occhi incontrano, in La fantastica signora Maisel, perché lo spettacolo allestito da Sherman-Palladino e dal consorte e co-creatore Daniel Palladino con i potenti mezzi di Amazon Prime Video (piattaforma che, a differenza di Netflix, punta alla qualità e non alla quantità) è una vera festa per gli occhi, soprattutto se cinefili: movimenti di macchina sinuosi e complessi, numeri musicali elaborati e impeccabili, una cura nel comparto costumi, trucco & parrucco che fa impallidire Mad Men, citazioni cinematografiche disseminate con cura, ma soprattutto con autentica passione… Proviamoci, però, a fare un passo indietro, anzi in dentro, per capire cosa rende lo show, giunto alla terza stagione e rinnovato per una quarta, uno dei più importanti degli ultimi anni.
Partiamo proprio dal titolo, nient’altro che il nome della protagonista con un ingombrante aggettivo qualificativo, reso in originale ancora più mirabolante dalla tripla allitterazione (Marvelous Mrs Maisel), che fa subito pensare a qualche tipo di supereroina; la qualità di fantastica o marvelous è, in verità, arma a doppio taglio, perché Miriam “Midge” Maisel sa di dover essere bella, intelligente, spiritosa, ottima cuoca, moglie perfetta, brava ebrea che possa vantare la presenza del rabbino alla cena per celebrare la fine dello Yom Kippur. Fantastica è quello che tutti pensano di lei quando sale sul palco, ma è anche quello che la sua famiglia, la cultura dell’epoca e le norme non scritte della società borghese degli anni ’50 le hanno inculcato di dover essere sin dalla tenera età: Midge non si lascerebbe mai vedere struccata dal consorte; misura le circonferenze di vita, petto e cosce con cura maniacale; cucina un favoloso arrosto e supporta lo scriteriato progetto del marito di intraprendere la carriera di stand-up comedian. Quella di Midge Maisel è una gabbia dorata, fatta di privilegio (è pur sempre una borghese benestante con uno splendido appartamento nell’Upper East Side e nessuna necessità di lavorare per vivere), di ipocrisia e delle aspettative che tutti proiettano su di lei; dai genitori, al marito, agli spot pubblicitari degli anni ’50. C’è chi ha storto il naso, come la critica televisiva statunitense Emily Nussbaum, davanti alla stucchevole perfezione di Midge e alla sua alta considerazione di sé: a noi sembra piuttosto che quello sia il suo vero dramma, perché per la fantastica signora Maisel l’idea di non essere all’altezza di qualcosa non è stata mai un’opzione.
Il tradimento del marito Joel e il conseguente divorzio fanno implodere la gabbia, la marchiano come non più fantastica e le danno una paradossale, inattesa libertà: libertà che sfrutta per essere fantastica in un altro campo, per reinventarsi un’identità. Ma, si badi bene, mantenendo come “nome d’arte” il cognome da sposata: in parte perché la sua comicità nasce proprio con una maschera di esilarante “desperate housewife”, in parte perché la storia della serie è quella di una donna che rimette insieme i pezzi, ma non può né vuole rinnegare le sue origini e la sua formazione. La fantastica signora Maisel è allora il racconto di come Midge combatta e si reinventi per essere nuovamente fantastica, ma senza smettere di essere la signora Maisel: un compromesso difficile, una rivoluzione in minore, fatta di strappi e passi indietro. In fondo, non era diverso per Una mamma per amica, il cui titolo originale è Gilmore Girls, un altro cognome di cui è impossibile liberarsi: Lorelai, madre-bambina colpevole di aver disonorato l’illustre famiglia, si ricostruiva una vita indipendente, ma il nucleo dello show era proprio il legame – difficile, rinnegato, riscoperto – fra le tre donne Gilmore, Emily, Lorelai e Rory, e i compromessi anche faticosi raggiunti per potersi definire, ancora e per sempre ma con orgoglio, senza rassegnazione, una Gilmore.
Il percorso identitario di Midge, così descritto, non suona particolarmente militante, soprattutto perché la sua emancipazione non pare mai prevedere l’idea di non fare parte di una coppia. Eppure, La fantastica signora Maisel è una serie autenticamente femminista, a partire dallo sguardo dei suoi autori. Torniamo all’inizio: al termine del suo primo, ebbro e improvvisato numero di stand-up, Midge si produce in una lunga ed esasperata autoanalisi. Suo marito Joel l’ha tradita con una segretaria insipida e allora a cosa è servito mantenersi magra, soda, liscia e generosa a letto? Nel fare il riassunto degli assurdi, ma socialmente accettati standard estetici cui le donne sono sottoposte (allora come ora), Midge indica il suo corpo: «Chi non vorrebbe tornare a casa da questo?!». Si accorge però di avere il viso stravolto dal pianto e afferra quindi un vassoio per coprirlo; ancora non basta, perché ritiene di avere il ventre gonfio, così copre anche quello, lasciando un’unica finestra “guardabile”, quella sui suoi seni perfetti, poi esposti in un raptus che le costerà l’arresto. Una sorta di spogliarello al contrario, uno sketch che è molto di più: col gesto di limitare il campo visivo su quanto di lei è più appetibile, Midge (ovvero Sherman-Palladino) sta riproducendo il male gaze, lo sguardo maschile dominante che raffigura e inquadra la donna solo per la sua soddisfazione. La rottura introdotta da Midge è quella che sta dietro i due vassoi, ed è un esercizio di visibilità. Nessuno, nella New York degli anni ’50, vuole vedere una donna divorziata sul palco, nessuno vuole vedere la sua imperfezione, la sua rabbia, la sua temibile forza. Nessuno vuole vedere il dietro le quinte, sapere la fatica di camminare sui tacchi o mettersi il mascara su un’auto in movimento, né conoscere i lati “oscuri” della maternità; nessuno vuole sentire la sua ironia rivolta contro il maschio. Midge rende tutto questo visibile e ascoltabile, una sfida aperta. Il suo personaggio scenico è molto più coraggioso e dirompente della Midge giù dal palco, ancora innamorata del suo primo uomo e infatuata di un appartamento di lusso; per questo la marvelous Mrs Maisel, con le sue M allitterate, è a tutti gli effetti una sorta di supereroina. Con tanto di sidekick, la spalla buffa (ma progressivamente sempre più stratificata e meglio scritta) Susie, sorella-manager-mezzana-bodyguard che, con il suo femminile atipico e fuori canone (diversi gag nelle tre stagioni la vedono scambiata per un uomo), è emblema di un modo di essere donna al di fuori della dorata gabbia in cui Midge sguazza.
Se la rivoluzione di Midge è quella di salire su un palco e mettersi sotto l’occhio di bue, è però vero che anche la stand-up comedy – come scopre sulla sua pelle – è un altro microcosmo con regole, tabù e convenzioni. Da questo punto di vista, la serie di Amy Sherman-Palladino è una interessante e lucida chiosa a questa forma di spettacolo, sempre più in voga (basti pensare a come il termine stand-up comedian abbia ormai pressoché rimpiazzato il termine “cabarettista”; o al fatto che un personaggio come Louis C.K. faccia sold out nei teatri italiani): raccontando le origini di questa comicità spesso provocatoria e politicamente scorretta (anche tramite figure seminali come Lenny Bruce e Moms Mabley), fa riflettere sulla forza e sui rischi di un’arte tradizionalmente indirizzata “contro” i più disparati bersagli. La terza stagione, in particolare, affronta il tema della responsabilità del comico sul palcoscenico, fra l’altro impostando un discorso autocritico e meta-televisivo: l’universo narrativo di Amy Sherman-Palladino è stato sovente accusato di essere prepotentemente bianco, eterosessuale e perfino propenso al body shaming, e la “correzione” attuata con l’ultima annata è lampante. Sia con l’introduzione della comunità cinoamericana legata alla sottotrama del locale aperto da Joel, sia, soprattutto, con la figura di Shy Baldwin, cantante afroamericano e omosessuale per il quale Midge fa da spalla e intorno al quale i Palladino costruiscono uno dei plot più importanti dell’annata.
La “sindrome della perfezione” di Midge la mette infatti inizialmente in una posizione piuttosto irricevibile di white savior, capace come nessuno di comprendere e consigliare Shy (il momento in cui lui le rivela la sua omosessualità e le difficoltà di viverla in segreto ricorda pericolosamente Green Book); ma quando si trova ad affrontare un pubblico interamente composto da afroamericani, nello storico Apollo Theatre di Harlem, si rende conto con terrore di non avere niente da offrire a quegli spettatori, di non potere essere fantastica anche ai loro occhi. La sua scelta di utilizzare il privato di Shy come materiale per ottenere l’applauso è scorretta sotto molteplici punti di vista: non solo per come viola un rapporto umano, ma perché ribalta l’assunto stesso della sua figura comica. La signora Maisel è donna, ebrea, divorziata: una minoranza che parla contro lo sguardo dominante; nel suo numero incentrato sui luoghi comuni, anche beceri, legati alla comunità LGBT, passa “dall’altra parte”, quella della maggioranza, facendosi forte degli altrui punti deboli. C’è, crediamo, un discorso che travalica il campo della sola stand-up (e delle polemiche legate ai contenuti politicamente scorretti del succitato C.K. o di Dave Chappelle) e diventa commento a un’epoca in cui tutti ci sentiamo investiti, dall’alto del nostro palco monoporzione di un account social, del diritto di essere ironici e di fare comicità sull’argomento del giorno, senza assumercene la responsabilità. L’invito è ad amare, di Midge, non solo i trionfi ma anche i tonfi, perché essere fantastici non sia più un dovere.
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