approfondimenti
MONDO
Gli incendi dell’eco-fascismo
La giornalista e scrittrice canadese affronta un tema di portata globale che in Italia ha ancora avuto poca eco: «Che sia chiaro: questa è l’alba della barbarie climatica. A meno che si dia un cambiamento radicale nelle politiche e nei valori che le governano»
Milioni di persone sono scese in piazza in tutto il mondo nell’ultimo sciopero globale per il clima il 27 settembre di quest’anno. Secondo la giornalista e scrittrice americana Naomi Klein «Questa diversità dei gruppi coinvolti potrebbe rivelarsi un nuovo stadio del movimento per il clima, con molti più movimenti ed elettori che si sentono parte della lotta contro il collasso climatico così come dell’emergente idea a favore di un New Deal verde basato sulla giustizia intersezionale».
Un elemento importante perché, continua, «quando Donald Trump diffonde odio razzista nei confronti dei rifugiati bahamiani in fuga dalla devastazione dell’uragano Dorian e un numero crescente di assassini di estrema destra nomina i danni ambientali come giustificazione per le proprie stragi, si sente l’urgente bisogno di affrontare i modi in cui gli incendi della devastazione climatica si stanno già intersecando con gli incendi della supremazia bianca e della crescente xenofobia a livello globale. Questi sono dei temi che approfondisco nel mio nuovo libro. On Fire: The (Burning) Case for a Green New Deal” da cui è estratto questo brano».
Foto di Gaia Di Gioacchino (sciopero per il clima 15 marzo 2019, Roma)
Un massacro eco-fascista
A Christchurch, Nuova Zelanda, il 15 marzo lo sciopero globale delle scuole per il clima è iniziato più o meno allo stesso modo che in tante altre città e provincie: nella mattinata gli studenti rumorosi si sono riversati nelle strade, tenendo in mano cartelli che esigevano una svolta nell’azione per il clima. Alcuni erano dolci e sinceri (Lotto per quello su cui cammino), altri meno (Mantenete pulita la terra. Non è Urano!).
Entro l’una, circa 2000 ragazzi erano arrivati di fronte alla piazza della cattedrale, al centro della città, dove si sono riuniti attorno a un palco improvvisato e a degli altoparlanti donati per ascoltare i discorsi e della musica. C’erano student di tutte le età e una intera scuola Maori era uscita e scesa in piazza insieme. «Ero così fiera di tutta Christchurch – mi ha detto Mia Sutherland, una delle organizzatrici, 17 anni – «Tutte queste persone sono state così coraggiose, non è facile uscire».
Proprio mentre la Sutherland si stava preparando per fare l’ultimo intervento della giornata, una delle sue amiche l’ha strattonata e le ha detto. «Devi spegnere tutto. Ora!». La Sutherland era confusa – avevano fatto troppo rumore? Sicuramente era un loro diritto! Proprio in quel momento, un ufficiale di polizia è salito sul palco e le ha tolto il microfono. Tutti devono lasciare la piazza, ha detto l’ufficiale dall’impianto amplificato. Andate a casa. Tornate a scuola. Ma restate lontani da Hagley Park.
Un paio di centinaia di studenti hanno deciso di muoversi in corteo fino alla sede del Municipio per continuare la protesta. La Sutherland, ancora confusa, è andata a prendere un autobus – ed è stato quello il momento in cui ha visto un titolo di giornale sul suo telefono riportare che c’era stata una sparatoria a circa 10 minuti di distanza da dove si trovava prima.
Sarebbero dovute passare altre ore prima che i giovani scioperanti potessero capire a fondo l’orrore di ciò che era accaduto in quella giornata e perché gli era stato intimato di tenersi alla larga da un parco vicino alla Moschea di Al Noor.
Ora sappiamo che proprio nello stesso momento dello sciopero per il clima degli studenti, un australiano di 28 anni che risiedeva in Nuova Zelanda ha guidato fino a quella moschea, è entrato e, durante le preghiere del venerdì, ha aperto il fuoco. Sei minuti dopo la carneficina, ha lasciato Al Noor con calma, ha guidato fino ad un’altra moschea e ha continuato la strage. Alla fine, sono morte 50 persone, incluso un bambino di tre anni. Un altro sarebbe morto all’ospedale qualche settimana dopo. Altri 49 sono stati gravemente feriti. È stato il più grande massacro nella storia della Nuova Zelanda moderna.
Nel suo manifesto (postato su varie pagine dei social media) e nelle iscrizioni sulla sua arma, il killer esprimeva ammirazione per gli uomini responsabili di altri massacri simili: nel centro di Oslo e al campo estivo norvegese del 2011 (77 persone uccise); alla Chiesa Metodista Episcopale Africana di Charleston, South Carolina, nel 2015 (nove persone assassinate); alla moschea di Quebec City nel 2017 (sei morti); alla sinagoga dell’Albero della Vita di Pittsburgh nel 2018 (11 persone assassinate). Come tutti queti altri terroristi, l’assassino di Christchurch era ossessionato dal concetto di “genocidio bianco”, una supposta minaccia avanzata dalla crescente presenza di popolazioni non bianche in nazioni a maggioranza bianca, che lui attribuiva agli “invasori” immigrati.
L’orrore a Christchurch era parte di questa chiara e crescente trama di crimini d’odio dell’estrema destra, tuttavia c’erano anche certe divergenze. Una di queste era il livello al quale il killer ha pianificato ed eseguito il suo massacro come uno spettacolo fatto per internet. Prima di iniziare la sua strage, ha annunciato sulla bacheca del canale 8 che «è tempo di smettere con lo shitposting (ovvero la pubblicazione di contenuti provocatori, ndt) e fare lo sforzo di un post nella vita reale» come se l’omicidio di massa fosse un meme particolarmente scioccante in attesa di essere condiviso.
La natura ipermediatica del massacro di Christchurch, con l’ovvio tentativo del killer di rendere simile a un videogioco il suo “post nella vita reale”, in insopportabile contrasto con la scottante realtà del suo orribile crimine – di proiettili che lacerano la carne, di famiglie colpite dal lutto e di una comunità globale mussulmana a cui viene consegnato il messaggio terrificante: che i suoi membri non sono al sicuro in alcun luogo, nemmeno nella sacralità della preghiera.
Ne risulta un contrasto stridente con i giovani scioperanti per il clima che si erano riuniti proprio nelle stesse ore per uno scopo così diverso. Dove il killer ha gioiosamente giocato con il confine tra fatto, finzione e cospirazione, come se la stessa idea della verità fosse una #FakeNews, gli scioperanti hanno insistito instancabilmente che dure realtà come i gas serra, il carbon footprint (impronta di carbonio) e il pericolo esponenziale di estinzione contano davvero e chiedevano che i politici accorciassero la tremenda distanza tra le parole ed i fatti.
Quando le ho parlato sei settimane dopo quel giorno terribile, Mia Suherland faceva ancora fatica a separare il momento dello sciopero da quello del massacro; si erano in qualche modo fusi nella sua memoria. «Non sono separate nella mente di nessuno», mi ha detto, la sua voce era appena più di un bisbiglio.
Quando eventi intensi accadono molto vicini gli uni agli altri, la mente umana spesso prova a fare delle connessioni che non ci sono, un fenomeno conosciuto come apofenia. Ma in questo caso delle connessioni c’erano. Infatti, lo sciopero e il massacro possono essere compresi come uno specchio di reazioni opposte alle stesse forze storiche e questo si relaziona agli altri modi in cui il killer di Christchurch è diverso dai massacri di massa dei supematristi bianchi a cui si è apertamente ispirato. A differenza di questi, lui si identifica espressamente come un «eco-fascista-etno-nazionalista». Nel suo rocambolesco manifesto ha inquadrato le sue azioni come una forma di ambientalismo contorto, levandosi contro la crescita della popolazione e affermando che «l’immigrazione continua verso l’Europa è una guerra ambientale».
Per essere chiari, il killer non era mosso dalla sua preoccupazione per l’ambiente – la sua motivazione era puro odio razziale – ma la crisi ecologica sembra essere una di quelle forze che confluivano in quell’accumulo di odio, proprio come lo vediamo agire come un acceleratore per l’odio e la violenza nei conflitti armati in giro per il mondo. La mia paura è che, a meno che cambi qualcosa di significativo nella maniera in cui le nostre società reagiscono alla crisi ecologica, vedremo questo tipo di eco-fascismo da supremazia bianca emergere con frequenza crescente, come una feroce razionalizzazione per evitare di farci carico delle nostre responsabilità collettive per la situazione climatica.
Molto di questo ha a che fare con il duro calcolo del surriscaldamento climatico. È una crisi che è maggiormente creata dallo strato più ricco della società: quasi il 50% delle emissioni globali sono prodotte dal 10% più ricco della popolazione mondiale; il 20% più ricco è responsabile del 70%. L’impatto di quelle emissioni sta danneggiando primariamente e in maniera più grave i più poveri, costringendo un numero crescente di persone a partire, e molti di più sono già in viaggio. Uno studio del 2018 della Banca Mondiale stima che per il 2050, oltre 140 milioni di persone nell’Africa sub-sahariana, nel Sud Asia e in America Latina saranno costretti a muoversi per via dello stress climatico, una stima che molti reputano prudente. Molti resteranno nei propri paesi, riversandosi nelle città e i quartieri poveri già sovraffollati; molti cercheranno una vita migliore altrove.
In qualsiasi universo morale, guidato dai principi basilari dei diritti umani, per queste vittime di una crisi originata da altri sarebbe doveroso fare giustizia. Questa giustizia dovrebbe prendere molte forme. Prima e soprattutto, la giustizia esigerebbe che il 10-20% più ricco cessasse di alimentare le cause alla base della crisi che si sta intensificando attraverso la più rapida riduzione possibile delle emissioni che le tecnologie possano permettere di raggiungere (la premessa del Green New Deal). La giustizia esige anche che prestiamo attenzione alla chiamata per un “Marshall Plan per la Terra” invocato dal negoziatore del clima per la Bolivia oltre un decennio fa: riversare risorse nel Sud globale così che le comunità si possano proteggere contro le condizioni climatiche estreme, tirarsi fuori dalla povertà con tecnologie verdi e proteggere i propri modi di vita ovunque questo sia possible.
Quando non è possibile proteggerli – quando la terra è semplicemente troppo essiccata per far crescere i raccolti e quando i mari stanno crescendo troppo rapidamente per poterli arrestare, allora la giustizia impone che riconosciamo chiaramente che tutte le persone hanno il diritto umano di muoversi e cercare sicurezza. Questo significa che dobbiamo concedere loro lo stato di asilo quando arrivano. A dire il vero, tra tutta questa perdita e sofferenza, sarebbe loro dovuto molto più di questo: gentilezza, compensazione e sentite scuse.
In altre parole, la distruzione climatica impone un riconoscimento sul piano che la mentalità conservatrice ripudia di più: la redistribuzione della ricchezza, la messa in comune delle risorse e la riparazione.
E un numero crescente di persone di estrema destra lo sanno fin troppo bene, tanto che stanno sviluppando varie e contorte ragioni per le quali nulla di tutto questo possa accadere. La prima fase è gridare “cospirazione socialista” e negare la realtà. Siamo stati in questa fase piuttosto a lungo ora. Questa era la strada scelta da Anders Breivik, il sociopatico che ha fatto fuoco al campo estivo norvegese nel 2011. Breivik era convinto che, oltre all’immigrazione, uno dei modi in cui la cultura occidentale era stata indebolita era stato l’invito all’Europa e al mondo anglofono di pagare «il suo debito climatico». In una sezione del suo manifesto chiamata «Il verde è il nuovo rosso – Stop all’ambiental-comunismo!», nel quale cita vari famosi negazionisti del cambiamento climatico, bolla le domande per i finanziamenti per il clima come un tentativo di «punire i paesi europei (e gli Stati Uniti) per il capitalismo e il successo». L’azione per il clima, asserisce, «è la nuova Redistribuzione della Ricchezza».
Ma se il negazionismo secco sembrava una strategia accettabile al tempo, dieci anni dopo (con sei di questi che sono stati tra i 10 più caldi mai registrati) oggi sembra meno percorribile. Questo, tuttavia, non vuol dire che i negazionisti del passato abbracceranno d’improvviso una risposta alla crisi climatica basata su accordi quadro internazionali. È molto più probabile che molti di coloro che al momento negano il cambio climatico cambieranno bruscamente approccio passando alla tetra visione mondiale esposta dal killer di Christchurch, una presa d’atto del fatto che stiamo davvero affrontando un futuro convulso e che c’è ancora più interesse per gli Stati ricchi e a maggioranza bianca di rafforzare i propri confini e le proprie identità di bianchi cristiani e sponsorizzare la guerra contro tutti gli “invasori”.
La scienza climatica non verrà più negata: ciò che sarà negato è l’idea che le nazioni storicamente più responsabili delle emissioni di carbonio debbano qualcosa alle popolazioni nere o meticce colpite da quell’inquinamento. Questo sarà negato facendo leva sull’unica razionalità possibile: che quei popoli non bianchi e non cristiani sono inferiori, sono l’altro, sono degli invasori pericolosi.
Nella maggior parte dell’Europa e dei paesi anglofoni, questa tendenza è già in marcia. L’Unione Europea, l’Australia e gli Stati Uniti hanno tutti adottato politiche migratorie che sono varianti della “prevenzione per mezzo di deterrenza”. La logica brutale è quella di trattare i migranti così duramente e crudelmente che le persone disperate saranno scoraggiate dal cercare la salvezza attraverso l’attraversamento delle frontiere.
Tenendo questo a mente, si lascia che i migranti affoghino nel Mediterraneo o che muoiano di disidratazione nell’arido deserto dell’Arizona. E se dovessero sopravvivere, sono messi in condizioni che equivalgono alla tortura: nei campi libici dove i paesi europei ora mandano i migranti che cercano di raggiungere le loro coste, nei campi di detenzione nelle isole al largo delle coste australiane, in un supercato Walmart trasformato in una prigione per i minori in Texas. In Italia, se i migranti riescono a raggiungere un porto, ora viene regolarmente vietato di sbarcare e sono tenuti in ostaggio sulle imbarcazioni di salvataggio in una condizione che da una corte è stata dichiarata equivalente al sequestro.
Nel frattempo, il primo ministro canadese twitta le proprie foto nell’atto di dare il benvenuto ai rifugiati e di visitare le moschee- anche se il suo governo sta facendo nuovi e massicci investimenti nella militarizzazione della frontiera e stringendo il cappio degli Accordi di Sicurezza con i Paesi Terzi, che impediscono ai richiedenti asilo di richiedere la protezione nel momento in cui attraversano le frontiere provenendo dai presumibilmente “sicuri” Stati Uniti di Trump.
L’obiettivo di questa fortificazione attorno all’Europa ai paesi anglofoni è fin troppo chiaro: convincere le persone a restare dove sono, non importa quanto terribile sia, non importa quanto mortale. In questa visione mondiale, l’emergenza non è la sofferenza delle persone: è il loro sconveniente desiderio di fuggire a questa sofferenza.
È per questo che, a solo poche ore dal massacro di Christchurch, Trump si è potuto scrollare di dosso l’ondata di violenza di estrema destra spostando subito il discorso sull’ “invasione” di migranti al confine sud degli Stati Uniti e sulla sua recente dichiarazione di una “emergenza nazionale”, una mossa che ha come obiettivo dare il via libera a una spesa di miliardi per un muro alla frontiera. Tre settimane dopo, Trump ha twittato, «il nostro paese è ancora PIENO!» Questo in risposta al tweet del ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, che all’arrivo di un piccolo gruppo di migranti salvati in mare scriveva: «I nostri porti erano e resteranno CHIUSI».
Murtaza Hussain, un giornalista di inchiesta che ha studiato il manifesto del killer di Christchurch da vicino, ha sottolineato che è pieno di idee che sono tutt’altro che marginali. Le sue parole, scrive Hussain, sono «sia lucide che tremendamente familiari. Il modo in cui si riferisce agli immigranti come invasori fa eco al linguaggio utilizzato del presidente degli Stati Uniti e dai leaderd dell’estrema destra in Europa. Per coloro che si chiedono dove (lui) si fosse radicalizzato, la risposta è alla luce del giorno, è nei nostri media e nella nostra politica che le minoranze, mussulmane o di altro tipo, sono continuamente denigrate».
Foto di Gaia Di Gioacchino (sciopero per il clima 15 marzo 2019, Roma)
Ideologie tossiche
I fattori all’origine delle migrazioni di massa sono complessi: la guerra, la violenza delle gang, l’aumento della povertà. Ciò che è chiaro è che la distruzione climatica sta intensificando tutte queste altre crisi e questa situazione non farà altro che peggiorare con il surriscaldamento. Tuttavia, piuttosto che aiutare, i paesi più ricchi del pianeta sembrano determinati ad approfondire la crisi su ogni fronte.
Non forniscono aiuti significativi per fare in modo che le nazioni più povere possano proteggersi dalle situazioni climatiche estreme. Quando l’impoverito e indebitato Mozambico è stato colpito dal Ciclone Idai, il Fondo Monetario Internazionale ha offerto al paese un prestito di 118 milioni di dollari, un prestito (non una sovvenzione) che avrebbe dovuto in qualche maniera ripagare; la «scioccante atto di accusa della comunità internazionale». Peggio ancora, a marzo 2019, Trump ha annunciato che intendeva tagliare 700 milioni di dollari degli attuali aiuti dati a Guatemala, Honduras ed El Salvador, alcuni dei quali erano destinati a programmi che aiutano i contadini ad affrontare le carestie. A giugno 2018, rendendo chiare le proprie priorità in maniera altrettanto esplicita, all’inizio della stagione degli uragani, il Dipartimento di Sicurezza Interna ha spostato 10 milioni di dollari dall’Agenzia Federale di Gestione delle Emergenze, che sono destinati alla risposta ai disastri naturali in patria, destinandoli all’unità per il Controllo di Immigrazione e Dogana, per pagare la detenzione dei migranti.
Che sia chiaro: questa è l’alba della barbarie climatica. E a meno che si dia un cambiamento radicale non solo nelle politiche, ma anche nei valori che governano le nostre politiche, questa è la maniera in cui il mondo benestante si “adatterà” all’avanzata della distruzione ambientale: sguinzagliando del tutto le ideologie tossiche che fanno una classifica della vita umana per giustificare il fatto che si stanno mostruosamente disfacendo di pezzi dell’umanità. E ciò che inizia come brutalità al confine finirà senza dubbio per infettare l’intera società.
Queste idee suprematiste non sono nuove; né sono mai sparite. Per quanto riguarda noi nordamericani, sono profondamente incastonate nella base legale dell’esistenza stessa della nostra nazione (dalla Dottrina della Scoperta Cristiana a quella della terra nullius). Il loro potere è rifluito e rifiorito nelle nostre storie, secondo cui i comportamenti immorali richiedevano una giustificazione ideologica. Proprio come queste idee tossiche sono sorte quando dovevano razionalizzare la schiavitù, il furto di terra, la segregazione, ora stanno risorgendo per giustificare la riluttanza verso il cambiamento climatico e la barbarie ai confini.
La rapida scalata della crudeltà del presente non può essere sottovalutata né possiamo evitare di affrontare i danni di lungo termine che ciò comporta sulla psiche collettiva. Dietro al teatrino di alcuni governi che negano il cambiamento climatico e di altri che affermano che stanno facendo qualcosa al riguardo mentre fortificano i propri confini contro le sue conseguenze, c’è una domanda complessiva che ci interpella tutti. Nel brullo e roccioso futuro che è già cominciato, che tipo di persone saremo? Condivideremo quel che resta e cercheremo di prenderci cura gli uni degli altri? O invece cercheremo di accaparrare ciò che resta, preoccupandoci di “quel che è nostro” e chiudendo fuori chiunque altro?
In questa epoca in cui si sollevano i mari e i fascismi, queste sono le scelte estreme che ci aspettano. Ci sono opzioni oltre alla piena barbarie climatica, ma considerato il punto a cui ci siamo spinti lungo questa strada, non ha senso pretendere che siano semplici. Servirà molto più di una tassa sul carbone o sui gas serra. Si renderà necessaria una guerra totale all’inquinamento, alla povertà, al razzismo, al colonialismo e alla disperazione, tutto insieme.
Il messaggio che viene dagli scioperi nelle scuole è che molte persone giovani sono pronte a questo profondo cambiamento. Tutti sanno fin troppo bene che l’estinzione di massa non è l’unica crisi che hanno ereditato. Stanno anche crescendo tra le rovine dell’euforia di mercato, dove i sogni di livelli di vita sempre crescenti hanno lasciato spazio all’austerità rampante e all’insicurezza economica. E il tecno-utopismo, che ha immaginato un futuro senza frizioni di infinite connessioni e comunità, si è trasformato in una dipendenza da algoritmi dell’invidia, nella sorveglianza inarrestabile delle grandi corporazioni e in una spirale di misoginia e suprematismo bianco online.
«Una volta finiti finito i compiti a casa», dice la giovane attivista svedese Greta Thunberg, «ti rendi conto che abbiamo bisogno di una politica nuova. Ci serve una economia nuova, dove tutto è basato sul nostro bilancio del ciclo di carbonio ed estremamente limitato. Ma non è sufficiente. Ci serve un modo di pensare completamente nuovo…dobbiamo smettere di competere gli uni con gli altri. Dobbiamo iniziare a cooperare e condividere le risorse che restano su questo pianeta in maniera equa».
Perché la nostra casa sta prendendo fuoco e questo non ci dovrebbe sorprendere. Costruito su false promesse, futuri a basso costo e persone sacrificabili, era destinato a saltare in aria dal principio. È troppo tardi per salvare tutto, ma possiamo ancora salvarci a vicenda e anche ad un buon numero di altre specie. Spegniamo le fiamme e costruiamo qualcosa di diverso al suo posto. Qualcosa un po’ meno elaborato, ma con spazio per tutti coloro che necessitano di riparo e cura.
Adattato da On Fire: The (Burning) Case for a Green New Deal (Simon and Shuster). Articolo pubblicato su theintercept.
Questa storia è parte di Covering Climate Now, una collaborazione di oltre 250 testate che ha l’obiettivo di rafforzare la copertura della crisi climatica.