ITALIA

La legge del mare e i confini dei “pieni poteri”

Si potrebbe utilizzare il mare, nonostante sia l’emblema dello spazio liquido, per definire la superficie sulla quale si iscrivono alcuni passaggi fondamentali di un processo durato alcuni anni e che ci costringe ora ad ascoltare una richiesta esplicita di “pieni poteri” da esercitare contro la libertà e i diritti.

Un processo composto dai salti vertiginosi e dal vuotodelle variabili e degli incroci di nuovi “populismi e sovranismi” di cui molto è stato scritto. Un processo pienamente inscritto nella crisi economica che si fa comunemente risalire al 2008, nelle politiche europee dell’austerity e dei loro effetti sul ceto medio europeo e sull’affermazione di nuove e consistenti fasce di povertà autoctone e meticce. Unprocesso la cui evoluzione è infine maturata a partire dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015 e nei più recenti ruggiti della “bestia” contro il “nero”, il diverso per antonomasia.

 

La velocità imposta dalle piattaforme definite “social”, la dipendenza dall’aggiornamento continuo, l’incapacità diffusa di riconoscere le fake news, dalle “notizie non notizie” e quelle effettivamente tali, ci impone di riflettere ed elaborare ciò che stiamo vivendo “per salti”, per associazioni e rimandi.

 

Tra questi, negli ultimi giorni, vi è stato un ritorno singolare delle immagini di un avvenimento remoto, stando appunto alla velocità social, lo sbarco di 20.000 persone provenienti dall’Albania dalla nave Vlora, nel porto di Bari, l’8 agosto del 1991.

Un evento che oggi, ex post, può essere considerato l’inizio di un fenomeno progressivamente sempre più mediatizzato e strumentalizzato nelle contese elettorali, che ha coinvolto il nostro Paese e l’intero continente europeo. Certo la Vlora, un’ex bananiera in arrivo da Cuba con un carico di zucchero nel porto di Durazzo, due anni dopo il crollo del muro di Berlino portava con se un immaginario storico potente, ma uno sforzo di memoria o di immaginazione ci mostra delle similitudini rilevanti con il presente: il primo respingimento dalle acque territoriali nei pressi di Brindisi, la forzatura del blocco da parte del comandante per emergenza sanitaria, la creazione di un “centro di detenzione” (che come scrivevano alcuni commentatori mostrava inquietanti analogie con alcune strutture utilizzate in America Latina da dittatori e corpi militari) dentro uno stadio.

 

Migliaia di persone erano cioè state rinchiuse in condizioni drammatiche, invece che accolte, dopo lo sbarco.

 

Per fortuna la “nostra” storia è anche la storia di alcune costanti ed anche allora come oggi, quelle giornate drammatiche e incredibili hanno visto manifestarsi forme inedite di solidarietà, vicinanza e complicità con chi arrivava via mare sulle nostre coste, non in crociera né in gita di piacere. Nello scorreredi immagini così “antiche”, fuori dal loro contesto e immerse nel nostro, e con un semplice click credo che in molti ci siamo posti una stessa domanda: quale la sorte di quelle ventimila persone all’epoca del Decreto Sicurezza Bis? E quale quella di chi in quei giorni ha tessuto e alimentato pratiche solidali e “umane” (aggettivo qualificativo abusato negli ultimi anni).

Come ben ricostruisce Annalisa Camilli nella Legge del Mare, nello spazio di pochissimi anni si è consumato un ribaltamento semantico dato in pasto all’opinione pubblica e all’elettorato di cui il decreto sicurezza bis è la ricaduta materiale e fortemente simbolica il cui intento è quello di chiudere “il discorso” e lo spazio di azione del salvataggio, in modo apparentemente definitivo.

Se in un primo momento i volontari e gli attivisti che operavano i salvataggi nel Mare Egeo e nel Mediterraneo Centrale erano stati enfaticamente definiti “angeli del mare”, a partire dal 2017 “gli angeli diventano vicescafisti e le loro navi taxi del mare”. Si impongono gli hashtag #portichiusi etc trasformati successivamente in direttive e in leggi e si costruisce giuridicamente il cosiddetto “reato di solidarietà”. Non solo, nel Decreto Sicurezza Bis, si combina questo spazio controverso e simbolico del mare, luogo di contesa politica ipermediatizzata e di disputa continua tra vita e morte con lo spazio di terra e in particolare quello del dissenso e della libertà d’espressione.

 

Il Mar Mediterraneo Centrale è diventato negli ultimi anni non solo uno spazio geografico ma la rappresentazione del potere e delle resistenze che il suo esercizio porta ineluttabilmente con se ed è divenuto il luogo di una impari battaglia navale in cui la posta in gioco è ciò che di più materiale abbiamo, la vita, e l’orizzonte fondamentale su cui fondare le battaglie per i diritti, la libertà.

 

Non solo, il mare ha cristallizzato la paura dell’invasione dell’altro, di possibili differenze culturali e sociali, la vittimizzazione di corpi situandoli definitivamente in una cornice di bisogno e disperazione. E allo stesso tempo ha sollecitato resistenza, azione, disobbedienza o anche, paradossale obbedienza a delle leggi primarie quali quelle del mare e dei trattati internazionali fondate sulle pulsioni democratiche del dopoguerra, fresche dell’orrore nazifascista.

Il mare agisce come un confine liquido che si frappone all’irriducibilità del desiderio di libertà e del “diritto di fuga” (dalla Libia, come anche le stesse organizzazioni internazionali hanno puntualmente osservato) anche contro il certosino lavoro diplomatico, politico ed economico di esternalizzazione delle frontiere europee che ora si manifesta pienamente come la premessa a quelli che senza retorica vanno chiamati “crimini contro l’umanità”, erroneamente posti sullo stesso piano di eventuali “crimini umanitari”.

Lo scenario del Mediterraneo centrale di questi anni ha fissato l’anonimato di chi fugge e l’eroismo di chi salva, talvolta mettendo a rischio la propria stessa vita. In questa contrapposizione si è delineata una polarizzazione dell’opinione pubblica di massa. Vita o morte. Sommersi o salvati.

L’attacco del potere si concretizza su due fronti fondamentali, quello comunicativo a suon di tweet razzisti e xenofobi pericolosamente “popolari” e  quello normativo, penale e amministrativo. Chi salva un naufrago viene indagato ed è costretto a multe e sequestri preventivi (navi confiscate con procedure analoghe al sequestro dei beni di proprietà delle cosche mafiose).

La distorsione culturale, il paradosso politico, l’utilizzo del diritto contro i diritti ci impongono una risposta da terra. Ci impongono il sentirsi equipaggio come è stato urlato nelle piazze afose degli ultimi mesi contro l’infamia dei decreti “sicurezza” e di prendere sul serio la sfida che impone di allargare il campo di comprensione delle strategie complessive dell’ “autoritarismo disumano” in mare come in terra. Gli equipaggi di mare ci impongono delle ritualità essenziali, fondamentali se si ha a che fare con un elemento naturale di rara potenza. Ci impongono la sobrietà, la solidarietà, la costruzione di vincoli e di patti che vedono al centro la nostra possibilità di “salvezza”, di libertà e di azione.