MONDO

Noi, la guerra e la pace.

Riflessioni sulle guerre alle porte dell’Europa dopo “Gaza, noi e la questione palestinese

In questo mese di agosto, in cui ogni giorno arrivano bollettini dal fronte, credo sia utile riprendere le riflessioni aperte da Emiliano Viccaro con “Gaza noi e la questione palestinese“, allargandole a diversi fronti dei conflitti che si stanno consumando alle porte dell’Europa.

Come per tanti altri attivisti della generazione venuta dopo il G8 genovese i primi ricordi di manifestazioni e cortei sono indissolubilmente legati alle guerre in Iraq e Afganistan. Ogni mattina prima di andare a scuola si guardava il telegiornale aspettando la notizia dell’attacco, poi sapevamo che l’appuntamento era davanti ai cancelli per bloccare l’ingresso e muoversi in corteo verso il centro. Era facile: i cattivi erano Bush e Berlusconi, le vittime le popolazioni che avrebbero subito le bombe. I talebani e di Saddam non erano un nostro problema perché alla guerra bisognava dire no “senza se e senza ma” e l’esportazione della democrazia avrebbe solo portato guai per decenni a venire, oltre a fare gli interessi economici dell’occidente.

Piazze piene e trasversali, le bandiere della pace alle finestre, milioni di persone mobilitate, azioni dirette ma anche aspri dibattiti, a cominciare dalla questione violenza/non violenza, frutto avvelenato della repressione del luglio 2001, e dagli scontri proprio sulla questione della guerra con la sinistra “d’alternativa” che sosteneva l’ultimo governo Prodi (ricordate la contestazione a Fausto Bertinotti presidente della Camera alla Sapienza?).

E poi? Poi la questione “guerra e pace” scompare dagli orizzonti dei movimenti, se non come analisi governamentale dei dispositivi di controllo sociale e repressione. Dopo Bush jr arriva Obama, nel 2008 la grande crisi e il conflitto che si sposta in casa: l’austerità sposta il fronte contro di noi, i proletari del terzo millennio che occupiamo scuole e facoltà, portando con se impoverimento e insicurezza. Ma la storia non si ferma non solo nel nostro vecchio continente sempre più marginale e immobile, l’altra sponda del Mediterraneo esplode. Arrivano inaspettate le primavere arabe, con esiti spesso molto diversi da quelli che avremmo sperato; la guerra civile in Siria e ora la guerra, di nuovo, in Iraq. Ma non solo i confini sud dell’Europa sono turbolenti: anche l’Ucraina, dopo Majdan, arriva ad una guerra guerreggiata. Altro che conflitti lontani ed esotici! La guerra sta alle nostre porte e ci coinvolge direttamente, in Ucraina quanto in Siria e Iraq.

In est Europa abbiamo visto un movimento di piazza essere egemonizzato militarmente da formazioni neonaziste, un paese arrivare alla guerra civile foraggiata da magnati che si fanno signori della guerra per procura, mentre tra l’Europa e la Russia di Putin si rimpallano responsabilità e accuse. Sullo sfondo le forniture di gas e petrolio. In Iraq vengono al pettine i nodi nati dall’invasione e il protettorato statunitense, con il paese che rischia di rompersi in tre lungo linee etniche e religiose, prefigurando una lunga guerra civile e la variabile del neonato Califfato tra Siria e Iraq. Proprio la vicenda siriana, dove si combatte da tre anni senza sosta una guerra civile terribile, con tutti gli attori regionali e globali a foraggiare con armi e denaro le milizie che più gli aggradano, ci mette di fronte alla nostra incapacità di articolare un discorso e una pratica attiva sui conflitti in corso.

Scopriamo così un mondo molto più complesso e multipolare, in cui prendere posizione non si può fare ad occhi chiusi: le affermazioni moraleggianti contro i conflitti servono a poco, mancano interlocutori e attori forti in cui riconoscersi, non capiamo bene dove sono i buoni e i cattivi. Ci sentiamo per lo più impotenti e troppo spesso ci riduciamo a ricostruire e commentare, al massimo a provare a fornire testimonianze e punti di vista che ci sembrano degni di nota o più convincenti di altri. Se le lenti dell’antimperialismo pensavamo fossero inutili prima, possiamo definitivamente pensionarle per non rischiare di vedere partigiani li dove non ci sono. Ci servono occhiali nuovi e che siano buoni, per non accontentarci delle semplificazioni o delle letture mediatiche ma senza relativizzare all’infinito, perché lenti nuove ci servono soprattutto per agire e parteggiare. Misurarci sul terreno dell’analisi dei conflitti, ma anche inventare nuove pratiche politiche efficaci. Per farlo non possiamo che ripartire da noi, dall’Europa: dall’incontro e la mobilitazione transnazionale deve nascere un nuovo lessico comune per dire no alla guerra, per sabotarla.