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“Rip It Up and Start Again” dei Motus

Gli anni zero sono stati incapaci di dare inizio al futuro che ci si aspettava, ma hanno generato piuttosto varie forme di “retromania”, in campo politico come in quello artistico-musicale. Come è possibile oggi immaginare alternative, anche utopiche, in un mondo dove tutto sembra già stato detto, immaginato, sentito? Insieme a 15 giovanissimi attori de “La Manufacture” di Losanna i Motus tornano al punk per provare a pensare cosa voglia dire oggi inventare un desiderio poetico e politico

«Bands don’t call it quit no more now. They just go on forever. Like zombies» (oggi i gruppi non si sciolgono più. Vanno avanti per sempre, come zombie): era questa la sentenza senza appello di un avventore a un concerto-reunion dei Pogues di qualche anno fa. E in effetti, non si poteva proprio dargli torto. Non solo perché il concerto al quale entrambi stavamo assistendo con un misto di delusione e sorpresa, costituiva uno spettacolo ben modesto (come spesso accade con le reunion), ma anche perché in generale le reunion e la retro-nostalgia rock sono ormai diventati una condanna e un peccato a cui un po’ tutti – musicisti e fan – abbiamo colpevolmente partecipato. Basta vedere quali sono stati gli eventi musicali più popolari (e commercialmente più redditizi) degli ultimi anni per rendersi conto di come lo sguardo idealizzato per un passato rock di 30, 40 (o anche 50) anni fa domini ormai l’immaginario musicale contemporaneo.

 

 

Che gli zombie nel nuovo millennio stessero tornando, portando con sé una diversa concezione del tempo, della fine della storia e della morte, era cosa nota, e ultimamente lo si è visto anche col loro ritorno nei film di Jim Jarmusch e Bertrand Bonello. Viviamo in un tempo dove il passato non riesce più a passare, e quindi non solo finisce per impedire al nuovo di sorgere, ma anche per ritornare in una forma invertita, minacciosa e paradossale, come con gli zombie che del ritorno del rimosso sono sempre stati la figura cinematografica per eccellenza. Come ha detto Simon Reynolds in Retromania. Pop Culture’s Addiction to Its Own Past: «Gli anni zero non parlano di se stessi ma del fatto che adesso ogni altra decade del passato accade di nuovo: una simultaneità pop che abolisce la storia e che fa a pezzi la percezione del presente come tempo con un’identità e un sentimento propri».

Il senso della perdita della diacronia storica e la riduzione sincronica del passato a una serie di immagini alle quali attingere arbitrariamente caratterizza l’estetica del capitalismo avanzato già da qualche tempo (il saggio di Fredric Jameson sul postmoderno è dei primi anni Ottanta), eppure per le generazioni nate dopo gli anni Novanta – che sono nate e cresciute già dentro il world wide web – questo processo è ancora più forte. Mark Fisher aveva definito quella dei millennial come «una generazione di cui ogni singola mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e svenduta prima ancora di compiersi». Insomma la domanda è generazionale ma forse non solo: come è possibile che si crei “il nuovo” quando tutto sembra già stato scritto, detto e visto? Come è possibile che si crei una discontinuità storica in assenza di una qualsivoglia consapevolezza della diacronica storica?

 

 

Non è esplicitamente di questo che parla Rip It Up and Start Again (che nel titolo cita un altro libro di Simon Reynolds), il nuovo spettacolo dei Motus, ma ci sembra che le domande di fondo da cui prenda forma siano le stesse. L’abbiamo visto nei giorni scorsi in una delle prime recite al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano, prima di iniziare una breve tournée per la Svizzera, Torino e Parigi. È uno spettacolo che è proprio dalla musica – e dall’eterno ritorno delle sue citazioni e delle sue forme – che prende avvio, dato che letteralmente si entra a teatro con le note di Germ Free Adolescents degli X-Ray Spex sparate a palla. Si entra insomma a spettacolo “già iniziato”, proprio perché entriamo in un mondo musicale già costituito e in un tempo storico che è già occupato da suoni, esperienze artistiche passate, immagini che ci pre-esistono e delle quali in qualche modo dobbiamo fare qualcosa. Sul palco ci sono quindici giovanissimi attori, diplomandi presso La Manufacture – Haute école des arts de la scène di Losanna, che insieme porteranno avanti lo spettacolo. Perché Rip It Up and Start Again è il loro saggio di fine corso: che però li interpella non tanto per le loro abilità teatrali (per altro già notevoli, perché i ragazzi e le ragazze sono di straordinario talento) ma per la loro posizione soggettiva.

A ognuno di loro infatti è stato chiesto di “abitare” una figura storica della scena post-punk: da Ian Curtis dei Joy Division, a Nick Cave dei Birthday Party; da Lydia Lunch a Mark E. Smith dei Fall; da Ari Up degli Slits a Siouxsie Sioux dei Siouxsie and the Banshees (anche se il più esilarante è senz’altro Green Gartside degli Scritti Politti). Il risultato è una specie di concerto “raccontato”, dove le canzoni – attraverso un re-enactment che a volte ha le sembianze di un karaoke, altre di un DJ set – vengono inframmezzate da aneddoti sui protagonisti di quella scena, che però “strabordano” continuamente nel contemporaneo e nelle vite dei ragazzi de La Manufacture che le mettono in scena.

 

 

Il problema infatti, come sempre accade nella riflessione dei Motus, è politico: come è possibile abitare un mondo dove tutto sembra stato già detto, già scritto, già fatto? Dove anche qualunque forma di ribellismo poetico e politico sembra già stata tentata e sconfitta? È un po’ quel double-bind a cui sembra che l’ideologia neoliberista degli anni Ottanta ci abbia condannato, e che ritorna in varie forme nelle ideologie conservatrici dei “pentiti” della generazione del Sessantotto: le rivolte le abbiamo già provate, e siamo stati sconfitti. È stata colpa nostra, e ora non c’è più nulla da fare: non provateci più! Perché allora un ventenne di oggi dovrebbe accostarsi a quelli che già c’hanno provato solo come spettatore di qualcosa che c’è già stato? Perché la “sua” musica dovrebbe essere un concerto dei settantenni Rolling Stones o i Pixies che suonano Surfer Rosa cover-to-cover a Coachella? Il problema è allora provare a creare qualcosa di “nuovo” in un mondo che sembra invece ormai completamente chiuso su se stesso (la retro­-mania appunto). Il problema – si potrebbe anche dire – è quello di trovare in mezzo alle cianfrusaglie e alla ferraglia abbandonata dei decenni precedenti, il germoglio di un desiderio utopico. Come si vede anche nel recente (e bellissimo, ancorché largamente incompreso) Ready Player One di Spielberg.

 

 

I Motus allora, come spesso accade nei loro spettacoli degli ultimi anni, costruiscono coerentemente uno spazio scenico pieno di “rimediazioni”, di schermi, di proiettori, di video a circuito chiuso: gli attori si riprendono, e si riprendono riprendere in continuazione, come se l’immagine teatrale arrivasse già da sempre spuria, sporcata da video, musiche registrate, dischi, icone etc. E anche la parola passa dalla prima persona alla citazione di altri testi (in questo caso soprattutto testi di canzoni) senza soluzioni di continuità. Nasciamo già dentro a un flusso di immagini, parole e suoni dove tutto è già merce ed è già significante. Nulla è più autentico eppure nulla è irrimediabilmente perduto. Perché la grande scommessa di Rip It Up and Start Again è proprio che in mezzo a tutto questa passione retro sia possibile comunque trovare un desiderio di qualcosa di assolutamente nuovo e singolare. Come scrisse una volta Toni Negri, “la resistenza non viene prima ma dopo la catastrofe”.

 

 

E allora si riparte dal punk (anche se i Motus, come Simon Reynolds, prediligono soprattutto la sua ala più artistica e avanguardista, quella post dei Joy Division, Fall, Tuxedomoon, Siouxie and the Banshees, Gang of Four etc.) perché è stato forse l’ultimo tentativo avanguardista di creare, seppure fuori tempo massimo e non senza ingenuità (ma anche qui, spielberghianamente, l’ingenuità è un valore!), una rottura inaudita con il passato. Ma il problema non è il punk in sé, o la fedeltà alla sua memoria storica, ma quanto queste esperienze artistico-politiche possano essere interpellate e ri-soggettivate a partire dall’oggi (e l’oggi non può che essere incarnato drammaturgicamente da un ventenne millennial). E allora Genesis P-Orridge è colei che ha sperimentato un’identità oltre il binarismo sessuale, Lydia Lunch è una combattente dello slut-shaming, canzoni come Lady Shave di Fad Gadget o figure come Poly Styrene diventano inventrici della body positivity. La creazione è una questione di desiderio, e il problema è la sua creazione soggettiva oggi. A partire dalle icone e dai dischi retro che troviamo a nostra disposizione.

Eppure Rip It Up and Start Again – che pure è un progetto di straordinaria efficacia e interesse – si ferma un momento prima di quella che forse sarebbe la domanda più difficile. Non sono forse le stesse idee di invenzione, discontinuità, e rottura (a cui il punk inevitabilmente si lega) ad appartenere ancora troppo alla temporalità del moderno? Siamo ancora in una fase storica dove la trasformazione e l’idea di emancipazione possono sorgere tramite la figura del nuovo e del taglio discontinuo nei confronti del passato? Non si sta forse ormai facendo largo una sensibilità estetica e politica che è viceversa predicata sul principio della ripetizione e della ricorsività (con tutte le contraddizioni e i rischi che questo comporta)? Ma questa, forse, non può che essere una domanda che va ben oltre l’ambizione di questo spettacolo e che tutti – o quanto meno tutti quelli che hanno a cuore l’invenzione artistica e politica – saremo tenuti a porci nei difficili tempi a venire.