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“Portrait de la jeune fille en feu” di Céline Sciamma

Presentato domenica in concorso, il nuovo film di Céline Sciamma ritorna sui temi cari alla regista dell’identità e della soggettivazione sessuale con una storia d’amore tra due donne ambientata a fine Settecento. E con una riflessione tra le più interessanti sul legame tra desiderio e visione

Perché Orfeo, quando sta per uscire dall’Ade, dove è andato a riportare in vita la sua amata Euridice prematuramente morta, si volta a guardarla contravvenendo al patto stretto con gli Dei e provocandone così la morte? Perché per amore si mette a fare qualcosa che gli impedirà di fare esperienza del suo amore per lei? Perché Orfeo non riesce a resistere alla tentazione di guardare? Perché insomma la pulsione a guardare è più forte della voglia di vivere? Se lo chiedono le tre protagoniste di una delle scene più intense e significative di Portrait de la jeune fille en feu, l’ultimo film di Céline Sciamma presentato domenica in concorso a Cannes: la storia ambientata a fine Settecento della giovane pittrice Marianne che viene reclutata per fare il ritratto di Héloïse, che ha appena lasciato il convento e che è stata promessa in sposa a un giovane nobile di Milano. Il ritratto è quindi il tramite per la vita matrimoniale, con tutte le conseguenze che questo comporta.

E naturalmente Héloïse di questo matrimonio non ne vuole sapere nulla. Tutti i pittori che si sono cimentati in questo arduo compito hanno fallito, perché Héloïse si rifiuta di mettersi in posa e di farsi ritrarre da chicchessia. Fino a che non arriva Marianne, che all’inizio ha il compito di ritrarla di nascosto ma poi poco a poco inizia a stringere un rapporto sempre più intimo con lei. Marianne, Héloïse e la serva Sophie iniziano così a passare diversi giorni insieme, in questa grande proprietà in riva al mare, e a conoscersi sempre di più, fino a che una sera parlando del mito di Orfeo ed Euridice si pongono la domanda che sta alla base del mito fondativo della riflessione visiva Occidentale: che rapporto c’è tra la visione e la vita? E la risposta che si danno è inequivocabile: perché Orfeo fa la scelta del poeta, quella di guardare al posto di vivere.

Portrait de la jeune fille en feu riflette infatti sul rapporto tra il desiderio e la visione. Prima ancora che nel tatto e nell’esperienza del corpo, l’amore tra Marianne e Héloïse ha inizio nel reciproco guardarsi: guardare, essere guardati. Derrida ha spiegato quest’esperienza umana e comune del soggetto, affermando che la sua identità immaginaria è sempre segnata da una complessa dialettica di lacerazione e di unificazione attraverso l’immagine. Questa differenza, che è insieme esposizione al mondo e violenza reciproca, inizia nell’esperienza del “guardarsi dall’altro” — dal punto di vista dell’altro, ma anche nel sentimento di paura suscitato dall’altro. Il film di Sciamma allora comincia dalla vista e dalla visione che diventa vera e propria esperienza del guardare, cioè del toccare con la vista nel principio della scoperta del desiderio per un altro.

Il ritratto per Héloïse non è allora solo un modo per essere oggettificata in un’immagine, ma è anche il tramite attraverso cui approdare alla vita matrimoniale, cioè alla buona regola familiare e eterosessuale. «È davvero così che mi vedi?» – chiede Héloïse alla pittrice Marianne. «Quell’immagine che sta di fronte a me, sono proprio io?» È infatti proprio attraverso l’immagine che la donna storicamente è diventata oggetto da poter essere contemplato e quindi “appropriato” con il contratto matrimoniale. Eppure, dice la protagonista del film interpretata da Adèle Haenel, «tutto scorre«: com’è possibile che tutto questo che io sono venga “stabilizzato” dalla permanenza di un’immagine? Com’è possibile che la domanda angosciosa sulla propria identità e il proprio desiderio possa trovare un approdo immaginario in un quadro, in un’immagine di me? È la riflessione attorno a cui si è sempre orientato il cinema di Céline Sciamma, già dal suo esordio di Naissance des pieuvres (2007), passando da Tomboy (2011) fino a Bande de filles (2014): l’identità non è un’immagine allo specchio che può essere rappresentata, ma è la costruzione pazienza di un soggetto in divenire o semmai di una comunità. Eppure in questo film la sua riflessione diventa più raffinata: il visivo non è solo un processo di reificazione dell’identità fluida e inafferrabile del soggetto, ma è anche l’enigma del desiderio dell’altro. Nella domanda «allora è così che tu mi vedi?» non vi è solo l’obiezione dell’ «io non sono come tu credi», ma c’è anche il baratro che si apre sul desiderio dell’altro. Héloïse, nel chiedere a Marianne «com’è che tu mi vedi?», si chiede anche: «che cosa io sono per te?», «qual è il tuo desiderio per me?», «che cosa vuoi tu da me?».

I quadri che Marianne continuerà a dipingere durante i giorni della loro relazione – con sempre più perizia e cura e con sempre più trasporto desiderante – saranno il tramite attraverso cui si costituirà la loro storia d’amore. Vicenda che condurrà, irrimediabilmente e drammaticamente, a un paradosso: un amore che si costituisce tramite un’immagine potrà emanciparsi da quella che è inevitabilmente una minima reificazione? Alla fine Marianne – novella Orfeo – non finirà inevitabilmente per “girarsi a guardare l’immagine della sua amata”? E quindi uccidere il loro amore nella vita? L’amore resosi immagine non può avere reciprocità: è il rapporto tra un soggetto e l’icona di un amore, che trasfiguratosi in idea si sostituisce alla vita. Insomma, non ci può che essere alternativa tra la vita e l’immagine. Ed è forse per quello che Portrait de la jeune fille en feu finisce per svelare la sua natura di melodramma che implicitamente era già presente dall’inizio del film: l’amore per essere eterno deve trasfigurarsi in icona eterna. Anche se il prezzo da pagare non potrà che essere la sua uccisione.