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Il panuelo verde veste Cannes con “Que sea ley” di Solanas

L’unico film argentino a Cannes parla di aborto legale. Il regista è Juan Solanas che torna a Cannes dopo più di un decennio portando le immagini della lotta femminista e convertendo la premiere in un gesto di militanza.

Presentato come proiezione speciale, l’unico film argentino a Cannes parla di aborto legale.

Le poltrone della sala Soixantième sono ricoperte di pañuelosw verdi, simbolo della lotta femminista argentina per l’aborto sicuro, legale e gratuito ed eco del fazzoletto bianco de las madres de Plaza de Mayo per i figli scomparsi. Sta per essere proiettata l’anteprima del documentario di Juan Solanas dal titolo inequivocabile: Que sea ley. Il regista torna a Cannes dopo più di un decennio convertendo, insieme alle compagne di Buenos Aires, la première in un gesto politico.

Sono presenti in sala circa una ventina di femministe argentine, molti degli spettatori hanno qualcosa di verde addosso, alcuni sono invece spaesati, pochi altri indifferenti. È chiaro a tutti che la proiezione non sarà solo un altro pezzo dello spettacolo del Festival.

Solanas porta sullo schermo immagini che abbiamo già visto: sono quelle delle donne che lottano contro i governi ultra-conservatori dell’America Latina e contro i principi moralistici delle istituzioni religiose.

 

 

Il tempo nel documentario copre la durata che va dal voto positivo alla Camera a quello negativo del Senato sulla mozione presentata in Parlamento per legalizzare l’interruzione di gravidanza. Il regista coglie infatti, nella delusione condivisa dalla piazza, tutta la determinazione rabbiosa di quel momento e la sua trasformazione in strumento di lotta. Quella notte del 9 agosto sono due milioni le donne che circondano il Parlamento dopo lunghe giornate di manifestazioni straordinarie. La violenza antidemocratica del verdetto del Palazzo segna, infatti, come emerge dalle riprese istintive di Solanas, una svolta storica incancellabile. “Será ley!” – viene affermato combattivamente da più voci intervistate nel corso del film.

Accanto a queste immagini, Solinas decide con coscienza critica di montare quelle del popolo Pro vita e le voci dei conservatori cattolici. Un popolo numeroso anche quello e che rende chiaro il contesto sociale e politico, il campo in cui è germinata la lotta per l’aborto legale, sicuro e gratuito oltre un decennio fa. Il disegno di legge presentato la scorsa estate al Congresso Nazionale è stato infatti il settimo tentativo di far passare una mozione che chiede educazione sessuale e libertà di scelta, contraccezione e aborto invece che morte. Il 28 maggio prossimo ne verrà presentata un’altra.

Il documentario raccorda questo montaggio tra folle attraverso i dati sulle condizioni delle donne che sono costrette a praticare l’aborto clandestinamente e attraverso le testimonianze di decine di femministe che ricordano che nel mondo sono 25 milioni gli aborti clandestini ogni anno.

In Argentina dal 1983, anno della democrazia, secondo le statistiche ufficiali sono 3.030 le donne morte a causa degli aborti praticati in condizioni di clandestinità, aborti che vanno dai 350.000 ai 600.000 annui. I registri ufficiali degli ospedali pubblici parlano di circa 50.000 ospedalizzazioni annue dovute alle complicazioni per le condizioni primitive con cui si pratica l’aborto. Ma gli ospedali, essendo l’aborto criminalizzato, non sono luoghi sicuri. Dati che brulicano in un paese in cui il 36% della popolazione, di cui l’48% di minori, vive sotto la soglia di povertà. Le vittime di questi dati mostruosi vengono raccontate attraverso numerose interviste che Solanas ha registrato viaggiando lungo cinque province. Dalla morte della ventiduenne Liliana Herrera proprio quel 9 agosto, all’arresto di Belén, accusata di aver tentato di abortire e per questo condannata a sette anni di carcere. Queste storie sono affiancate dalle testimonianze delle attiviste femministe e dal sostegno informale della rete delle donne. Ma anche cattoliche progressiste, ginecologhe come Cecilia Ousset o membri del Parlamento come Teresita Villavicencio. Le voci sono diverse e raccontano le esperienze drammatiche e i trattamenti punitivi che molte donne si trovano ad affrontare negli ospedali – dal 1921 l’interruzione di gravidanza può essere praticata solo se è in pericolo la vita della donna. Il filo rosso è l’ipocrisia che sposta il discorso dalla salute pubblica alla retorica conservatrice, motivo per cui le morti per aborto sono oggi chiamate da chi lotta per il diritto alla salute “femminicidi di Stato”.

Al termine gli applausi sono lunghi. L’omaggio va al film ma soprattutto al movimento femminista argentino, a Ni Una Menos che campeggia a centro schermo nei titoli di coda, alle compagne argentine presenti in sala e al coro “Aborto Legal Seguro y Gratuito”: in Argentina come in Alabama e ovunque questo diritto non sia ancora stato conquistato.