MONDO
La violenza in Venezuela: il punto di non ritorno e la strategia del golpe
I primi passi del colpo di stato, dall’apparizione dello sconosciuto Guaidó all’ingerenza pubblica di Trump e dei governi amici sudamericani. Quali alternative si aprono.
Esplode la tensione nel paese, ieri migliaia in piazza contro il governo, grandi manifestazioni anche a sostegno di Maduro e contro il tentativo di golpe con l’autoproclamazione da parte del leader dell’opposizione come presidente, subito riconosciuto dagli Stati Uniti e dai governi filo Usa protagonisti del ciclo reazionario in America Latina. Il nuovo mandato di Maduro, eletto presidente dopo la vittoria alle scorse elezioni presidenziali (dove parte dell’opposizione decise di non presentarsi), il 20 maggio 2018, quando ottenne il 67 per cento dei voti (oltre sei milioni di voti), pochi mesi dopo la vittoria alle elezioni regionali che dimostrarono una persistente forza del chavismo. La mossa delle destre nello scacchiere venezuelano si annunciava da mesi e contribuisce ad aumentare duramente il clima di violenza politica nel paese, mentre sono stati più di dieci i morti in diversi momenti di scontro negli ultimi due giorni.
Juan Guaidò non è stato riconosciuto come legittimo presidente dalle forze armate, che sostengono il presidente costituzionalmente eletto, nonostante l’invito al golpe militare con amnistia promessa per i militari che si sarebbero ribellati a Maduro. Il suo giuramento davanti a una folla di sostenitori, seppure dal forte valore simbolico e politico, è di fatto privo di qualunque legittimità costituzionale. Deputato dal 2011, organizzatore delle mobilitazioni contro il presidente Maduro, l’erede della destra venezuelana di Leopoldo López e di Capriles era stato fermato dalla polizia per un’ora poche settimane fa, poi subito rilasciato, poco dopo essere diventato presidente dell’Assemblea Nazionale, per rotazione delle cariche tra i vari partiti.
Di certo, il clima politico profondamente cambiato nella regione negli ultimi anni, le vittorie di Macri, Bolsonaro e Piñera in Argentina, Brasile e Cile, e la profonda crisi economica e sociale che il Venezuela sta attraversando, con responsabilità legate al blocco finanziario e alla guerra economica, ma anche del governo di Maduro, della corruzione della burocrazia statale e militare, hanno creato le condizioni per una nuova offensiva dell’opposizione, che comunque ha visto crescere la partecipazione alle manifestazioni lanciate contro il governo, a fronte dell’assenza di soluzioni a una crisi preoccupante che sta causando aumento della povertà, violenza e centinaia di migliaia di venezuelani che migrano all’estero. Al tempo stesso, ricordiamo che il chavismo oltre che un governo, è soprattutto un processo sociale e un movimento popolare radicato nel paese e organizzato nei territori, che ha saputo resistere in diverse situazioni di crisi, offensiva e colpi di Stato, dal 2002 contro Chavez fino al 2014 e al 2017 con le guarimbas contro Maduro, che ha risposto rilanciando nel 2017 l’Assemblea Costituente.
Per analizzare la fase attuale e cosa ne sarà del Venezuela nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, riportiamo un contributo di Marco Teruggi, sociologo e giornalista franco-argentino che scrive da Caracas per diversi media latinoamericani, autore del libro “Mañana será historia: diario urgente de Venezuela“, editato in Argentina con Editorial Sudestada.
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Ieri Juan Guaidó si è autoproclamato presidente ad interim del Venezuela. Lo ha fatto da un palco davanti alla propria base sociale radunata a Caracas. Ugualmente, ha assicurato che guiderà le fila di un governo di transizione sconosciuto fino al 5 gennaio, assumendo la presidenza dell’Assemblea Nazionale in virtù della coincidenza della rotazione dell’incarico tra i vari partiti.
Il tweet tanto atteso è arrivato pochi minuti dopo che la notizia era diventata di dominio pubblico: Donald Trump, Presidente degli Stati Uniti, dichiara di riconoscere Guaidó come legittimo presidente. Gli hanno fatto seguito chi ci si aspettava lo avrebbe fatto: Iván Duque e Jair Bolsonaro [rispettivamente Presidente della Colombia e Presidente del Brasile – ndt]. Si concludono e completano così le azioni pianificate raggiungendo un punto di non ritorno.
Da ora in poi, il conflitto entra in una fase nuova e pericolosa: il piano annunciato dalla destra, diretto dall’esterno, non può che concretizzarsi attraverso un’intensificazione della violenza.
La notizia era nell’aria. Infatti, il giorno prima [martedì 22 gennaio – ndt] il vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Mike Pence, ha registrato un video nel quale invitava alla mobilitazione di questo mercoledì 23 gennaio, dando la propria benedizione a Guaidó. Il deputato repubblicano Marco Rubio, nella crociata contro Cuba e Venezuela, ha lanciato dei tweet minacciosi nei confronti di Nicolás Maduro: «Non iniziare una lotta con qualcuno che ha dimostrato di essere capace di compiere azioni oltre ogni immaginazione».
Così si completa la dichiarazione del colpo di stato. La domanda è: come saranno in grado di renderlo effettivo, ovvero rimuovere Nicolás Maduro con la forza? Una cosa è annunciare e un’altra è disporre dei rapporti di forza sufficienti.
In questa cornice, gli occhi sono puntati su alcune variabili fondamentali. In primo luogo, quale sarà l’evoluzione del fronte esterno. L’Assemblea Nazionale ha già inviato un rappresentante del “nuovo governo” all’Organizzazione degli Stati Americani, e gli Stati Uniti dovrebbero annunciare nuove misure per tradurre in misure concrete il riconoscimento come Presidente espresso a Guaidó.
Secondo, la strada. Il 23 gennaio, la destra ha dimostrato di aver riacquisito capacità di mobilitazione, cosa che non riusciva a raggiungere dall’agosto del 2017. Questa è la dimensione pubblica di quello che succede nelle strade, ritrasmesso a livello internazionale. Accanto a questo ci sono le azioni violente che si verificano dal pomeriggio fino all’alba, come è successo lunedì, martedì e mercoledì scorso.
Quest’ultima dimensione è fondamentale: gli atti sono presentati dal punto di vista comunicativo come spontanei, quando in realtà si tratta di azioni programmate e realizzate da gruppi armati (e pagate) per scatenare incendi, assedi, cercare di coinvolgere le persone delle aree popolari e generare una sensazione di accerchiamento del chavismo e di potere nelle mani della destra.
Questa situazione precipiterà, con la probabile attivazione di forze paramilitari con intensità più alta di quella presentata nel 2017 (quando sono arrivati ad attaccare le caserme militari). Ci saranno più morti, fa parte del piano per il colpo di stato. Il chavismo si trova davanti al dilemma di come affrontare questa avanzata nazionale e internazionale che cerca di spezzare la Forza Armata Nazionale Bolivariana (FANB), creare zone di conflitto al confine per giustificare azioni di forza (il fattore Colombia è determinante) e far crollare l’economia spingendo la popolazione verso lo scontro civile.
Il primo passo è stata la manifestazione di questo 23 gennaio, per dimostrare che il chavismo non ha perso la propria capacità di mobilitazione di piazza. Quella manifestazione ha dimostrato che si è riusciti a mantenere l’unità, fattore chiave in queste circostanze. «Non accettiamo un presidente imposto da oscuri interessi nè autoproclamatosi al di fuori della legge. La Fanb difende la nostra Costituzione ed è garante della sovranità nazionale», ha scritto Vladimir Padrino López, Ministro della Difesa.
Per quanto riguarda le risposte diplomatiche, si è verificato quello che ci si aspettava: il governo ha rotto le relazioni con gli Stati Uniti e la Russia ha confermato il proprio riconoscimento a Nicolás Maduro come presidente. Il conflitto venezuelano è geopolitico.
Oltre a tutto questo, c’è la necessità di evitare di cadere nelle provocazioni della destra che, a differenza del 2017, ha iniziato a portare il conflitto nei quartieri popolari fin di questa nuova offensiva. Si prevedono manifestazioni di violenza in diversi punti del paese, un assedio armato alle città e ai quartieri presentato come pacifico, costruito con un gran lavoro di passaparola attraverso i social network.
Per quanto concerne l’Assemblea Nazionale, abbiamo la domanda da porre. È stata dichiarata illegittima dalla Corte Suprema di Giustizia, ma come bisogna comportarsi prima della dichiarazione del governo parallelo che costituirebbe una formale dichiarazione di guerra? Scioglierla e indire nuove elezioni sarebbe come buttare benzina sul fuoco, ma dare seguito all’azione della Corte Suprema e far avanzare il suo piano golpe è davvero un’opzione perseguibile? Le risposte sono complesse, riguardano più elementi contemporaneamente. Una situazione un filo pericolosa.
Il Venezuela è entrato in una fase da cui non sembra esserci ritorno. Il piano annunciato da Guaidó, diretto dagli Stati Uniti, può concretizzarsi solo attraverso la violenza.
Sono alla ricerca delle modalità e degli attori. Per quel che riguarda i tempi, sono accelerati, e la destra non sembra in grado di riuscire a mantenere un conflitto di questa portata per un lungo periodo a livello nazionale. Il 2017 ha dimostrato che la violenza prolungata può perdere legittimità e isolare il tentativo di colpo di stato.
A partire da questo momento può succedere di tutto, dal più semplice degli incendi ad un evento di grande impatto che serva da catalizzatore.
Anche da un momento all’altro. Sono al terzo assalto violento in cinque anni e pensano di poter prevalere. Hanno un peso internazionale decisivo in questo caso, e godono anche del favore del logoramento generato dalla situazione economica. A opporvisi c’è il chavismo, movimento da sempre sottovalutato, che ha dimostrato intelligenza e capacità di azione democratica in scenari che sembravano persi.
Articolo pubblicato sul quotidiano argentino Pagina12 e sul blog Hastaelnocau. Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress