OPINIONI

“Fine del mondo e fine del mese sono per noi la stessa cosa”

Dietro i movimenti sociali che in questi giorni stanno attraversando l’Europa, è possibile vedere l’emergere di una nuova questione ambientale non più disgiunta dalla lotta di classe. Ed è proprio in Francia che si stanno delineando le linee di frattura tra differenti approcci alla transizione ecologica e la necessità di una convergenza delle lotte.

Sabato 8 dicembre 2018 è un giorno che probabilmente resterà nella storia di molti movimenti. Le strade di tante città europee si sono riempite di manifestazioni contro le questioni sociali più pressanti del nostro tempo: la crescita delle diseguaglianze, le grandi opere inutili, e la crisi climatica. E sebbene tali questioni possano sembrare indipendenti l’una dall’altra, ad uno sguardo più attento ci si accorge che non è così.

La manifestazione che più di tutte ha catturato l’immaginario collettivo e le testate dei giornali è quella dei gilets jaunes in Francia. Questo weekend è stato il quarto consecutivo in cui la capitale e altre città sono state attraversate da cortei di protesta contro Macron. E sebbene la miccia di questo movimento sia stata una nuova tassa sui carburanti, il combustibile che la tiene viva è il risentimento verso “il Presidente dei ricchi” che ha recentemente diminuito l’imposta di solidarietà sulla ricchezza, vessillo del socialismo francese.

Le altre proteste che hanno segnato questo weekend sono state quelle in Italia contro le grandi opere inutili che devastano i nostri ecosistemi e la salute dei cittadini (come la TAV, il TAP, e il Muos) e quelle in tutto il mondo contro il cambiamento climatico. Infatti è in corso in questi giorni nella città di Katowice in Polonia la conferenza climatica COP24 organizzata dallo UNFCCC. Questo summit ha il compito di definire le politiche necessarie per raggiungere l’obbiettivo sancito dall’Accordo di Parigi nel 2016, ossia limitare il riscaldamento globale a non più di 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Tale assise potrebbe essere l’ultima opportunità per la comunità internazionale di adottare le misure necessarie per evitare l’apocalisse ecologica.

Risulta pertanto evidente che la questione ambientale è un nesso sempre più forte fra tanti movimenti sociali. E sebbene possa sembrare un paradosso, è proprio in Francia – paese il cui Presidente è stato recentemente insignito del premio “Campione della Terra” dall’ONU – che si stanno delineando le linee di frattura fra i differenti approcci alla transizione ecologica.

Come sostiene Andreas Malm, Macron è oggi il paladino della retorica neoliberista sul riscaldamento globale: siamo tutti indistintamente responsabili per il cambiamento climatico ed è quindi necessario introdurre imposte sul valore aggiunto che incentivino a scegliere prodotti di consumo più ecologici. È questa la logica dietro alla tassa sul carburante proposta dal governo francese. Ma l’incremento dell’IVA è il modo più regressivo per guidare la transizione ecologica di cui abbiamo bisogno. L’unico effetto reale di tale tassa sarebbe quello percepito nei portafogli dei cittadini più poveri che non possono permettersi di abbandonare le loro vecchie auto. Mentre nel complesso le emissioni di CO2 rimarrebbero sostanzialmente invariate.

Proprio per questo nelle strade di Parigi si sente cantare lo slogan «Fine del mondo e fine del mese sono per noi la stessa cosa». E come ha detto Naomi Klein, la ragione per cui la gente vede questa situazione come una lotta di classe è perché lo è. Basti pensare al fatto che, mentre l’auto è il mezzo di trasporto più diffuso fra tutte le classi sociali (e ancora più indispensabile per i ceti medio-bassi che abitano nelle campagne e periferie), il 75% dei francesi non prende mai l’aereo e la metà del numero totale di voli in Francia è compiuto dal 2% della popolazione, presumibilmente dei ceti più elevati. E tuttavia il cherosene, il combustibile utilizzato per gli aerei, non è tassato. Tassare di più il cherosene sarebbe un modo per ridurre più velocemente e in maniera socialmente equa le emissioni.

Ciononostante l’uso dell’auto privata è probabilmente inconciliabile con il rapido livello di decarbonizzazione necessaria: come indicato nell’ultimo rapporto dello IPCC, se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C dobbiamo dimezzare le emissioni globali nei prossimi 12 anni e ridurle a zero entro la metà del secolo. Quindi come facciamo ad assicurare la mobilità nei nostri paesi? Per cominciare, una massiccia espansione dei trasporti pubblici nelle aree urbane e rurali, la diffusione in massa di mezzi di trasporto alternativi (biciclette elettriche, car pooling con veicoli elettrificati), divieto di auto private alimentate a combustibili fossili nelle città, zonizzazione di attività economiche per porre fine alla dispersione urbana, ecc. In poche parole: pianificazione e investimenti pubblici commisurati all’emergenza climatica. Abbiamo bisogno di espandere e di elettrificare i trasporti pubblici e non è attraverso qualche tassa che possiamo perseguire questa transizione. Inoltre dobbiamo assicurarci che la nostra elettricità sia prodotta da fonti rinnovabili e per fare ciò dobbiamo socializzare la rete elettrica.

Sarebbe utile se l’industria automobilistica avesse l’ordine di trasformare la propria produzione industriale per ciò di cui abbiamo bisogno: pale eoliche, pannelli solari, scooter elettrici, tram, ecc. Insomma proprio come le fabbriche automobilistiche americane furono convertite a sfornare carri armati nella seconda guerra mondiale per ordine dell’amministrazione Roosevelt, così oggi potrebbero essere riconvertite per combattere la battaglia contro il cambiamento climatico. Tutto ciò non richiederebbe né il sacrificio di posti di lavoro né degli standard di vita della popolazione, ma potrebbe migliorare entrambi. E proprio seguendo la lezione di Roosevelt, sempre più progressisti nel mondo – da Corbyn a Sanders – sposano la visione di un Green New Deal. E per finanziare questa nuova stagione di grandi investimenti pubblici abbiamo bisogno di una tassazione più progressiva: poiché vi è una stretta correlazione fra ricchezza e quantitativo di emissioni, la ricchezza privata accumulata negli ultimi decenni a spese dell’ambiente e della collettività deve essere ora utilizzata per evitare il collasso socio-economico che il cambiamento climatico rappresenta.

Ma dubito che l’attuale classe dirigente europea si alzi la mattina contemplando queste idee. Basti vedere la querelle di questi giorni all’interno del governo giallo-verde per l’adozione di qualche magro incentivo sulle auto elettriche. Ed ecco allora la seconda lezione più importante delle scorse settimane: qualsiasi progresso sul fronte climatico avverrà solo grazie alle lotte dal basso. E non solo proteste, ma atti di disobbedienza civile come quelli compiuti nel centro di Londra nelle ultime settimane dal movimento Extinction Rebellion. Dal momento che né Macron né alcun altro leader è disposto a fare ciò che deve essere fatto, saranno proprio le manifestazioni di massa che daranno impulso alla lotta per una società più giusta e sostenibile. Ma per fare ciò abbiamo bisogno di una convergence des luttes, poiché ciò che tutti questi movimenti vogliono è «System Change Not Climate Change»: un cambiamento di sistema per evitare il cambiamento climatico.

 

 

Riccardo Mastini è un dottorando di ricerca presso lo Institute of Environmental Science and Technology della Universitat Autònoma de Barcelona. Lo potete seguire su Twitter e Facebook.