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MOVIMENTO

Il suicidio impossibile

Il testo del 1970 ricostruisce il contributo medico-legale all’archiviazione del procedimento sulla morte di Giuseppe Pinelli. Non si tratta di una contro-inchiesta quanto piuttosto dell’analisi critica della disposizione di saperi e competenze a servizio di una tesi precostituita, attraverso la paradossale combinazione di zelo e comportamenti omissivi. L’avvaloramento dell’ipotesi del suicidio fu sostanzialmente indotta, ma non fu necessaria alcuna manipolazione quanto piuttosto l’oculata elusione di valutazioni e dati tecnici medico-legali

Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 Giuseppe Pinelli precipitava da una finestra  della Questura di Milano. In queste note non intendiamo – pur essendo medici – proporre una vera e propria controperizia, basata, come di solito succede, sulla ricerca di difetti e imperfezioni della perizia precedente. Così facendo, correremmo il rischio di mantenerci nel piano di una contrapposizione meccanica di tesi, che certo non gioverebbe alla ricerca della verità sulla morte di Pinelli e nello stesso tempo confermerebbe la validità di quell’ambito puramente legale in cui questa morte è stata assorbita e trasformata in un “caso” pronto per l’archiviazione, perlomeno dal punto di vista penale.

 

Intendiamo invece mostrare come questo ambito, proprio attraverso l’impiego di una serie di accortezze e astensioni tecniche, sia stato utilizzato dal potere per risolvere una situazione difficile.

 

Ci basiamo a questo scopo sulla perizia medico-legale, opera dei professori Ranieri Luvoni, Guglielmo Falzi e Franco Mangili, sulla richiesta di archiviazione del sostituto procuratore Giovanni Caizzi (14 maggio 1970) e sul successivo decreto di archiviazione (3 luglio 1970) del giudice Antonio Amati.

La morte di un uomo che precipita da una finestra del locale di polizia in cui viene interrogato, a tre giorni da una strage, suscita una «innegabile emozione»(Amati) e si pone subito «al centro di vibrate polemiche, in buona parte alimentate da alcune dichiarazioni di organi responsabili delle indagini» (Caizzi). In questa situazione, che vede nascere le più inquietanti congetture, il procuratore Caizzi dispone la sezione del cadavere; al termine di questa, egli pone ai periti il seguente quesito, che sarà bene leggere attentamente: «Dicano i periti, eseguito ogni opportuno accertamento, quale sia stata la causa della morte di Pinelli Giuseppe e se le lesioni riscontrate nel corso dell’autopsia siano compatibili con le modalità di precipitazione prospettate in atti e se siano state riscontrate lesioni di altro tipo, precisandone l’eventuale eziologia».

Si tratta di una domanda molto ampia, non c’è dubbio, la cui formulazione però impone immediatamente, in questo caso concreto, alcune considerazioni. In un caso di morte sospetta, qual è quella di Pinelli, è logico che il giudice chieda ai periti 1) la causa della morte e 2) se è possibile stabilire il tipo di modalità lesiva (suicidio, omicidio, incidente e così via) che, stando ai reperti di autopsia, cioè rimanendo in un ambito puramente tecnico, ha provocato quella morte. Invece il procuratore Caizzi divide la domanda numero 2 in due parti: chiede se le lesioni riscontrate sono compatibili con la modalità lesiva descritta in atti – cioè descritta dai funzionari e agenti di polizia che interrogavano Pinelli – e se vi sono altre lesioni, di diversa origine. In questo modo è possibile, per esempio, prevedere una risposta in cui si dica che esistono lesioni compatibili con la modalità di precipitazione descritta dalla polizia accanto, eventualmente, a lesioni di altro tipo. Ai periti non si chiede di stabilire, tecnicamente, quale tipo di modalità lesiva sia intervenuto, ma di vagliare una relazione di compatibilità con una particolare modalità lesiva, segnalando, a parte, eventuali altre lesioni.

 

 

Così facendo, il procuratore è nel suo diritto: propone il quesito che ritiene opportuno, e nessun altro. Ma nel suo quesito si profila una delimitazione dell’indagine che non è motivata dalla necessità di non uscire dall’ambito tecnico della perizia; al contrario, essa consentirà di fatto ai periti, come vedremo ora, una risposta la cui attendibilità propriamente tecnica è fortemente ridotta, mentre ne è rafforzato il valore di sostegno nei confronti della ricostruzione dei fatti che il giudice propone.

Non abbiamo elementi per dubitare della esattezza dei reperti obiettivi descritti dai periti; Pinelli è effettivamente morto per, e soltanto per, un «complesso traumatismo che ha provocato lesioni multiple scheletriche e viscerali in sede toracico-addominale». Le difficoltà interne, tecniche, della perizia cominciano nel momento in cui i periti asseriscono che tali lesioni sono «compatibili» (anzi, «si accordano») con la «modalità lesiva prospettata in atti». Per dare questa risposta in modo tale che essa abbia un significato per il giudice, essi sono infatti costretti, primo, a commettere una omissione essenziale per la discussione diagnostica, secondo, a prospettare alla ricerca una impossibilità infondata.

 

L’omissione consiste nel non dire che le lesioni da precipitazione sono caratterizzate dal fatto che di per sé esse dicono di solito assai poco, se non nulla, sull’evento – suicidio, omicidio, disgrazia – che le ha provocate.

 

Si tratta di una osservazione medico-legale talmente importante che si ritrova in ogni trattato, e sarà quindi necessario citarne qualcuno per esteso. Albert Ponsold così si esprime: «Vi è quindi da accertare se la caduta dall’alto sia stata accompagnata da svenimento (assenza di coscienza). La caduta dall’alto è di solito una disgrazia o un suicidio. Questo però non si può desumere dal reperto autoptico considerato da solo».[1] Gerhard Hansen scrive: «Una morte per caduta dall’alto non si può in generale riconoscere attraverso l’autopsia (tracce di lotta!) e quindi nei casi dubbi un sopralluogo è sempre necessario per poter trarre eventuali deduzioni […] Speciali problemi medico-legali possono sorgere se la caduta è avvenuta soltanto in un secondo tempo ed è presente uno stato di morte per ragioni interne naturali, o se, essendo presente una sofferenza organica, la caduta è avvenuta per dolore, debolezza o svenimento. Per una sicura valutazione della caduta dall’alto il reperto autoptico da solo perciò non può bastare. Una ispezione in loco e la conoscenza di tutte le altre circostanze sono necessarie per una valutazione definitiva».[2] Tiziano Formaggio scrive: «In molti casi che sembrerebbero dovuti a suicidio assai spesso vengono formulate molte riserve con più o meno fondate ragioni. Il perito medico-legale dovrà in ogni caso essere estremamente prudente nel convalidare, in mancanza di elementi di giudizio significativi, l’ipotesi del suicidio». Anche questo autore segnala la necessità di una «accurata ispezione della località» ove è avvenuta la precipitazione per stabilire se si tratta di suicidio, disgrazia od omicidio. [3]

Mario Carrara e collaboratori concludono nel modo seguente la loro trattazione: «Dati sicuri o anche di sola probabilità per la diagnosi differenziale tra suicidio, omicidio o disgrazia accidentale, non si ricavano, salvo circostanze eccezionali, dal solo esame del corpo del precipitato. Il complesso delle condizioni nelle quali il fatto è avvenuto e delle circostanze extramediche potrà portare qualche chiarimento sul movente della precipitazione».[4]

La risposta completa dei periti avrebbe quindi dovuto essere: le lesioni riscontrate sono compatibili anche con una diversa modalità di precipitazione (omicidio-disgrazia), proprio sulla base di conoscenze tecniche sicure; oppure: il quesito propostoci non ammette una risposta non tendenziosa, da un punto di vista logico e tecnico; si rende perciò necessario un supplemento di indagine da parte del giudice, volto a chiarire le circostanze extramediche dell’evento (esperimento giudiziale ecc.). Ma i periti fanno il loro mestiere, a volte triste mestiere, e a domanda rispondono come vuole la legge.

Per sostenere la loro risposta, essi sono per di più costretti a prospettare, come si è detto, una impossibilità infondata. Vale a dire, mentre discutono per alcune pagine sul modo in cui il corpo ha urtato contro il suolo, essi asseriscono che «è da ritenersi impossibile una ricostruzione assolutamente esatta della cinematica dell’evento». La finezza del linguaggio e la cautela della formula non bastano a coprire la rinuncia all’indagine: se una ricostruzione assolutamente esatta è impossibile, non per questo è impossibile una ricostruzione sufficientemente esatta. Agli atti esistono descrizioni diverse che consentono perlomeno l’inizio di un processo di ricostruzione della «cinematica», e che esigono quindi d’essere confrontate: Pinelli si è tuffato dalla finestra (lo dicono tutti i funzionari di polizia), è stato afferrato per un piede (brigadiere Vito Panessa), è caduto battendo sui cornicioni (il triplice tonfo udito dal giornalista Aldo Palumbo). Per i periti Pinelli «avrebbe battuto contro i rami di un albero». Avrebbe. Un albero. Sembra di sognare.

Questa vaghezza lascia aperta, e problematica, l’interpretazione di alcuni reperti fondamentali. Le «lesioni scheletriche e viscerali produttive della morte» sono «localizzate a livello toracico e addominale». La massima energia di urto si è  esercitata dunque a livello toracico e addominale. L’interpretazione di questo dato è della massima importanza ed esso solo avrebbe richiesto l’ispezione e l’esperimento giudiziale, perché l’urto con il tronco, anziché con il capo o con gli arti, e le conseguenti fratture alle vertebre, alle coste, al bacino, anziché al capo e agli arti, sono più frequenti nel caso della precipitazione di un corpo esanime che negli altri casi di precipitazione, come si rileva dalla letteratura medico-legale. A ciò si aggiunga che mancano per contro nel cadavere quelle lesioni indirette, dovute al gioco delle azioni muscolari, che sono un reperto frequente negli arti di persone precipitate in stato di coscienza vigile.

Nella perizia si legge inoltre la descrizione di un’area grossolanamente ovulare, sulla superficie posteriore del torace, alla base del collo, «di cm 6×3, nella quale l’epidermide appare lievemente ispessita con maggior evidenza del disegno reticolare, di colore più chiaro rispetto alla cute circostante che appare violacea per ipostasi: al taglio, non infiltrazioni emorragiche dell’epidermide e del derma». Di questo reperto cutaneo non si dà alcuna spiegazione particolare; dovremmo quindi ritenere che vada anch’esso riferito a «un’azione lesiva di tipo contusivo», come le escoriazioni e ferite lacere ritrovate in altre parti del corpo? Se così è, si tratta di una lesione che, a differenza di tutte le altre, è caratterizzata da ischemia anziché da infiltrazione emorragica dei tessuti: essa ripropone perciò il problema della modalità contusiva che l’ha indotta. Se così non è, allora essa è l’indizio della curiosa tendenza dei periti a limitare il loro pensiero, oltre che la loro azione, alla pura constatazione anatomica.

 

La risposta che i periti danno alla domanda del procuratore è dunque esatta; ma nascendo dalla esclusione di altre risposte equivalenti, e non menzionando la necessità di altre indagini, essa è tendenziosa.

 

Vediamo ora l’uso che il procuratore ne fa. A p. 10 della sua relazione troviamo scritto: «La versione della volontarietà del gesto del Pinelli, sostenuta dai testi presenti e convalidata dai risultati della perizia medico-legale, trova ulteriori conferme…» ecc. Il circolo si chiude. Noi sappiamo che le lesioni sul cadavere parlano a favore del suicidio in misura forse inferiore a quella in cui parlano a favore dell’omicidio o della disgrazia. Ma la domanda sapiente del procuratore, a cui ha fatto eco la risposta accorta dei periti, fa sì che il risultato della perizia suoni convalida del suicidio. Il procuratore, con il contributo essenziale dei periti, si trova insomma ad aver costruito oggettivamente una sorta di sillogismo, che potrebbe avere la seguente configurazione: 1) in taluni casi, le lesioni da precipitazioni sono dovute a suicidio; 2) Pinelli presenta queste lesioni; 3) dunque Pinelli si è suicidato.

Non occorre avere approfondito la logica medievale per rendersi conto che questo modo di sillogizzare è invalido: per considerare la conclusione («Pinelli si è suicidato») una deduzione corretta, bisognerebbe poter presupporre che in ogni caso le lesioni da precipitazione siano dovute a suicidio.

Ma infine, quali sarebbero le motivazioni di questo suicidio? Su questo punto il procuratore Caizzi è rapido e sbrigativo: si tratta di una «libera scelta», intervenuta al seguito di un «meccanismo non precisamente individuabile» che si è manifestato in occasione della rivelazione simulata del commissario Calabresi («Valpreda ha detto tutto»). Chi si sofferma piuttosto a lungo su questo punto è invece il giudice Amati, ed è anzi questo che caratterizza il decreto d’archiviazione rispetto alla relazione del procuratore (l’asserzione, per esempio, a p. 52, che «il suicida era fisicamente nella pienezza delle sue forze, come la perizia d’ufficio ha indiscutibilmente assodato», non fa che ripetere, rendendola ancora più «indiscutibile», l’argomentazione sopra indicata del procuratore).

Colpiscono innanzitutto alcuni particolari. Tra le motivazioni che secondo Amati possono aver portato Pinelli al suicidio e che egli viene enumerando secondo una curiosa tecnica di accumulazione, vi sono la paura di perdere il posto, «per i gravi sospetti che si nutrivano nei suoi confronti e per le contestazioni che gli erano state fatte sull’alibi da lui dato a giustificazione dei vari movimenti che egli aveva posto in essere il pomeriggio del 12 dicembre», e la paura di perdere la «generale estimazione dei funzionari delle Ferrovie dello Stato, di cui egli era dipendente, in quanto egli, ferroviere, sarebbe andato a deporre o avrebbe concorso a fare esplodere nell’atrio principale della stazione centrale una bomba e addirittura, prima di partire per Roma, la sera dell’8 agosto 1969, avrebbe deposto una o due bombe su due treni sostanti sui binari dei marciapiedi 11 e 14».

 

Di fronte all’immagine di quest’anarchico che, sospettato di attentati sui treni, comincia a temere di perdere il posto e insieme la generale estimazione dei funzionari delle Ferrovie, al punto tale da suicidarsi, bisogna dire che il giudice Amati ha raggiunto una punta di grottesco psicologico difficilmente superabile e forse unica nelle biografie di anarchici.

 

Superata forse soltanto dalla noncuranza con cui, per inquadrare psicologicamente il caso, egli ricorre a vecchi e insoliti testi psichiatrici, la cui validità si potrà misurare dalla seguente illustrazione, che egli cita, del «suicidio impulsivo» (in cui rientrerebbe Pinelli): «Questi [l’impulsivo] deve spesso essere assicurato perfino con collare, per evitare che si morda, mentre non rileva alcuna sofferenza, eppure, lasciato libero, può spaccarsi improvvisamente il cranio o lanciarsi dall’alto, quasi che una furia distruttrice ghermisse o azionasse, alla sua insaputa, i suoi muscoli. Il suo gesto non germina quindi dal delirio, perché non è il logico prodotto di un motivo irreale, ma è l’espressione di una scarica nervosa motoria, che dissocia il movimento da ogni elemento di coscienza». Quindi un Pinelli che, se prima temeva di perdere il posto, ora è ridotto a furia muscolare esclusa dalla coscienza.

Non è il caso di insistere su queste descrizioni troppo criticabili quanto piuttosto di chiedersi a che cosa servono, nel contesto del discorso del giudice. Servono ad allineare, in una sorta di registro indifferente, altre circostanze indicative di una situazione di violenza morale su cui è imbarazzante soffermarsi. Vale a dire, la rivelazione di Calabresi («Valpreda ha detto tutto») e l’accusa del responsabile dell’ufficio politico della Questura, Antonino Allegra («Allora sei stato tu a mettere la bomba all’ufficio cambi»). Entrambe sono false: la prima, lo sappiamo dal processo in corso; la seconda, da una dichiarazione che lo stesso Amati inserisce, in strana forma, nel suo decreto (p. 48: «Ma quando mai si è parlato di una responsabilità del Pinelli nel corso della complicata e lunga istruttoria contro gli attuali detenuti [per gli attentati del 25 aprile]?»). Entrambe sono dichiarazioni che bruciano: tant’è che Allegra, nella sua ricostruzione dei fatti in data 22 gennaio 1970, diretta alla Procura della Repubblica, cita la frase di Calabresi e tace la propria, e che in data 16 gennaio 1970 alcuni degli agenti presenti alla morte del 15 dicembre si preoccupano di anticipare la frase di Calabresi di varie ore, creando così un notevole intervallo di tempo tra essa e il descritto suicidio di Pinelli. Il giudice Amati è consapevole dell’importanza di questi elementi e, a differenza del procuratore Caizzi, che glacialmente accenna alla «sorprendente reazione alla simulata rivelazione del commissario Calabresi», dice testualmente: «Il suo choc intimo deve essere stato tremendo». Se c’è stato questo «choc intimo», questa «intima disperazione», che ha portato alla morte un innocente, se cioè ci vogliamo mantenere nel piano del descritto suicidio, la sua ragione non va ricercata nel temperamento impulsivo o nel timore di perdere il posto, ma nella situazione di sfibramento fisico, di tensione psichica e di violenza morale a cui è stato sottoposto Pinelli per opera dei funzionari di polizia.

Queste sono le conclusioni che si possono trarre dalla lettura del decreto di archiviazione. Altre e più inquietanti ipotesi sorgono, come abbiamo visto, da un esame accurato del materiale disponibile. Ma queste non sono le conclusioni e ipotesi che il dottor Amati vaglia nel suo giudizio e il suo è, appunto, un decreto di archiviazione.

 

L’astrolabio, n. 41, 18 ottobre 1970

 

 

 [1] A. Ponsold, Lehrbuch der gerichtlichen Medizin, Thieme, Stuttgart 1957, p. 338.

 [2] G. Hansen, Gerichtliche Medizin, Thieme, Leipzig 1957, pp. 74-75.

 [3] T. G. Formaggio, Medicina legale, Tipografia viscontea, Pavia 1956, p. 48.

 [4] M. Carrara e altri, Manuale di medicina legale, Utet, Torino 1937, vol. 1, p. 441.