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“Stranieri in patria”. Le migrazioni e la trap italiana
La presenza del “migrante” nella canzone italiana ha una storia breve eppure molto significativa. Ma l’esplosione della trap negli ultimi anni ha profondamente rinnovato immaginari e rappresentazioni delle migrazioni. Segno di un paese, che nonostante le derive securitarie sta profondamente rinnovando la sua composizione sociale
Sono ormai trascorsi gli anni in cui lo «straniero» della canzone italiana era l’affascinante apolide dagli occhi «chiari come il mare» cantato da Georges Moustaki, “metà pirata metà artista / un vagabondo, un musicista / che ruba quasi quanto dà”. Il crescente afflusso di immigrati che ha coinvolto l’Italia a partire dagli anni Ottanta e i mutamenti sociali e politici che l’hanno accompagnato hanno portato autori e interpreti di canzoni a confrontarsi con una nuova realtà, quella della presenza massiva e stabile di immigrati stranieri sul territorio italiano. Una presenza che il mondo della musica ha registrato, commentato e descritto secondo alcune peculiari linee di tendenza, che offrono immagini dello «straniero» assai lontane da quella dell’esule romantico evocata da Moustaki. Già a metà degli anni Novanta il tema dell’immigrazione era diventato un tema rilevante nella canzone italiana, dal festival di Sanremo fino ai generi musicali più di nicchia, come il reggae, il rap e la canzone d’autore.
Nel pop e nella produzione cantautorale degli anni Novanta prevale la tendenza a rappresentare i migranti come figure marginali – prostitute, mendicanti, clandestini – non integrate ed estranee ai circuiti sociali della popolazione autoctona. A colpire l’immaginazione di cantanti e autori italiani è sopratutto la condizione di povertà, di precarietà e di bisogno in cui si trova la maggior parte degli immigrati che giunge in Italia. È un’umanità che “nun tene niente” quella che Roberto Murolo racconta nel 1993, dal palco di Sanremo, con il suo famoso brano «L’italia è ‘bbella».
Poco tempo dopo arriva a Sanremo l’«emergenza immigrati» – che circola nei giornali e nelle TV nazionali come conseguenza della prima ondata migratoria dall’Albania – con «Zitti Zitti il silenzio è d’oro» degli Aeroplanitaliani, e suggerisce a Samuele Bersani il brano «Barcarola albanese» del 1994. Povero, nei panni di un ambulante, è anche l’africano Ahmed, cantato dai Modena City Ramblers in un brano del 1994 («Ahmed l’ambulante»). Sono solo alcuni esempi emblematici del consolidarsi di un certo canone rappresentativo, che vede nel migrante una figura debole e marginale. Un canone che si cristallizza in molte canzoni dei due decenni successivi. Fra le varie figure di marginalità a cui vengono associati i migranti, quella del «questuante» è senza dubbio la più diffusa. Si prenda, per esempio, l’immigrato di Gianmaria Testa «che tende la mano… al semaforo rosso», o quello di Fossati alla ricerca di «pane e coraggio», fino al “braccio nero” che dopo essersi proteso a lavare il vetro di un’auto, si piega a “chiedere spiccioli” in una canzone dei Litfiba del 2008. Ma rilevante è anche il numero di canzoni che si occupa del tema della prostituzione (come fanno ancora, in tempi recenti, “Maria” di Van De Sfroos o “Non è un Film” di Fiorella Mannoia e Frankie Hi-Nrg), per non parlare dell’enorme suggestione che la figura del “clandestino”, dell’immigrato senza patria e “sans-papier”, ha esercitato sulla cultura musicale italiana a partire dal fortunato brano di Manu Chao.
Un diverso sguardo si trova, invece, in quelli che allora erano ancora considerati generi “di nicchia”, come il rap o il reggae, ma che in verità ricoprono una vasta area della produzione musicale italiana sin dai primi anni Novanta. Alle spinte nazionaliste e xenofobe che iniziano a serpeggiare nella società italiana, molti artisti rispondono prendendo vigorosamente posizione in favore di una società aperta e multietnica, propugnando attraverso i loro testi i valori dell’accoglienza e della solidarietà, denunciando il clima di tensione e rancore sociale che rapidamente si va diffondendo nel paese. Alle innocenti canzoni di Jovanotti che inneggiano all’unità dei popoli e al superamento delle barriere del colore (da «One nation» a «Una tribù che balla», entrambe del 1991), fanno seguito rapidamente canzoni più cupe e riflessive, dalla forte tensione militante e di denuncia sociale, che registrano con preoccupazione il crescente clima di tensione legato alla presenza degli immigrati. Esempi testuali di questo tipo si possono trovare all’interno di generi e scene musicali anche molto distanti fra loro; tuttavia gli artisti e i gruppi che maggiormente si fanno protagonisti di questa battaglia culturale tendono a condividere alcune caratteristiche comuni. Provengono in genere dalle subculture reggae e hip-hop; sono giovani e si rivolgono a un pubblico di giovani; gravitano spesso attorno alla realtà politico-culturale dei centri sociali o più in genere delle formazioni politiche della sinistra. Basti pensare a «Fattallà» degli Almamegretta, significativamente inserito in un album intitolato «Animamigrante», o ai brani di 99 Posse, Africa Unite, Banda Bassotti, Sangue Misto, Assalti Frontali, solo per citare qualcuno fra i molti.
La strategia discorsiva di questi testi tende alla destrutturazione degli schemi di riconoscimento e di identificazione basati su appartenenza nazionale, etnica o religiosa, e si fa portavoce di una nozione di identità «debole», disgregata e ibrida, in cui prevale un messaggio di carattere multiculturale, un invito all’apertura nei confronti dell’alterità. Al mito dell’autenticità rispondono con un’estetica dell’ibridazione, che si esprime a volte, oltre che nei testi, anche nella musica, caratterizzata dalla contaminazione reciproca dei generi musicali, da strumentazioni «esotiche» e da riferimenti a repertori musicali di altre culture. Sono gli anni in cui si diffonde, peraltro, la «musica balcanica», giunta nella Penisola attraverso i filtri di Goran Bregovic ed Emir Kusturica, ripresa da Vinicio Capossela nelle sue collaborazioni con la Koćani Orkestar. Nel rap invece è presente una duplice tendenza: da un lato lo sganciamento dall’identificazione con l’appartenenza nazionale, accompagnata da un sentimento di estraniamento rispetto alla propria società di appartenenza; dall’altro troviamo la rottura dei confini della propria identità, che si determina come soggettività dal «sangue misto»:
La mia posizione è di straniero nella mia nazione.
Non parlate allo straniero e lo guardate male
e ogni singolo secondo la tensione sale
è Sangue Misto e non rispetta più il confine.
(Sangue Misto, “Lo straniero”, 1994)
In questo panorama, che descrive a grandi linee l’immaginario che dà forma alla figura dell’immigrato nella musica degli anni Novanta e Duemila, la nuova scena trap italiana segna sotto molti aspetti un punto di rottura. Nella rappresentazione del fenomeno migratorio e nel racconto della condizione dello “straniero” il linguaggio della trap si rivela particolarmente interessante e carico di elementi innovativi. Non a caso molti dei protagonisti della scena trap sono figli di immigrati, come Ghali; altri sono italo-africani, come Laïoung e come Momoney, nato a Torino da padre senegalese e madre italiana; altri ancora sono immigrati in Italia da bambini: è il caso di Isi Noice, nato a Casablanca e giunto in Italia all’età di 10 anni, e di Maruego, nato in Marocco e cresciuto in Italia. La peculiare prospettiva da cui osservano l’immigrazione consente loro di decostruire alcuni stereotipi, di ridicolizzare le rappresentazioni diffuse dai media, di portarle all’esasperazione o di ribaltarle. È inevitabile pensare, da questo punto di vista, al caso di Bello Figo, che aggredisce l’ascoltatore con una volgarità ostentata e provocatoria, e al contempo si prende gioco dei soliti luoghi comuni, secondo cui gli immigrati non rispetterebbero leggi e regole («Io no pago afito»), non sarebbero disposti a lavorare («Io no faccio opraio»), parrebbero arrivare tutti per mare («Tutti i miei amici son venuti con la barca»), otterrebbero appena giunti in Italia sussidi e benefici a danno dei contribuenti italiani («Appena arrivati in Italia abbiamo casa, macchine»). L’elemento maggiormente perturbante di Bello Figo consiste proprio nel suo prendersi gioco sia delle narrazioni vittimizzanti che di quelle del mondo conservatore italiano che considera gli immigrati come parassiti e lavativi, protetti dallo stato e da leggi ingiuste. Al di là di ogni giudizio di valore sulla sua produzione, la novità di Bello Figo consiste proprio in questa capacità di distruggere le rappresentazioni compassionevoli con cui spesso vengono descritte le vite di chi arriva dall’estero, e di deridere le “leggende metropolitane” sugli immigrati che circolano nella propaganda di destra.
In modo analogo, la nuova scena trap si congeda dalla tendenza a individuare nell’immigrato una figura debole e remissiva, che con la «mano tesa al semaforo» chiede il soccorso della società che lo ospita. Questa raffigurazione dello straniero viene percepita come una versione giornalistica e reazionaria, buona per
Chi ha la mente chiusa ed è rimasto indietro
Come al Medioevo
Il giornale ne abusa, parla dello straniero come fosse un alieno
Senza passaporto, in cerca di dinero.
(Ghali, “Cara Italia”, 2018)
Gli immigrati nei testi della trap restano spesso figure in difficoltà economica, ma sognanti e alla ricerca di un’autonoma via di fuga, rivendicando benessere e non sussistenza o carità. Forse nessuna strofa descrive meglio questo cambiamento di prospettiva di quella che apre “Sulla stessa Barca” di Maruego. Il rapper di origini marocchine descrive in pochi ma efficaci versi Ahmed, il protagonista della canzone, che «non ha niente in tasca» ma non ha nessuna intenzione di subire, elemosinare o vivere in disparte:
Ahmed figlio del blad
Nike Air, jeans e casquette
Gira per i quartier
Sogna Benz, vuole flus,
Flûte pieni e un flusso di kheb
Vuole giusto provare
Il gusto del cash
E non ha niente in tasca.
(Maruego, “Sulla stessa barca”, 2015)
Anche «Mamma» di Ghali racconta la storia di un ragazzo tunisino che tenta di raggiungere l’Italia dal mare, senza nascondere che il protagonista della canzone «fugge dalla misère». Il desiderio di riscatto sociale che emerge dal testo (e dal video, che in questi brani diviene elemento essenziale di fruizione e di produzione del significato del testo) racconta però l’immigrazione con un linguaggio che è ormai distante da quello paternalistico del cantautorato degli anni Novanta:
Lui guarda me, le mie Nike Air e pensa che
Sia easy fare il cash, ma non sa che così non è
(Ghali, “Mamma”, 2016)
Anche in «Walida» di Amill Leonardo, brano dedicato alla figura materna, il ricordo della durezza della condizione di immigrato si mescola a un immaginario di rivalsa:
No, non c’era niente in frigo
Scendono lacrime sul tuo viso
Walid era senza soldi per pagare le bollette
Al palazzo rubavamo la corrente.
[…]
Io lo faccio per me stesso e non per Gucci, Fendi o Prada
E non doso ‘sto successo d’autotune con la pala
Ma quale Capri, quale cabriolet
Io per lei resto il papi, ma il mio papi dov’è?
Dove ‘sto nulla è gratis specialmente per me
Che son figlio di immigrati, non sapete cos’è.
(Amill Leonardo ft. Maruego, “Walida”, 2017)
Quando dal racconto in terza persona si passa a quello in prima persona, toccando ricordi autobiografici, il linguaggio si fa ancora più diretto. Si prendano ad esempio questi versi di Ghali:
Prima arrestano mio padre poi mi chiedono la foto
Obiezione vostro onore ma io alzo il volume
Nella mia gang pelli chiare e pelli scure
Sapevi che l’AIDS si cura e il cancro pure
Solo che noi siamo troppo poveri per quelle cure.
(Ghali, “Ora d’aria”, 2017)
Gli “stranieri” che compaiono in queste canzoni, insomma, non si adeguano passivamente agli stereotipi con cui vengono stigmatizzati nel discorso pubblico (nel brano appena citato Ghali canta: «O siamo terroristi o siamo parassiti/ Ci vogliono in fila indiana tutti zitti»). Non desiderano «pane» e «accoglienza», ma «rrari [Ferrari] e Panamera» (come dice Isi Noice in “Milano City Gang” di Laïoung). Visti a partire da questa chiave di lettura, alcuni temi ricorrenti nei testi della trap, il linguaggio volgare, l’ossessivo tornare del tema dei soldi, del «dispendio», della vita sregolata fatta di lusso e sesso che caratterizza molta della produzione di questi artisti, acquista un significato diverso, si rivela come necessità di uscire da uno stato di minorità e di rottura con stereotipi rappresentativi pietistici o razzisti:
Seimila euro o non vengo […]
Non vengo neanche per tremila euro, non sono abbastanza
perché dormivamo per terra sopra le coperte
dobbiamo arredare la stanza […]
E loro c’avevano i soldi, per questo ce l’hanno fatta
Noi rubavamo al supermercato
Mentre la cassiera si era distratta.
(Laïoung, “6000 €”, 2016)
Si tratta di una caratteristica in parte derivata dalla trap statunitense. Come scrive Pietro Bianchi in un recente articolo: «In questa paradossale e nichilistica rivendicazione della nocività e dell’eccesso del proprio stile di vita, emerge uno degli aspetti più interessanti riscontrabili nell’inconscio politico dell’hip hop prodotto nel Sud degli Stati Uniti in anni recenti: l’introiezione della violenza e della disperazione, e l’idea che l’autodistruzione venga brandita come una sorta di forma invertita di autodeterminazione o di identità». Questi artisti rivendicano inoltre la loro capacità di colonizzare attraverso le loro canzoni l’immaginario delle giovani generazioni di italiani, anche dalla difficile posizione di “stranieri”:
La capitale della moda, è la mia casa nuova […]
Non andiamo di moda, ma noi siamo la moda.
Da questo punto di vista emerge in alcuni brani della trap italiana un aspetto di continuità con i brani degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, specialmente nella presa di posizione contro ogni tentazione identitaria. Interessante in questo senso la scelta del rapper Laïoung di rivisitare il brano “Je so’ pazzo” di Pino Daniele. Nel testo della canzone si trova una aperta denuncia della mistificazione che si nasconde dietro ogni processo di “normalizzazione”, con uno spirito che rievoca le canzoni del grande cantautore napoletano:
La perfezione è una bugia
e la normalità è un difetto
Siamo perfetti come nasciamo.
(Laïoung, “Je so’ pazzo”, 2016)
La continuità con i testi militanti del rap anni Novanta appare evidente nel rifiuto di categorie fondate sull’appartenenza etnica e nella rivendicazione di un’identità ibrida, irriducibile a classificazioni fondate su pregiudizi razziali, come emerge chiaramente da questa strofa di “Wily Wily” di Ghali, che descrive la propria condizione di «straniero in patria» appropriandosi di tutti i cliché razzisti in circolazione:
Io sono un negro, terrorista
Culo bianco, ladro bangla e muso giallo.
(Ghali, “Wily Wily”, 2017)
In conclusione, al di là di qualsiasi considerazione di carattere estetico, al di là di quale possa essere il futuro della trap italiana e i suoi possibili sviluppi, al di là delle molte contraddizioni e delle molte ingenuità che si possano trovare nei suoi testi, pare che in questo cupo sottogenere del rap molti artisti abbiano trovato un materiale e un linguaggio capace di raccontare in forma nuova e originale l’esperienza dell’immigrazione e la presenza dei migranti in Italia. Il rapporto di questi musicisti con la trap statunitense non si configura, pertanto, come pura imitazione o come assunzione passiva di un linguaggio preconfezionato, ma è piuttosto un rapporto di riconfigurazione creativa dell’immaginario veicolato dai rapper americani. Ancora più evidente appare come le “seconde generazioni” non si rispecchino più in quell’immagine dell’immigrato che circolava – e tuttora circola – in molti prodotti della cultura italiana degli ultimi trent’anni (dalla musica al cinema fino alle più comuni rappresentazioni mediatiche). Un’immagine che appare loro esausta, un’immagine di cui sbarazzarsi in fretta, per cercare nuove modalità di rappresentazione. E forse questo aspetto ha contribuito in modo non banale alla fortuna della trap in Italia e alla sua impressionante diffusione negli ultimi anni.
*Una versione estesa di questo intervento: Paolo Barcella e Angelo Bonfanti, L’immigrazione nella canzone italiana (1991-2018), in Gabriele Beltrami (a cura di), La musica e i migranti. Musica e inserimento urbano, “Studi emigrazione”, 211, 2018, pp. 245-270.