approfondimenti
INCHIESTE
Perché bere il caffè da Starbucks non è poi così figo
Questo non è un articolo a difesa dell’espresso italiano contro il frappuccino. Ma una disamina di una multinazionale che si racconta come rispettosa dei diritti dei lavoratori, dei produttori di caffè e costruttrice di luoghi di socialità. Ma forse non è proprio così
In Italia, il primo Mac Donald ha aperto nel 1985 a Bolzano, anche se nel Mac Donald di Roma vicino piazza di Spagna potete trovare la targa “primo ristorante”, perché fu acquistato per primo, anche se aprì solo nel 1986. Le critiche furono enormi e la tradizione culinaria italiana inorridì di fronte ad hamburger e patatine, per lo più in pieno centro storico! Il giorno dell’apertura la fila arrivò fino a via Frattina, ed entrarono più di 4000 persone per assaggiare un big mac al sapore di sogno americano, per 50 milioni di incasso.
Forse i ragazzi in fila a Milano per l’apertura di Starbucks sognavano qualcosa di simile. Una borsa di Gucci in un braccio, una tazza di Starbucks in mano, tacchi a spillo e passo svelto tra le strade di New York. E la vita è tutto un film.
Polemiche social sul frappuccino, sulla mancanza di valori, la critica del vuoto esistenziale delle generazioni millennials… E poi lo sanno tutti il caffè italiano è più buono: forte, intenso, con quel sapore che ti avvolge il palato. Ma la narrazione della sirena con la doppia coda riesce ad insinuarsi anche tra le pieghe della tostatura arabica all’italiana. E così dopo il primo negozio gourmet aperto a Milano, Starbucks punta ad aprire centinaia di negozi in tutta Italia, tra cui uno a stazione Termini, dove sarà possibile gustare i suoi prodotti più classici dal frapuccino al caffè lungo americano.
Un salotto isolato
Dopo 50 anni di esperienza, 28.000 negozi in più di 70 paesi nel mondo, Starbucks è arrivata anche qui: Milano, le ex poste centrali della città, 2300 mq di spazio per aprire la sua terza roastery, dopo quella di Seattle e Shangai. Qui potrete gustare più di cento qualità diverse di caffè, e un normalissimo espresso vi costerà 1.80 euro. Luoghi strategici e costruzione di immaginario, così la multinazionale del caffè punta a conquistare il mercato italiano, come ha già fatto in moltissimi paesi del mondo. Un gigante che apre tre negozi al giorno in tutto il mondo.
Quando ordini una bevanda da Starbucks, ti viene chiesto come ti chiami, così quando il tuo frappuccino sarà pronto, il tuo nome verrà scandito in un negozio che assomiglia ad un salotto, composto da divani e tavolini rotondi. Sembra che questa idea sia venuta ad Howard Schultz – ex amministratore delegato, attuale presidente emerito – dopo un viaggio a Milano. «Sono rimasto affascinato dal senso di comunità che ho trovato nelle caffetterie della città – dai momenti di connessione umana che passano così liberamente e sinceramente tra i baristi e i loro clienti», spiega Schultz, personaggio in vista nelle campagne democratiche anti-Trump. Quel momento in cui prendi il caffè la mattina, su un bancone un po’ sporco, il vecchio barista ti conosce e ti chiama per nome.
Come spiega il general manager Italia Gianpaolo Grossi, in un’intervista a Radio24, e come potrebbe spiegare qualsiasi store manager in qualsiasi parte del mondo, Starbucks si propone come un terzo spazio tra il lavoro e la casa, dove potersi rilassare, condividere, divertirsi, bere un caffè, fare aperitivo. Uno spazio di socialità aperto a tutti e dove tutti sono trattati egualmente. Infatti, si può rimanere dentro il negozio per quanto tempo si vuole, senza alcuna limitazione.
Ma a Starbucks non ti conosce nessuno, difficilmente ritroverai lo stesso barista tutti i giorni e il tuo latte alimenta una catena del valore poco comprensibile, mentre tu lo degusti solo, guardando lo schermo del tuo cellulare. Il prezzo del caffè e la posizione dei negozi nelle città, ci fa comprendere che questo terzo spazio non punta ad essere effettivamente includente e aperto, ma vuole costruire un “lusso abbordabile”. Byriant Simon, professore di storia, intervistato nel documentario “Starbucks sans Filtre” della televisione pubblica svizzera, definisce questa rielaborazione del terzo spazio una finzione, uno spazio dove siamo soli ma in pubblico. Questi terzi spazi, dove tutto è a pagamento, e dove non ci si può sedere senza consumare, rischiano di essere ancora più spaesanti e individualizzanti delle stesse città in cui viviamo.
Lavoro, lavoro, lavoro
Soprattutto negli Stati Uniti Starbucks si vanta di essere un ottimo posto dove lavorare, il salario è più alto, si ha la copertura sanitaria e si rispettano i diritti delle minoranze. Insomma, Starbucks dice di porre al centro i diritti dei propri lavoratori. Seguono questa linea anche gli annunci in Italia: «I candidati selezionati potranno beneficiare di diversi vantaggi offerti dall’azienda ai propri dipendenti, quali assicurazioni sulla vita e sugli infortuni, e buoni pasto. Potranno anche accedere ad eventuali benefit, tra cui copertura per le cure odontoiatriche, buoni regalo e altro ancora». Per inviare la propria candidatura, si richiede un’esperienza minima di un anno nella ristorazione, la conoscenza dell’inglese e la disponibilità a lavorare su turni, anche nei week end e nei giorni festivi. Nella realtà, le macchine del caffè di Starbucks sono tutte automatiche, a differenza di quelle nei bar italiani. Un caffè si deve fare in non più di tre minuti, mentre un terzo del turno di lavoro è dedicato alle pulizie della sala e dei bagni. In più, ai baristi è richiesto di essere: welcoming, genuini, informati, rispettosi e coinvolti nel negozio, nell’azienda e nella comunità, come leggiamo nello Starbucks Green Apron Book, il libro che riceve ogni barista appena assunto.
I lavoratori di Starbucks non vengono definiti dipendenti dall’azienda, ma partner della società, perché insieme al loro salario ricevono delle azioni della compagnia – quotata in borsa dal 1992. Il partenariato è un accordo economico tra pari, ed è questa l’idea che l’azienda vuole dare: una simbiosi di intenti e di emozioni, dove non c’è differenza tra dipendenti e manager.
Nel 2016, un lavoratore americano di Starbucks, Jamie Prater, ha lanciato una petizione online che ha raccolto più di 20.000 firme, denunciando di non riuscire a vivere con 25 ore a settimana di lavoro, senza sapere quanto avrebbe potuto lavorare la settimana seguente. Due ore sui mezzi per andare a lavoro, un turno di 4 ore e mezza, una paga oraria che non supera i 10 dollari e un’assistenza sanitaria che non copre tutte le spese: era questa la sua vita come lavoratore di Starbucks. Nell’introduzione al libro The Starbucks Experience, Jim Alling, presidente di Starbucks U.S. Business, scrive: «Perché c’è qualcosa di magico nel fondare un’azienda che aspira ad arricchire lo spirito umano». Chissà se non si riferisse proprio a questa incredibile magia: lavorare per tutta la settimana ma non riuscire ad arrivare alla fine del mese, come ci raccontano i commenti sotto la petizione di Jamie.
Caffè: una bevanda coloniale
In un tempo lontano, Kaldi, un pastore etiope, notò che le sua capre si eccitavano dopo aver mangiato delle bacche rosse, così decise di provarle anche lui. Le arrostì, e ne fece una bevanda, che risultò energizzante: era nato il caffè. Da lì quella bevanda viaggiò nelle carovane di tutta la penisola arabica per arrivare a Venezia e poi in tutta Europa. Nel XVII secolo, le grandi città europee erano già piene di sale da caffè. Per far fronte a questa richiesta, il caffè solca l’Atlantico e sbarca in America Latina. In Brasile, Colombia Messico centinaia di ettari di foresta vengono bruciati per fare posto alle grandi piantagioni dove schiavi neri raccolgono il caffè chicco per chicco. Mentre le più importanti torrefazioni sono in Europa. Nel 1989 viene abolito il sistema delle quote di produzione internazionale, e il prezzo del caffè oscilla tra forti incrementi e momenti in cui si paga sotto il prezzo di produzione, lasciando i piccoli produttori e raccoglitori nella fame.
Nel 2015, Starbucks annuncia che il suo caffè è per il 99% “eticamente prodotto”. Grazie al partenariato con Conservation International – una ong americana che lavora con le grandi multinazionali – Starbucks ha sviluppato una certificazione per i suoi produttori: C.A.F.E., Coffee and Farm Equity Practices, un insieme di 180 indicatori per classificare la qualità del prodotto, e la responsabilità economica, sociale ed ecologica. Ma la certificazione di Starbucks è per così dire “autoprodotta” e non segue le altre certificazioni internazionali fair trade. Gli standard di C.A.F.E. sono focalizzati sul livello aziendale, non specificano un prezzo minimo o uno standard di negoziazione, in questo modo non è garantita la stabilità a lungo termine del prezzo, la base del commercio equo e solidale.
Per quanto riguarda la questione ambientale: i bicchieri di Starbucks non sono riciclabili, le cannucce sono di plastica, il latte non è biologico… e la lista potrebbe andare avanti. Tonnellate di immondizia vengono prodotte ogni giorno nei 28.000 negozi di Starbucks. E questo, chiaramente, non viene preso in considerazione dagli indicatori C.A.F.E.
Dove paga le tasse Starbucks?
Tra il 2012 e il 2013, Starbucks UK si è trovata al centro di uno scandalo per evasione fiscale. Starbucks, come molte altre multinazionali utilizza una complessa organizzazione aziendale tra i diversi paesi rendendo poco trasparenti le sue dichiarazioni fiscali nazionali. Nel caso Starbucks UK stupisce che, per 13 anni, la multinazionale abbia scritto agli investitori inglesi di realizzare grandi profitti nel paese, mentre dichiarava al fisco esattamente il contrario. Starbucks tra il 1998 e il 2012 ha probabilmente realizzato milioni e milioni di profitti nel Regno Unito, ma la sua filiale UK doveva “pagare” una quota di royalty, il 6% delle vendite totali, a Starbucks Coffee EMEA BV, la sede olandese della compagnia. In questo modo, Starbucks era in grado di ridurre il reddito imponibile nel Regno Unito. Non è chiaro, poi, quante tasse pagasse su questi soldi trasferiti in Olanda, ad esempio nel 2011 Starbucks Coffee EMEA BV ha registrato ricavi per 73 milioni di euro, ma ha dichiarato un profitto di soli 507.000 euro. Non si capisce quale siano state tutte le spese di questa società che contava 97 dipendenti per avere così pochi profitti, nonostante gli ingenti ricavi. In seguito all’inchiesta parlamentare, Starbucks ha dovuto trasferire la sua sede europea principale a Londra e solo nel 2015 ha pagato tante tasse quante nei tredici anni passati, ancora però in molti si lamentano della poca trasparenza dei sui bilanci
Ecco, Starbucks – una multinazionale che si propone come rispettosa dei lavoratori, dei produttori, dell’ambiente – è rappresentata bene dal suo frappucino una bevanda troppo zuccherata, in un bicchiere di plastica, servita da un lavoratore sotto pagato, sulla quale probabilmente non si pagano tutte le tasse, bevuta da un consumatore solo, e prodotta e raccolta da persone povere. Da Starbucks i soldi girano proprio su un altro bancone, che noi non riusciamo nemmeno a vedere.