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L’incredibile storia di Bryan Gregory

Un dandy malato di oblmovismo, un eroe beckettiano affetto da “svogliatezza gloriosa”, un chitarrista che a malapena sapeva prendere in mano una chitarra… eppure anche una figura magnetica e fantasmatica, essenziale e insostituibile. L’incredibile storia di Bryan Gregory, l’enigmatico chitarrista dei Cramps, che è passato come una meteora nella storia del rock n’ roll. E l’ha rivoluzionato

La registrazione si trascina in stato comatoso. Righe ovunque, salti e oscillazioni dell’immagine fino alla completa smaterializzazione; il suono accelerato, aloni, pieghe, le tracce delle puntine e i pixel sgranati: è un documento del 1979, filmato nei Sam Phillips Studios di Memphis, Tennessee. Charles Raiteri, inviato di Channel 13 – Eyewitness News – filma e intervista i Cramps durante le sedute di registrazione di Songs The Lord Taught Us. Il nastro è magnetico, ormai guastato. Il trasferimento su supporto digitale ne stabilizza per ora la caduta, salvando questi minuti dal completo decadimento. Il filmato potete vederlo su youtube

I Cramps suonano, provano Domino. Una serie di primi piani introducono i membri della band, a partire da Lux Interior. Si parla di Elvis, ma non solo di quello. Una domanda verte sui “Boat People”, all’epoca argomento scottante. Che si tratti di un piccolo test di politica internazionale? Ancora echi dal Vietnam. Per sfuggire all’invasione “comunista” dello stato del Nord, molti abitanti del Vietnam del Sud hanno deciso di fuggire, via mare. L’invasione e la condizione dei profughi diventa un caso internazionale. In Europa, intellettuali come Sartre e Raymond Aron prendono posizione. E i Cramps? Se ne fottono. È probabile che non ne abbiano mai sentito parlare. Quando arriviamo a Bryan Gregory, la risposta arriva diretta, senza censure o imbarazzi. Eccolo ripreso in primo piano, intento a suonare, vestito di nero (notiamo la collana di ossa intorno al collo), digrignante e cupo, patibolare. Dopo uno stacco lo ritroviamo di profilo – capelli biondo ossigenati, il taglio perfetto, la carnagione cadaverica, i lineamenti ritoccati da un lieve trucco; lo sentiamo sibilare: «Try to imagine… just try to imagine how little I care»; poi si volta, getta uno sguardo di sbieco in macchina, irridente, tra l’infantile e il luciferino (dal canto suo, tanto per non smentire l’atteggiamento della band, Poison Ivy si domanda invece cosa significhi la parola “Ayatollah”)

Potrebbe sembrare spocchia, invece la loro è una semplice dichiarazione di non appartenenza. In fondo è sempre stato così. Come se i Cramps avessero sempre vissuto in un’altra dimensione: asociali, inattuali fin dalla loro nascita, anacronistici, catapultati da un altro tempo, come degli alieni, eppure, proprio per questa inattualità di partenza, sempre attuali. Vivono tra dischi volanti, film “exploitation”, uomini-lupo, zombie e go-go girls, giubbotti di pelle, vampiri, creature della palude, freaks. E tanto surf, tanto suono “back from the grave”, tanto rock ‘n’ roll. I Cramps hanno sempre abitato quello che potremmo definire un “ecosistema” – il loro –, di cui, evidentemente, i “Boat People” non facevano parte. Un mondo fatto di abiti, film, voodoo, sesso e musica: «Andavamo nei negozi di dischi in cerca di nuova musica senza trovare nulla di buono. Quindi abbiamo iniziato ad ascoltare roba che compravamo per pochi soldi nei negozietti dei robivecchi, e questo ci ha mandato fuori di testa. Era musica davvero selvaggia e grandiosa. Compravamo qualsiasi cosa avesse il termine “bop” nel titolo. È musica senza tempo; non c’è niente di vecchio o fuori tempo massimo. Era musica ispirata dal sesso, molto eccitante ed elettrizzante», ricorda Lux Interior. Ma è fin banale ricordarlo. E poi non è dei Cramps che questo pezzo vuole trattare, anche se è da lì che bisogna inevitabilmente partire.

A New York, dove Lux e Poison Ivy si sono trasferiti, avviene l’incontro con un tizio arrivato da Detroit. Non solo è attratto dal loro universo, ma è nato pure lo stesso giorno di Poison Ivy. Destino vuole che si incontrino proprio il giorno del loro compleanno, il 20 febbraio 1976. Il suo nome è Greg Beckerleg, ma lo cambierà ben presto in Bryan Gregory.

 

Pseudonimia

Lux interior è all’anagrafe Erick Lee Purkhiser. Poison Ivy invece, a registro, risulta Kristy Marlana Wallace. Escludendo i precedenti batteristi, Nick Knox è Nicholas George Stephanoff. Bryan Gregory, invece sostituisce, si sovrappone a Greg Beckerleg. Questo attribuirsi una pseudonimia lascia già trapelare il sintomo di una autodeterminazione, la certificazione di una nuova identità che se ne sbatta dello stato civile, refrattaria alle banalità del quotidiano. Un po’ come dire: «Try to imagine… just try to imagine how little I care», no? Greg Beckerleg ha una passione per Brian Jones. Si appropria perciò del nome del chitarrista degli Stones, aggiungendovi una y. Allunga il suo in Gregory. Bryan Gregory. Due nomi? Un nome e un cognome? La questione dell’identità qui salta, si complica. Come se uno specchio o un prisma moltiplicasse le figure. Di quanti “io” siamo fatti? Chi è che suona la chitarra? Greg o Bryan? E chi è il tossico? Chi quello che adora indossare gli abiti di Ivy? La pseudonimia apre la porta a uno o più alter ego? A figure immaginarie, eppure reali. Bryan Gregory è una di queste. Greg sceglie questo pseudonimo perché suona come il nome di una star del cinema. Non è dunque un caso se finirà col recitare alcune minuscole parti in film sci-fi e horror. Cercate di riconoscerlo, zombie in Day Of The Dead di George Romero. Siamo nel 1985. I Cramps sono alle spalle. Così come i Beast (tre singoli, l’ultimo del 1983). Ma poi, a pensarci bene, non lo è sempre stato uno zombie?

Di pseudonimia (anzi, di eteronimia) era esperto Fernando Pessoa. In una famosa lettera del 13 gennaio del 1935, indirizzata a Adolfo Casais Monteiro, egli spiega un po’ l’origine di questa strana moltiplicazione di “io”: «Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi ricordo di aver disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari abusivamente, vita reale. (…) Ricordo, così, quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere sue a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia».

La pseudonimia innesca mondi paralleli, immaginari, eppure ben palpabili. È un altro mondo parallelo, in cui vivere, fatto di rituali voodoo, tubi catodici che sfarfallano emettendo immagini in bianco nero, ritmi primitivi, chitarre taglienti, abiti in pelle. Ci troviamo nella seconda metà degli anni settanta, ma potrebbero essere gli anni ’40 – ’50. L’abito è importante, se è vero che fa il monaco.

 

Habitus

Ancora i Cramps. Inevitabili. La decisione di accogliere Greg Beckerleg / Bryan Gregory nella band nasconde qualcosa di più di un aneddoto. Ripercorriamolo. Lux e Ivy portano Bryan a un concerto dei Ramones. L’impatto è simile a uno choc. L’intensità è tale che Bryan vomita. Consideriamolo un momento di pura estasi. Da lì all’ingresso nella band il passo è breve. Gli regalano una Gibson Flying V. E lui che fa? Alle prime prove, si presenta con la chitarra tutta ricoperta di “dot”, pallini adesivi, con il nome della band dipinto sulla cassa armonica. Una figata. Sembra un dettaglio, ma nasconde qualcosa di più profondo. Fin dai primi passi, per Bryan Gregory l’aspetto visivo è sempre stato più importante di quello musicale. «Bryan ha un impatto visivo più forte di quello sonoro – ricorda Poison Ivy. Quando lo abbiamo conosciuto, era appena arrivato a New York per intraprendere la carriera del grafico. Amava l’arte, dipingere, creare gioielli – penso che fosse affascinato soprattutto dall’aspetto visivo dei Cramps».

Mettiamola così: la pseudonimia opera su Bryan Gregory, proiettandolo in un universo tutto di superficie: maschera, abito, cosmesi. Il suo romanzo di formazione con i Cramps, il suo contributo, resta di straordinario impatto visivo. Ma praticamente non sa suonare. E col tempo l’impressione è che non gli sia mai interessato farlo. Si muove sul palco con carisma, quasi come un sonnambulo. Anzi, come una specie di fantasma: musicalmente non aggiunge nulla, ma questo nulla, questo supplemento, questo di più, è di enorme impatto visivo. Viene alla mente una seduta spiritica a Jersey, dove, ormai in esilio, uno spirito detta frasi a Victor Hugo: «Ogni grande spirito, fa in vita due opere: quella da vivente e quella da fantasma». Aggiungendo: «Fai da vivo la tua opera di fantasma». L’impressione è che Bryan Gregory abbia preso questo consiglio alla lettera.

Abiti, acconciature, ossa, ma di plastica o di chissà quale animale, trucco: tutta la sua carriera si gioca tra l’abito e la pelle. La pelle rovinata suo viso, con quel ghigno che in alcune foto rimanda a Boris Karloff, a Conrad Veidt in The Man Who Laughs, un film muto di Paul Leni, tratto – guarda caso – da Victor Hugo. Pseudonimia rima con artificio, menzogna. Tutta la storia di Bryan Gregory si muove su queste piste. E aggiungiamoci la frivolezza: quasi una forma di disciplina. Come per i dandy.

Ecco, infine l’abbiamo pronunciata la parola chiave. Bryan Gregory era un dandy, se è vero che il dandy è colui che vive fino alle estreme conseguenze il carattere sacrale dell’abito che indossa, fino al punto di confondersi con esso, e farsi pura apparenza spettrale, demoniaca. Nei Beast è possibile notare come l’habitus risulti ancora più accentuato. Il suono della band è decisamente dozzinale. Ma guardate Bryan nelle foto. Compare con tanto di corna. Come una rock star, come un Puck shakespeariano, ma in acido.

 

Oblomovismi

Frivolezza, disciplina: dobbiamo subito smentirci perché è appunto la seconda che a Bryan Gregory sembra mancare. In lui il disinteresse ha sempre prevalso sull’entusiasmo. Prendete le dichiarazioni che rilascia a No Mag nel 1980, dopo aver chiuso con i Cramps. Si fa fotografare nudo, con un piccolo pitone sul corpo. Ha i capelli neri. Dice di aver apprezzato l’esperienza nei Cramps (tace sul fatto di essere fuggito con tutta la loro strumentazione), aggiungendo però che i suoi interessi differivano dai loro. Ora ha intenzione di studiare occultismo. Per questo a Los Angeles, dove si è trasferito, fa una vita molto riparata. Studiare? Viene alla mente il passo di un romanzo di Gončarov, il cui titolo rimanda al suo protagonista cartaceo, Oblomov. E cosa fa Oblomov? Nulla. O quasi.

Cosa faceva stando in casa? Leggeva? Scriveva? Studiava?

Sì, se gli capitava sottomano un libro o un giornale, lo leggeva. Se sentiva parlare di un’opera notevole, sentiva nascere in sé il desiderio di conoscerla: cercava, chiedeva il libro e, se glielo portavano subito, vi si dedicava, cominciava a formarsi un’idea dell’argomento; ancora un passo, e se ne sarebbe impossessato; ma eccolo già sdraiato guardare apaticamente il soffitto, e il libro giacergli accanto, non letto, non compreso.

L’entusiasmo si spegneva in lui ancor più rapidamente di quanto si accendesse.

Affetto da una svogliatezza gloriosa, tale da dissuaderlo dal portare a termine qualsiasi impegno, Bryan Gregory potrebbe tranquillamente essere uno dei personaggi affetti dalla “sindrome Oblomov”, quelli di cui parla Enrique Vila-Matas nel suo libro Un’aria da Bob Dylan. Parte delle sedute di registrazioni di Songs The Lord Taught Us si sono svolte senza che lui fosse presente. Un fantasma anche lì, perso nell’eroina? Oppure semplicemente annoiato, tediato, tanto da preferire l’ozio su un divano al “regime” delle registrazioni. Proprio come il fantasma di un io che non arriva a prendere corpo, rimane incoativo, e ripete: “domani, sì, domani”. È un essere che non ha forma o esistenza, è giusto uno pseudonimo, un paradosso di figura, un essere da teatro, la cui vita diventa una tragica commedia. O un personaggio di Beckett. Uno scherzo, un freak (Quando Nick Kent nel 1979 intervista i Cramps, rimane folgorato: «È inquietante il modo in cui la tranquillità dei modi e il tono della voce in falsetto monocorde contrastino nettamente con un paio di occhi così velenosi e con i tatuaggi che ricoprono le sue braccia, che lo fanno sembrare come se fosse strisciato fuori dalla fossa degli uomini serpente di un film di Tod Browning».)

Da non crederci: pur assente a se stesso, è una presenza magnetica quella che tutti avvertono quando lo vedono sul palco. E quando Barbey d’Aurevilly scrive un libro per ricordare un altro dandy suo avo, George Brummell, sembra che parli di lui: «Aveva per sé quel qualcosa di incomprensibile che chiamiamo la nostra stella, e che determina la vita senza ragione né giustizia». Oppure: «I suoi trionfi ebbero l’insolenza del disinteresse».

Come Brummell, Bryan Gregory agiva senza calcolo e apparentemente senza il minimo sforzo. Come una star del cinema, senza esserlo. Tanto che, con svogliatezza, partecipa a qualche film. Sono parti così microscopiche che quasi non lo si vede. E dire che sarebbe stato perfetto in Inauguration Of The Pleasure Dome di Kenneth Anger, se non fosse che nel 1954 Greg Beckerleg ha tre anni. Su No Mag, afferma: «Provo molta invidia per uno come Boris Karloff. Credo che oggi non ci sia quasi nessuno in grado di rimpiazzarlo. Era un maestro. Mi piace l’idea di me stesso in un film horror o strambo. Mi hanno appena chiesto di fare il gangster in un film in Francia, ma la parte era troppo corta». C’è qui tutto Bryan Gregory. Mi piace l’idea di me – che cos’è questa se non la conferma di una vita da vivere in uno stato di fantasticheria, quella di un essere senza forma affetto da idee-fantasma? E poi cosa c’è di meglio che recitare una parte in un film se non rifiutare quella parte? Troppa fatica.

È l’essere indolente per eccellenza. Il re della setta degli Oblomoviani. Si droga. Si sposa. Ha una figlia, ma la sua sessualità resta un mistero, rimane fluida. Dirige una libreria per adulti. Progetta di suonare con altre band, i Dials segnano l’ultimo tentativo. Si riappacifica con Lux e Ivy. Poi nel 2001, a cinquanta anni, si sente stanco. Lo ricoverano. Muore perché gli organi interni collassano tutti insieme. Quasi senza accorgersene. Un po’ come è accaduto in tutta la sua non-esistenza. Non essendosi mai accorto di nulla, non deve essersi neppure stupito di morire.

Poison Ivy lo ricorda così nel suo “obituary”: «Lui non era la leggenda divulgata dalla sua casa discografica e in seguito dalla stampa: il vero Bryan aveva un magnetismo contorto di cui il pubblico non ha idea – la realtà è ben più strana della finzione. (…) Ricorderò sempre il Bryan fenomenale che poche persone hanno avuto il privilegio di conoscere, prima che smettesse i panni del rocker e diventasse una “rock-star”… the way he walked, the way he talked, the way he rocked».

L’ultima frase rimanda a The Way I Walk. Avrà sentito nostalgia di tutto questo, prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta?*

 

*I ricordi di Lux e Ivy appaiono in D. Porter, Viaggio al centro dei Cramps, Goodfellas, Firenze, 2016; il passo di Fernando Pessoa lo desumiamo da F. Pessoa, Il poeta è un fingitore, Feltrinelli, Milano, 1992; di Victor Hugo parla Giorgio Agamben nella bella introduzione a Decadenza dell’analfabetismo di José Bergamin (Bompiani, Milano, 2000); per i riferimenti a Beau Brummell, vedi J. Barbey d’Aurevilly, Del dandismo e di George Brummell, Marginalia, Roma, 1981; per i riferimenti a Oblomov, I. Gončarov, Oblomov, Rizzoli, Milano, 1985; per l’obituary di Poison Ivy: http://punkrocker.org.uk/punkscene/OBITcramps.html

Questo pezzo è stato precedentemente pubblicato sul n. 10 di Sotto Terra  – Rock Zine. Un ringraziamento a Luca Frazzi, Lorenzo Belli, Luca Orzi e Giulia Vallicelli.