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Il corpo a corpo con le viscere della storia
È stato da poco ripubblicato «L’infamia originaria. Facciamola finita col Cuore e la Politica» (manifestolibri, Roma 2018, pp. 142) di Lea Melandri, libro nato al crocevia di teoria e pratica, tra l’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese e la rivoluzione femminista degli anni Settanta.
8 marzo 2018, secondo sciopero globale delle donne, la marea femminista di Non Una di Meno torna a inondare le strade del mondo. Milioni di corpi si toccano stringono contagiano, i diversi femminismi, del passato e del presente, si lanciano uno sguardo complice, entrano – avrebbe detto Walter Benjamin – in costellazione critica. Uno sguardo che scuote le profondità della terra, una scintilla che interrompe il corso lineare del tempo, prisma di rivolta che mentre ripete e riprende frammenti, gesti, parole di lotte passate, riapre il campo del possibile, schiude prospettive inedite nel tempo presente. Questa, del resto, la cesura rivoluzionaria, la cui legge segreta è quella, definita paradossale da Elvio Fachinelli, della ripetizione e dei suoi clinamina.
Tra quei corpi che hanno palpitato all’unisono per un istante, come sempre, e sempre di nuovo, quello di Lea Melandri. Lì in strada, e così nelle assemblee che hanno preceduto le manifestazioni, discusso ed elaborato il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Ed è nella felice coincidenza temporale di quel giorno che uno dei testi più importanti non solo di Melandri, ma del femminismo storico italiano, L’infamia originaria. Facciamola finita col Cuore e la Politica, ha visto la sua terza edizione per i tipi di manifestolibri (dopo la seconda del 1997). Una raccolta di articoli, esito delle lotte del lungo decennio del ’68 – quando quella «“folata” fluida della dissidenza giovanile […] si era [già] ripiegata su forme rigide, partitiche, isolate come “fortezze ai limiti del deserto”» (p. 11) –, la cui prima pubblicazione risale infatti al 1977 con L’erba voglio, casa editrice nata dalle straordinarie esperienze, condivise da Melandri con Fachinelli e Luisa Muraro, dell’omonima rivista e dell’asilo autogestito di Porta Ticinese. Parola incarnata dunque, che esibisce essa stessa il rifiuto di ogni dualismo non solo tra corpo e spirito, natura e cultura, ma anche tra teoria e prassi.
Una raccolta di scritti e riflessioni che, nella loro articolazione interna – scandita dalle tre sezioni Critica della sopravvivenza, Ascetismo rosso, La violenza invisibile–, hanno scompaginato l’ordine discorsivo non solo dell’Autorità e della Ragione di Stato, ma anche dei gruppi extraparlamentari più radicali, le cui rigidità economiciste ancora resistevano di fronte ai «fuori tema» portati alla luce dal femminismo, dalle Altre e dagli Altri della Storia, dai movimenti antiautoritari, da pratiche che provavano a tenere insieme infanzia, psicanalisi e politica, nella consapevolezza, assolutamente marxiana, che solo scandagliando le «radici dell’umano», è possibile pensare e tentare la trasformazione dello stato di cose presente.
Ma procediamo con ordine e torniamo alla ripetizione. La parola di Melandri si ripete oggi, in una fase storica in cui l’arcaico ri-emerge con rinnovata virulenza. Per l’infamia originaria della violenza patriarcale è scoccata una nuova ora della sua leggibilità, di qui l’importanza non rituale di queste pagine. Alcuna commemorazione celebrativa, piuttosto quel che si impone è una loro rilettura attraverso la lente del presente, la sola capace di sollecitare effetti detonatori nella compagine dell’esistente.
Tre i nodi su cui vogliamo soffermarci per invitare a questa rilettura.
Il primo l’abbiamo appena nominato, riguarda l’infamia originaria, il grande «rimosso» della storia preliminare allo stesso sfruttamento capitalistico: «la collocazione della donna, identificata con la madre, fuori dalla polis», la riduzione della sua sessualità alla sola funzione procreativa, questa è «la matrice di tutte le forme di dominio e di violenza» (p. 14). Quanto Marx medesimo e buona parte del marxismo non hanno visto: che «il divenire indifferente della materia e il predominio del conscio, della razionalità astratta, non dipendono soltanto dalla logica dello scambio e dall’organizzazione della produzione. Nella storia del rapporto uomo-donna la stessa sorte tocca alla sessualità femminile. Dal momento in cui il suo corpo diventa materia per la riproduzione della specie e oggetto della soddisfazione sessuale dell’uomo, la donna perde la sua autonomia e la sua possibilità di esistenza storica» (p. 29). L’occultamento originario, presupposto di ogni dualismo/idealismo, è in realtà duplice: del corpo della donna, prima ancora che della forza lavoro (p. 30). La violenza patriarcale precede quella capitalista, con quest’ultima si combina e potenzia agli albori della modernità, quando, con le terre demaniali, vengono “recintati” anche i corpi delle donne, facendoli divenire macchine per la riproduzione (come raccontato magistralmente anche da Silvia Federici).
Ed è questo gesto primordiale che torna a ripetersi nel corso della storia, in particolar modo nei periodi di crisi e ristrutturazione capitalistica come quello che stiamo vivendo: nuova “accumulazione originaria”, combinazione perturbante di arcaico e moderno che riattiva l’efferatezza primigenia per ridefinire le regole del comando e dell’oppressione. Come leggere del resto non solo i numeri dei femminicidi, ma anche l’insorgenza di nuovi fondamentalismi clericofascisti, le politiche – che si fanno eco da uno Stato all’altro nel mondo – volte a restringere la libertà di scelta e l’autodeterminazione delle donne? Da dove soffia il vento reazionario, neo-autoritario, che sta rimettendo al centro dei rapporti sociali l’istituzione famigliare? È esattamente questo nesso, vale a dire la trama insieme simbolica e materiale della violenza di genere, la sua dimensione sistemica, che l’attuale movimento femminista ha colto e non smette di denunciare. Per questo non si accontenta di emendazioni, ma pretende la trasformazione radicale della società, delle sue fondamenta scabrose, «innominabili», che oggi riaffiorano in superficie. Forte anche delle parole, delle pratiche, dei processi di liberazione dischiusi dalle donne e dai femminismi delle generazioni precedenti, che hanno fatto sì che «l’aspetto interiorizzato della violenza, la violenza come negazione della propria esistenza» (p. 118) venisse posto in questione, scardinato. Carsicamente ritorna non solo il medesimo quindi, ma anche le deviazioni prodotte all’interno della sua stessa replica. Deviazioni di resistenza, la cui ripresa coincide con ulteriori e inediti svolgimenti. Dietro le storie di donne uccise da uomini ci sono sempre storie di affermazione della propria esistenza e autonomia.
Il secondo punto che ci preme sottolineare concerne il rifiuto di un’altra forma di riduzionismo, speculare a quello idealistico: la lettura del reale in termini esclusivamente economicisti e ciò che ne consegue sul piano delle lotte. Memorabile, anche per durezza, la lettera, che Melandri scrive nell’ottobre 1975, al settimanale “Rosso”, come pure le riflessioni critiche sull’esperienza delle occupazioni di via Tibaldi a Milano a cui prese parte. Tanto il PCI quanto i gruppi extraparlamentari infatti, seppur in modi differenti, stentavano a mettere in discussione la prospettiva “ascetica” e “volontarista” (p. 72), tutta maschile, che perseverava nella rimozione della sessualità, del desiderio, della sfera riproduttiva, trattando questi ultimi al massimo come appendici rispetto all’“opera prima” della produzione, suscitando all’incirca lo stesso effetto dei Lunapark collocati, in periferia, vicino alle fabbriche e ai quartieri dormitorio degli operai (p. 46). Un punto di vista, in altri termini, incapace di rovesciare fino in fondo i rapporti sociali, di modificare radicalmente relazioni e forme di vita, di immaginare modi altri di soddisfare i bisogni, di ripensare la stessa economia al di là della separazione (storicamente determinata dal nemico che si vorrebbe combattere) tra produzione e riproduzione. È questa prospettiva –che oggi vediamo riaffermarsi in maniera più o meno grottesca tra le varianti populiste e rossobrune –che genera sul piano della prassi un’idea gerarchica (nonché progressista) delle lotte. Innanzitutto il lavoro salariato (maschio e bianco) e poi il resto verrebbe da sé; liberato il primo, la strada, col sol dell’avvenire visibile all’orizzonte, è spianata, ineluttabilmente anche “streghe” e “calibani” saranno liberati.
Il femminismo ha sconfessato queste rappresentazioni; di più, ha mostrato come simili analisi dello sfruttamento economico fossero manchevoli, deformate perché cresciute «sulla negazione delle altre contraddizioni materiali» (p. 126). E questo vale una volta di più per un’epoca in cui la riproduzione innerva ormai profondamente, in molte parti del globo, la stessa produzione (quel che viene definito anche femminilizzazione del lavoro), in cui la norma del lavoratore salariato libero è saltata. Una frase si staglia tra queste pagine di Melandri, che non dovremmo mai smettere di rammentare: «Essere materialisti vuol dire riconoscere che le contraddizioni materiali non sono state individuate una volta per sempre», soprattutto, che non si definiscono secondo un ordine piramidale e che «il bisogno di sintesi», o di universale, è sempre sinonimo di «negazione della specificità» (p. 126). Si tratta perciò di partire dalla parzialità per ricostruire un comune delle lotte che non si limiti a ribaltare semplicemente l’ordine tra di esse, ma che si basi, al contrario, sul loro intreccio virtuoso, orizzontale, reticolare. Intersezionalità (più che trasversalità) è la pratica, prima ancora del concetto, che ci ha insegnato il Black Feminism, e che l’attuale movimento femminista ha rimesso al centro della propria prassi e del proprio discorso. Solo l’individuazione delle linee di intersezione dei differenti meccanismi di oppressione patriarcali, capitalisti, razzisti può consentire di re-immaginare una dimensione comune, di elaborare rivendicazioni che muovendo dalla specificità del punto di vista sessuato, giungano a riguardare tutt@ perché sfidano le fondamenta della società.
E allora si capisce, per esempio, come anche la richiesta di un reddito di autodeterminazione, che ha trovato oggi la sua ultima formulazione nel Piano femminista di Non una di meno, sia qualcosa di diverso da quella classica storicamente elaborata dai movimenti, nella misura in cui va di pari passo con la messa in questione della divisione sessuale del lavoro, con l’immaginazione di nuove e autonome infrastrutture sociali della riproduzione, nella misura in cui non crede alla «formuletta: sopravvivenza-riproduzione-felicità/reddito» (p. 45). In altri termini, le rivendicazioni, senz’altro decisive, relative al reddito, al welfare, al salario, alle condizioni materiali della vita e della sua riproduzione, rischiano di ridursi a utili migliorie, incapaci, da sole, di trasformare radicalmente la società, se «la vicenda storica del rapporto tra i sessi» non viene interrogata come tale, intaccata nelle forme, istituzionali e non, della sua reiterazione violenta (p. 46). Il grido globale di questa rinnovata rottura femminista chiama infatti alla rivolta esistenziale, al «corpo a corpo» con le «viscere della storia» (p. 13), è sfida a ogni confine, interno ed esterno, privato e pubblico, personale e politico, a quanto viene imposto come “norma” e come “fuori norma”, messa in discussione delle relazioni più intime, ripudio dei dispositivi di controllo sociale, sfruttamento e subordinazione, di governo e repressione dei corpi.
Giungiamo così al terzo e ultimo punto. L’importanza di tornare a inventare e far proliferare pratiche e istituzioni (in senso eminentemente antistatale) non autoritarie. Una volta di più nel contesto del presente ciclo reazionario che vede un pesante rinsaldamento delle «strutture gerarchiche» (p. 17), processi di brutale ri-familizzazione dei rapporti sociali, nuova guerra al «desiderio dissidente». La vicenda dell’asilo autogestito di Porta Ticinese spicca come esemplarità che dovrebbe interrogare e sollecitare la nostra immaginazione politica. Davvero sovversivo è infatti l’agire che trasforma i modi di vivere, amare, sentire, che si immerge anche e non secondariamente nell’infanzia, non per pensare al “futuro dei nostri figli”, ma per fondare nuove antropologie e pedagogie critiche, altre «storie private» (p. 67), perché le stesse condizioni di possibilità della rivoluzione risiedono appunto nelle «radici» dell’umano e nelle sue modificazioni – quelle capaci di ridefinire quest’ultimo al di là degli ordini andro- e antropocentrici. Ricorre ora il cinquantenario del ’68, molte sono già state le celebrazioni. Varrebbe forse la pena tornare a reinterrogare quel lungo decennio, come Melandri non smette di fare, a partire dalle urgenze del presente. Senza liturgie e cerimonie.