EUROPA
Quando il censore è l’Europa e l’anti-copyright è Google. Sulla riforma UE e oltre
Con l’auto-oscuramento di Wikipedia Italia ne hanno parlato tutti. Ma sulla direttiva europea sul copyright, bloccata dal Parlamento europeo, c’è molta confusione e paradossali posizioni politiche. È possibile invece immaginare un movimento per la libertà della rete e per l’autonomia dal dominio del capitalismo di piattaforma?
Nelle istituzioni europee in questi giorni si è discusso e votato qualcosa di molto importante. E no, non si tratta del rassicurante terreno di scontro delle sinistre europee “Ue Sì/ Ue No”, “Euro sì / Euro no”. E non si tratta nemmeno della hit di ogni recente estate, soprattutto italiana: è meglio torturare i migranti in arrivo alla “europeista” (come Minniti) o alla sovranista (come Salvini)?
No, stavolta si tratta “solo” di un tema che investe le nuove forme di creazione, diffusione e partecipazione politica; le quali rischiavano di venire attaccate – e ridotte – in nome di una velleitaria imposizione delle istituzioni europee sui colossi dell’ITC che detengono le redini finanziarie del mercato globale.
Nella mattina di giovedì 5 luglio, in seduta plenaria, il Parlamento Europeo ha bloccato l’iter per l’approvazione della direttiva sul copyright. Una riforma che da giorni stava facendo molto discutere, e contro la quale era partita una vera e propria campagna, #SaveTheInternet, sfociata nell’auto-oscuramento di Wikipedia Italia per sostenere la protesta.
Ma andiamo con ordine.
Il 20 giugno il Comitato Affari Legali del Parlamento aveva approvato una direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, parte di un pacchetto legislativo presentato a settembre di due anni fa. Le intenzioni dei sostenitori di questo provvedimento sarebbero quelle di frenare l’ascesa incontrollata delle grosse piattaforme digitali, sotto il cui peso restano schiacciate le testate giornalistiche, l’editoria classica e i titolari di diritti.
All’interno di questa direttiva sono due i provvedimenti più incriminati (Articolo 11 e Articolo 13), accusati di costituire un bavaglio all’informazione e soprannominati “Censorship Machines”.
L’articolo 11 – la Link Tax – prevede di riformare il rapporto tra grandi piattaforme di aggregazione, come i motori di ricerca, e i soggetti linkati. I giornali e i proprietari di materiale coperti da copyright potrebbero quindi richiedere un compenso per i dati che forniscono ad altre piattaforme, come se si considerasse un collegamento ipertestuale al pari di una citazione tratta da un testo protetto.
L’articolo 13 – l’Upload Filter – prevede la realizzazione di un grande database contenente tutto il materiale (audio, video, immagini) protetto da diritto d’autore. Un algoritmo dovrebbe poi verificare, ogni volta che un soggetto carica contenuti online, l’eventuale presenza di questo contenuto sul database, e in tal caso bloccarne il caricamento.
Oltre alle criticità che questi due articoli sollevano, è da notare come entrambi sarebbero – attenendosi all’astrazione legislativa – praticamente impossibili da attuare in modo efficiente, nel primo caso per la necessità da parte delle piattaforme di stipulare contratti con una quantità infinita di soggetti, nel secondo per i limiti di capacità di memoria e di calcolo necessari per un’operazione di controllo del genere.
A scagliarsi contro i due articoli sono stati in tanti, da organizzazioni come Creative Commons, che sottolinea come l’articolo 11 non sia adatto a sostenere il giornalismo di qualità, a ricercatori e accademici come il co-fondatore del Web Tim Berners-Lee, che in più di 70 hanno firmato un comunicato sul sito della Electronic Frontier Foundation. Posizione interessante è quella delle Federazioni internazionale ed europea dei giornalisti (Ifj e Efj), la cui preoccupazione è che il testo offra benifici agli editori di stampa ma non reali possibilità di remunerazione ai lavoratori dell’informazione. Una dichiarazione che in fondo ci riporta alle contraddizioni retoriche e politiche insite nel diritto d’autore.
Negli scorsi giorni poi, la questione è finita sui giornali anche grazie all’auto-censura messa in atto dalla comunità italiana di Wikipedia (stessa misura è stata presa in Spagna, Estonia e Lettonia). In risposta a questo atto, tra l’altro, sono arrivate miopi accuse (dal PD così come dal presidente del parlamento Tajani) di fake news perchè Wikipedia non sarebbe un soggetto direttamente sottoposto alla direttiva in quanto non a scopo commerciale. Ma, a parte il fatto che la presa di posizione della comunità di Wikipedia Italia non può essere intesa come una protesta meramente autoconservativa, è chiaro che una riforma che si basa sul copyright e va a minare le potenzialità di diffusione dell’informazione in Rete, finisce per avere ripercussioni negative su quei progetti che, come Wikipedia, sono frutto della costante cooperazione in rete.
Con questo clima di tensione si è arrivati quindi alla mattina del 5 luglio, quando la plenaria del Parlamento ha per il momento respinto la riforma con 318 voti contro, 278 a favore e 31 astenuti, rinviando a Settembre ulteriori discussioni sul tema.
La configurazione nell’arco parlamentare si è rivelata molto frammentata, e nessuno schieramento politico si trovava compatto a parte i 5 stelle, che spingevano decisamente per far tornare il testo in commissione. Lo stesso ministro Di Maio, d’altronde, si era espresso in occasione dell’InternetDay definendo la riforma un “bavaglio per la Rete”. Si è mostrato contrario anche Salvini, che accusa la riforma di sostenere la stampa mainstream a discapito della rete, strumento che dichiara essere stato essenziale nella sua vittoria. Opinione opposta il Pd, che ha parlato di «bugie che stanno circolando sul provvedimento» riferendosi infelicemente alla presa di posizione di Wikipedia Italia.
È interessante vedere come i sostenitori della riforma accusino i detrattori di fare gioco forza dei big del web, come strillato da Francesco Boccia, ex presidente della Commissione Bilancio per il Pd: «Chi come Lega e M5S grida al bavaglio in realtà si schiera con chi fa soldi a palate grazie alla concorrenza e poi magari mette i soldi nei paradisi fiscali».
È ironico osservare come il PD renziano, che ha fatto di tutto per “farsi notare” dai giganti del Web oggi sottolinei, non volendo, il reale problema: la proprietà delle piattaforme e la loro esenzione fiscale, ovvero un problema di territorialità rispetto i soggetti economici in questione.
Per riuscire a fare chiarezza nel quadro è necessario ripartire dall’analisi degli interessi in gioco, dalle lotte intestine al capitale e le contrapposizioni tra diverse forme della produzione, contestualizzandole nel quadro politico, e delle relazioni tra privati e organismi politici.
Sulle contraddizioni delle “lotte fake 2.0”
Se guardiamo oltreoceano, uno dei temi più dibattuti in ambito digitale negli ultimi tempi è stato senza dubbio il dietrofront di Trump sul regolamento in materia di Net Neutrality rispetto alle politiche di Obama. Non è un caso se allora in America così come oggi in Europa i sostenitori di una qualsivoglia difesa della libertà di parola e di informazione erano e sono schierati, nella contrapposizione bipolare che si crea, dalla stessa parte della Silicon Valley.
Con tutte le differenze delle circostanze specifiche, sia nel caso della neutralità sia per quanto riguarda la riforma sul copyright (ma si potrebbe anche estendere il discorso alla privacy e alla GDPR), ci troviamo davanti allo scontro tra due diversi modi di immaginare il capitalismo dell’informazione, dove il terreno è la decisionalità delle regole di mercato, sul lato delle infrastrutture o su quello della proprietà intellettuale.
Nel caso specifico di questi giorni, è dichiarato dai promotori stessi della riforma che questo è un tentativo di rimediare all’avvento di forme di mercato dell’informazione che inevitabilmente finiscono per portare malfunzionamenti a quelle precedenti. Così come le major dell’industria musicale sono passate da essere giganti a trovarsi schiacciati da servizi capaci di trasformare la distribuzione, così ora la grossa editoria e la stampa mainstream si dichiarano vittime delle grosse piattaforme users content-based.
Siamo quindi davanti al tentativo di riportare in funzione, con un ritardo di 20 anni, forme di produzione in via di rottamazione, riesumando inoltre un diritto d’autore come concezione individuale/proprietaria che non si può adattare ai meccanismi di rete. I meccanismi costitutivi di circolazione delle informazioni in rete, cioè condivisione libera e creazione comune, costituiscono oggi infatti le azioni fondamentali del capitalismo di piattaforma. In questo, la proprietà e le capacità di utilizzo dei dati sono certo l’oggetto di contesa tra i vari colossi dell’economia di rete (e della finanza, GAFAM), ma questa capacità di predizione del – e azione sul – mondo ridotto a dati, non è pensabile fuori da un paradigma di libertà di condivisione e circolazione dei contenuti. Esse si fondano sul comune, parassitandolo. Ciò significa che si impegnano contro la censura? No, le grandi piattaforme sono le prime a censurare e (aiutare a) reprimere le istanze scomode al capitale. Tuttavia, non possono rinunciare alla parvenza di libera creatività.
I dati inoltre possono anche essere messi a valore “senza essere citati”, cioè utilizzati per produrre analisi, statistiche, algoritmi di apprendimento automatico, e poi gettati via. Questa peculiarità è fondamentale per capire che una concezione della proprietà intellettuale come utilizzo diretto di un’informazione protetta è innanzitutto obsoleta, oltre che politicamente contestabile. Non a caso, un altro articolo presente nella normativa (e purtroppo poco citato in questi giorni) è il 3, che fa riferimento al text and data mining, cioè le tecniche di cattura ed elaborazione di grosse quantità di dati che permettono a ricercatori (e aziende!) di trovare modelli, pattern e tendenze utili per vari possibili scopi. Dalle posizioni del Parlamento emerge l’intenzione di creare eccezioni di legge in materia di utilizzo di materiale protetto se ad utilizzarlo sono soggetti afferenti alla ricerca scientifica.
Il ruolo considerato eccezionale della ricerca rappresenta una contraddizione che già si era palesata, come nel caso dei limiti imposti da Facebook per le analisi del social a seguito di Cambridge Analytica, e ci porta alla fase conclusiva del ragionamento.
Nella contrapposizione tra due modelli economici che si viene a creare, le posizioni radicali sono schiacciate tra richieste delle major dell’informazione e tifo per maggiori libertà al mercato delle piattaforme. Le istanze dei lavoratori dell’informazione così come i diritti degli utenti in quanto prosumer e quindi creatori dei contenuti del web 2.0 sono completamente inesistenti.
Lo spazio della ricerca scientifica, allora, in un senso che non è né strettamente pubblico (perché ormai compromesso con retoriche neoliberiste o in dismissione) né generico (poiché i paper più citati di machine learning oggi sono firmati da dipendenti di Google) ma in un senso di spazio di analisi critica, si dimostra essere oggi uno dei maggiori candidati a costituire un polo di posizioni radicali alternative alle istanze oggi in campo. Da qui l’urgenza, da un lato che i sopravissuti nelle macerie dell’accademia riconoscano le loro responsabilità sociali e politiche di prendere parte al dibattito (e non vale solo per la questione dei dati, ma anche per le circostanze politiche attuali in generale), dall’altro la necessità da parte di tutte/i di inventare nuove forme di elaborazione di sapere critico e multidisciplinare, che attraverso meccanismi auto-formativi sappia intervenire nel dibattito pubblico.
La discussione sulle piattaforme sta passando per un piano europeo, e per uno dei suoi organi più criticati in quanto “ineffettivo” e “inutile”. Eppure sembra che, almeno in negativo, qualcosa conta di questo organo europeo – di cui tra meno di un anno ci saranno le elezioni. Su questo tema centrale di libertà di informazione, autonomia dell’ITC europea dagli USA e fiscalità dei grandi colossi del web 3.0, è possibile che le posizioni dei partiti politici europei non siano chiare e risultino subordinate alle convenienze politiche provvisorie? Siamo capaci di immaginare, a livello almeno europeo, un movimento per la libertà della rete (che, ricordiamo, in Spagna è stato un fondamentale anticipatore del 15M, con la lotta alla Ley Sinde) e per la nostra autonomia dal dominio del capitalismo di piattaforma? Che il tempo sia più che maturo lo rivela la centralità che questi temi hanno assunto nell’agenda politica a tutti i livelli istituzionali, che le risposte non possano basarsi su concezioni arcaiche di copyright e privacy lo svela la totale mancanza di prospettiva degli attori politici europei.