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Crisi

Marx ed Engels trattano la crisi come fenomeno che registra la sproporzione sempre crescente tra i rapporti borghesi di produzione e le forze produttive che i mezzi capitalistici di produzione creano e sviluppano. Tuttavia già ne “Il Manifesto comunista” la crisi svela i rapporti di forze in campo e in altri scritti costituirà anche il campo di una vera e propria opportunità politica

L’analisi marxiana delle crisi capitaliste conosce momenti diversi e, di opera in opera, cambia anche di significato e di funzione. Tale variazione sul tema dipende tra l’altro dal fatto che Marx commisura l’analisi al fenomeno di crisi di cui ogni volta è testimone in una determinata congiuntura storica, politica ed economica. Premesso ciò, veniamo alla natura della crisi che Marx ed Engels individuano nel 1848, nel Manifesto.

Marx ed Engels introducono la trattazione delle crisi – sono quelle commerciali che in particolare prendono in considerazione – in quanto fenomeno che registra la sproporzione sempre crescente tra i rapporti borghesi di produzione e le forze produttive che i mezzi capitalistici di produzione creano e sviluppano. La crisi è l’inevitabile esito di tale sproporzione e sembra far presagire un superamento della società borghese, così come era accaduto in precedenza – a causa del presentarsi di un’analoga sproporzione tra i rapporti feudali di produzione e le forze produttive della borghesia – con il passaggio dalla società feudale a quella borghese. La «ribellione delle moderne forze produttive» è sia la reazione allo sfruttamento sempre più violento che questa sproporzione induce sia la gestazione della nuova società comunista.

Tuttavia, la crisi non è presentata esclusivamente come il dato «tecnico» di una dinamica dall’esito necessitato – fosse questo il superamento dell’ordine borghese oppure l’esito previsto dalla concezione borghese delle crisi economiche predominante al tempo, la cosiddetta «teoria del ciclo»: le crisi segnalano i disequilibri del sistema economico, a cui il sistema stesso risponde spontaneamente ristabilendo l’equilibrio, la regolarità del ciclo. Nella crisi, per dirla con Foucault e Deleuze, emerge soprattutto il rapporto di forze in campo. Ma tale rapporto di forze non è determinato dalla dinamica storica ed economica. Consiste piuttosto nel rapporto di potere tra le classi in lotta, stabilito dal possesso degli strumenti e delle forme di potere, che è del tutto appannaggio della classe borghese. È quindi nella crisi economica che la borghesia assume l’iniziativa di classe: distrugge le forze produttive che prefigurano un nuovo ordine sociale e restaura l’equilibrio. È questo il contributo fondamentale del Manifesto rispetto alla dottrina economica propria dell’epoca: tale restaurazione dell’equilibrio e del rapporto di forze è solo in forma mistificata un intervento di tecnica economica; è a tutti gli effetti un’iniziativa politica che, nel restaurare l’ordine, ne rafforza la natura di classe e lo potenzia: «come supera le crisi la borghesia? Da un lato, imponendo la distruzione massiccia di forze produttive; dall’altro, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i vecchi».

Allora come oggi, le crisi configurano la congiuntura in cui un sapere tecnico – appannaggio della classe dominante o dei governanti – attiva e legittima un’iniziativa politica. Non a caso Marx ed Engels associano le crisi a un’«epidemia» – è questo un retaggio dell’origine medica del termine, ancora prevalente al tempo, come testimoniano i vocabolari e le enciclopedie del XVIII secolo. Lo conferma anche Foucault, quando, analizzando in Sicurezza, territorio, popolazione[1] i trattati relativi alle grandi epidemie che flagellarono l’Europa tra XVII e XVIII secolo, riscontra come fosse appunto il termine «crisi» a descrivere il decorso della malattia, non mancando di rilevare come in quella stessa congiuntura si andasse ridefinendo il sapere economico in seguito alla grande carestia causata dalla scarsità di cereali per il fabbisogno del mercato europeo. Secondo Foucault, sono questi i secoli in cui accanto al potere sovrano si va prefigurando la forma di potere che egli definisce «governamentalità», caratterizzata dall’uso e dalla funzione politica di cui sono investiti saperi di natura «tecnica», quali medicina, diritto, urbanistica ed economia. Insomma, nelle crisi, si stringe fino all’indistinzione il nesso tra sapere e potere ed è la competenza tecnica che si attribuisce al potere – e ai suoi detentori – ad assumere una diretta funzione di governo. Lo comprese perfettamente Gramsci, il quale al «pericolo mortale» della crisi fa corrispondere un ricompattamento della classe dirigente per far fronte al «nuovo» che la stessa crisi prefigura: essa «mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato».[2] La medesima minaccia di «contagio» della crisi, che legittimava allora l’iniziativa politica della borghesia, legittima oggi l’azione di governo delle banche centrali o dei cosiddetti «governi tecnici».

Marx sviluppa la concezione della crisi approntata nel Manifesto soprattutto nei Grundrisse, all’altezza della crisi economica del 1857. È proprio il sapere economico della crisi che intende strappare all’uso esclusivo della borghesia, per riconvertirlo in senso politico a uso della rivoluzione proletaria.

 

[1]M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.

[2]A. Gramsci, Quaderni del carcere, v. III, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2001, pp. 1603-1604 (Q 13, 23).