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Cosa c’è alla fine del mondo?
“The End of the F***ing World” non è la fuga di due “ordinari” sociopatici ma un percorso di maturazione per combinazione precaria di desideri, solitudini e relazioni. Senza sbocchi obbligati e senza equilibrio o destino
James: «I’m James, I’m 17, and I’m pretty sure I’m a psychopath».
The End of the F***ing World, serie Netflix (8 puntate da 20 minuti) creata e diretta da Jonathan Entwistle, è la storia di due adolescenti differentemente disadattati in quella che «probabilmente è la città più noiosa del mondo». James, diciassette anni, crede di essere un sociopatico, è incapace fin da piccolo di provare emozioni forti, è orfano di madre, vive con un padre rumoroso e ha una passione per l’uccisione di animali. Il suo sogno però è «uccidere qualcosa di più grosso», una vittima umana. Alyssa, quindicenne, vive in un quartiere di classe media, ingabbiata tra i desideri di apparenza della madre, due fratellastri gemelli e le molestie sempre più spinte del patrigno. Nella testa della ragazza c’è il mito del padre hippie scappato da quel mondo così oppressivo. Alyssa decide di approcciare James perché «forse non è una risposta, ma è un buon punto d’inizio». James, dal canto suo, decide di seguirla per fare di lei la sua prima vittima.
Per tre puntate li seguiamo pensando di vedere la storia un po’ surreale di due adolescenti. Il ribellismo di lei e l’anaffettività di lui si intrecciano con strani tentativi di approccio, istinti omicidi e un mondo che sotto una patina di rispettabilità nasconde la violenza di personaggi “normali”, il nostro mondo. Nella quarta puntata capiamo qualcosa di più, la fuga dei due adolescenti è un percorso di maturazione dentro una realtà per loro insostenibile. Lo capiamo quando James per difendere Alyssa uccide l’uomo che tentava di violentarla. Da quel momento la storia tra i due si complica, la loro fuga sembra prendere strade separate. James si accorge di non essere uno psicopatico perché scopre nuove sensazioni, prima tra tutte il dolore. Alyssa è confusa, se ne scappa da sola, poi torna indietro. I due cambiano idea, hanno ripensamenti, si rendono conto di nuove aspettative e si incontrano di nuovo.
Alyssa: «Sometimes I feel more myself when I am with James than I do on my own».
Improvvisamente i drammi adolescenziali di James ed Alyssa sono i drammi concreti di vite frammentate, i loro dubbi e le loro incongruenze cominciano a sembrare una metafora più generale, qualcosa che riguarda anche lo spettatore. Le loro scelte non emergono da una narrazione lineare, ma piuttosto sono gli eventi puntuali a riorganizzare retroattivamente il senso di quanto successo fino a lì. In quello strano miscuglio di ansie e desideri irrefrenabili, ad Alyssa e James capita di affidarsi l’uno all’altra ed è questa stranezza il motivo per cui la loro storia diverge dalla realtà che li circonda, fino a diventare irreversibilmente criminale.
James: «I like that she started to say we instead than you».
Dopo la narrazione medicalizzante della pazzia, anche la narrazione paternalista dell’adolescenza si rivela falsa. I fuggitivi non sono due stupidi e non sono ingenui, sono invece incamminati insieme su una strada che non è più eticamente conciliabile col deserto umano che li circonda. Mentre fanno azzardi, mentre si spalleggiano, è la folla di adulti intorno a loro ad apparire piccola ed impotente. La madre di lei e il padre di lui, ingabbiati nelle paure di una vita. Il patrigno di lei e tutti gli altri violentatori e molestatori che incontrano. Il padre di lei, eterno bambino in fuga dalle responsabilità. Le due poliziotte sulle loro tracce: una completamente identificata nel suo ruolo di tutore dell’ordine, l’altra più dubbiosa, compassionevole, ma comunque incapace di cambiare alcunché. Nel frattempo James e Alyssa scoprono pezzi di umanità: lei gli spiega che non deve sentirsi colpevole per il suicidio della madre, lui la aiuta nel difficile confronto con quel coglione del padre. In poche puntate hanno costruito nel loro rapporto qualcosa di nuovo, di comune, mentre il mondo circostante si svela sempre più disfunzionale.
Alyssa pensando: «I’m really scared. I’m really scared».
Alyssa parlando: «I’m really scared».
C’è un grande assente in tutta questa storia, ed è il destino. I due non sono la coppia destinata a stare insieme, non percorrono le tappe di una fiaba che li porta a scoprire la loro predestinazione. Durante tutta la serie ascoltiamo l’intreccio cadenzato delle loro voci e dei loro pensieri e ci accorgiamo di qualcosa: i protagonisti non hanno lo stesso piano, non seguono processi di ragionamento affini e le loro due linee di pensiero non sembra possano incontrarsi da qualche parte. La loro storia, la loro storia d’amore, è una combinazione precaria di desideri, insicurezze e casualità. Una spiegazione a priori a quello che accade non c’è, non può esserci, ma le cose prendono senso nel momento in cui avvengono.
Qui sta forse l’aspetto più singolare del racconto, che non esiste un dopo, perché nel momento in cui l’apice della tensione viene raggiunto, la serie si chiude. Ogni spiegazione “a posteriori” è espulsa. Il “sacrificio” conclusivo di James è l’opposto di un gesto eroico, perché un gesto eroico per definizione vive nel ricordo, nella commemorazione, nella malinconia e nel compiacimento della malinconia. Lo sparo che potrebbe (o forse no) aver colpito James a morte, invece, lo sentiamo quando lo schermo è già nero e i titoli di coda stanno per partire. Quel gesto non ha una spiegazione, esiste solo nel momento della sua scelta, per James un tempo successivo potrebbe non esserci e anche lo spettatore si identifica completamente con questo presente dilatato.
In una torsione anti-narrativa, la memoria viene cancellata, la storia vive al presente e così salva quell’amore da ogni ripiegamento romantico. In una conclusione solo apparentemente paradossale, il risultato è che sì, le relazioni si possono narrare.
Alyssa: «people can’t be answers, they are just more questions».
È un pensiero diffuso, al punto da essere quasi abusato, quello secondo cui le vite di tutti oggi sono caratterizzate da una forte atomizzazione e da uno spiccato individualismo. Ed è così in effetti che appaiono i personaggi di contorno all’avventura di James e Alyssa: una folla di persone sole, magari fisicamente prossime, ma sostanzialmente separate.
Raccontare la resistenza a questa solitudine, corre sempre il rischio di diventare un’esaltazione cieca di ogni tipo di relazione o forma di vita collettiva, quando si parla di relazioni amorose in particolare è la coppia a essere la soluzione alla (e il rifugio contro la) solitudine. Si può raccontare tutto questo senza nascondere la contraddittorietà e la precarietà? Senza appiattire lo sguardo né sulla difficoltà dell’isolamento né su un’ipotetica soluzione rappresentata da un corpo collettivo che ci contiene come singoli?
The End of the F***ing World è il tentativo di parlare del non equilibrio di due vite, tra soluzioni individuali e irreversibilità degli incontri. Lo stratagemma narrativo adottato è quello di prendere i due protagonisti e frammentare le loro voci: tutta la storia è raccontata sia dalle parole di James ed Alyssa che dai loro pensieri, la non-coerenza dei singoli è messa a nudo nella semplicità con cui chiunque la sperimenta. In fondo, i personaggi sono almeno quattro, e forse di più. Libera dal fardello di individui dai confini ben definiti, la serie può parlare di amore senza predestinazione, di decisioni prese senza un futuro chiaro. La corsa di James che chiude la storia è in questo senso particolarmente simbolica. Non c’è nessuna tensione eroica, come abbiamo già provato a dire, ma nonostante questo è tutta la sua vita a essere in gioco. È un cambio di significati radicale. È la fine del mondo.
James: «I’ve just turned 18, and I think I understand what people mean to each other».