EUROPA

Due anni dopo l’accordo UE-Turchia: il trauma invisibile dei rifugiati intrappolati

Il 18 marzo 2016 l’Unione europea firmava un accordo vergognoso e pericoloso con la Turchia, al fine di chiudere definitivamente il confine greco-turco nel mare Egeo. Contemporaneamente, la chiusura della rotta balcanica e la creazione degli Hot-spot nelle isole dell’Egeo hanno prodotto il confinamento di migliaia di rifugiati in Grecia e nei paesi dei Balcani. I confini militarizzati, i muri, il rafforzamento di Frontex e i molteplici controlli – anche interni al territorio degli stati membri – hanno reso illegale il movimento dei rifugiati. Le nuove politiche anti-immigrazione dell’UE sono state applicate con violenza e ferocia.

 

Grecia: un paese terzo “sicuro” dentro l’Unione Europea

L’accordo tra Ue e Turchia è un accordo particolare, costantemente rinegoziato, al fine di fermare l’arrivo dei rifugiati. Tutti sappiamo, e i leader dell’UE lo sanno anche meglio, che un accordo firmato con un paese come la Turchia, guidato da Erdogan, non può restare a lungo stabile e forte; tanto più che si tratta di un accordo basato su una relazione multilaterale di scambio e che, in quanto tale, corre sempre il rischio di infrangersi quando le richieste di uno o entrambe le parti non siano accolte. Per quanto riguarda la Grecia, la connessione tra la crisi economica del paese e la “crisi dei rifugiati”, la disfatta del governo Syriza e ovviamente il generoso e storico “finanziamento” della crisi dei rifugiati, fanno della Grecia un paese terzo “sicuro” dentro l’Unione Europea. Ciò significa che i rifugiati che riescono ad arrivare dalla Turchia alla Grecia rimarranno bloccati in Grecia, rimarranno imprigionati negli hotspot o nei campi come animali e verranno rinviati con I soldi dell’UE, volontariamente, nei loro paesi di origine, sotto il ricatto dell”OIM, oppure forzosamente deportati da Frontex e dalle autorità greche in Turchia.

Il governo “di sinistra” di Syriza e Anel ha felicemente accettato l’accordo con la Turchia e il proprio ruolo come guardia di frontiera dell’UE. L’implementazione del funzionamento, della politica e della pratica del “rendere la vita insostenibile” per i migranti in modo da disincentivarli – un tempo puro delirio dell’estrema destra – è oggi la ricetta ufficiale dell’Unione Europea in Grecia.

Il doppio confine dell’Egeo e l’apartheid delle isole.

L’accordo UE-Turchia e la chiusura delle frontiere hanno avuto un altro drammatico risultato: la creazione di un nuovo confine interno alla Grecia. Il confine tra le isole dell’Est dell’Egeo e il resto della Grecia è un tipico confine dei nostri tempi. L’accordo impedisce infatti ai rifugiati di lasciare l’isola su cui sono arrivati. Per almeno due anni ormai (a partire dal 18 marzo 2016, data di firma dell’accordo), in tutte le isole dell’Egeo migliaia di rifugiati si sono ritrovati reclusi in prigioni a cielo aperto. Lesbo, Chios, Samo, Leros e Kos sono state trasformati in un regime di apartheid per rifugiati e migranti. Un meccanismo interamente finalizzato alla deterrenza e al governo delle migrazioni da parte dell’UE tiene viva così la rappresentazione della “crisi dei rifugiati”.

Decine, forse anche centinaia di ONG con milioni di euro gestiscono la disperazione umana e il dolore dei rifugiati intrappolati. Le autorità locali delle isole hanno sfruttato la situazione per la propria agenda politica. Le manovre del governo hanno condotto all’avanzata dell’estrema destra, che ha colto l’opportunità per avvelenare la società con razzismo e xenofobia.

 

Hotspot: i moderni campi di concetramento

L’accordo Ue-Turchia ha creato campi di concentramento per rifugiati con il nome provocatorio di “hotspot” su ogni isola dell’Egeo dell’Est. L’Hotspot di Moria a Mytilene a quello di Vial a Chios o quelli di Samo, Lero e Kos rappresentano una nuova forma di campi di concentramento per popolazioni messe in quarantena.

In seguito alla chiusura del centro di detenzione di Pagani, ottenuta grazie alla mobilitazione NoBorder di Lesbo nel 2009, il governo ne ha costruito uno nuovo all’interno della zona militare di Moria. Dall’inizio della “crisi dei rifugiati” nel 2015, Moria, le cui infrastrutture erano in grado di ospitare massimo 1000 persone alla volta, con bagni, docce e servizi igienici soltanto per 800, si è trasformata in un centro di controllo, registrazione, identificazione e detenzione dei  rifugiati arrivati sull’isola. In breve tempo, più di mille nuovi posti sono stati aggiunti ai container esistenti. Il numero di rifugiati in attesa di essere registrati, tuttavia, ha continuato ad aumentare. Così l’UNHCR e l’esercito greco hanno provveduto con delle tende, come soluzione temporanea per ospitare i rifugiati in transito. Fino alla firma dell’accordo le tende erano una soluzione reale, poiché il campo non aveva la possibilità di ospitare le migliaia di rifugiati arrivati. Una volta firmato l’accordo, Moria è diventato un campo di concentramento.

Con 2000 posti e strutture per 800 persone, Moria è diventato un posto in cui dalle 6000 alle 8000 persone stanno trascorrendo l’inverno in tenda per la seconda volta. L’impossibilità di sopperire finanche ai bisogni basilari è una delle questioni principali per i rifugiati dell’hotspot di Moria: il cibo non è commestibile e non è abbastanza per tutti; l’acqua scorre per sole due o tre ore al giorno; i bagni non sono abbastanza e non sono sicuri né realmente accessibili per donne e bambini; le docce praticamente non esistono e molti rifugiati non hanno accesso alle cure mediche.

La sicurezza, la privacy, la salute mentale e la dignità dei rifugiati sono a rischio in ogni momento, anche a causa delle stesse autorità che gestiscono l’hotspot. Lo stesso vale per tutte le altre isole dell’Egeo orientale.

 

Le condizioni miserabili, la disperazione della reclusione, la mancanza di prospettive per il futuro, il rischio di deportazione in paesi colpiti dalla guerra o in paesi terzi “sicuri”, la violenza della repressione e del maltrattamento da parte delle autorità greche ed europee e delle ONG costituiscono i traumi invisibili dei rifugiati. Probabilmente 1/3 di coloro che sono intrappolati sulle isole soffre di disordini mentali causati dalle condizioni indegne cui sono stati costretti.

Se si prova a parlarne con le persone che ci vivono, si scopre che la metà degli adulti fa uso di medicinali venduti al mercato nero per riuscire a dormire la notte. Minori non accompagnati soffrono di problemi dovuti all’abuso di sostanze e alcool. Il tasso di tentati suicidi si aggira intorno ai cinque incidenti al mese tra tutti gli hotspot. Adulti, giovani e bambini provati dalla sofferenza mentale, dopo due anni di attesa, di punizione e reclusione, sono ormai disperati e si aggirano persi tra le strade dell’isola, parlando da soli. Uno stato di crisi umanitaria straordinaria che non solo sta diventando permanente ma si sta sempre più presentando come legittimo.

Qual è il compito del movimento antirazzista? Cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo lottare, su un piano nazionale ed europeo, contro il regime di apartheid nelle isole e la reclusione dei rifugiati negli hotspot in condizioni disperate. La lotta dei rifugiati per la libertà di movimento e la dignità è la nostra lotta e riguarda tutt*. Per questo il 17 marzo, due anni dopo la firma dell’accordo Ue-Turchia, abbiamo l’opportunità di far risuonare le nostre voci con le iniziative di solidarietà sulle isole, per chiedere l’abolizione dell’accordo e la liberazione delle migliaia di rifugiati che sono stati intrappolati. Nella stessa giornata, in molti paesi europei, i movimenti chiederanno l’abolizione di tutti gli accordi odiosi e violenti che l’Unione Europa ha siglato con vari paesi terzi “sicuri” come la Libia, l’Afghanistan o il Marocco.

 

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* L’autore fa parte del Network of Social Support to Migrants and Refugees (Atene)