editoriale

La Macedonia e le banalità della destra

Lo scorso 21 gennaio a Salonicco uno spazio libertario chiamato Libertatia è stato raso al suolo dalle fiamme durante la manifestazione a chiamata nazionale per la “questione Macedone”. Ma di cosa di tratta? E perché le rivendicazioni intorno a questa faccenda sfociano quasi irrimediabilmente nel nazionalismo e nel fascismo?

Quasi 5 anni fa, chi scrive si è trovata nella divertente situazione di imbarcarsi, con un furgone di punx greci, per l’Italia dal porto di Patrasso. Per chi non è pratico delle scene punk, ma come è facilmente immaginabile, i soldi per andare in tour, specialmente fuori dal proprio paese, non sono mai tantissimi. I vari posti dove il grupposuona forniscono dei rimborsi, ma si deve sempre cercare la soluzione più economica per non “andarci sotto” e così, quella volta, per il loro tour europeo i miei amici avevano trovato un affare con vecchissimo furgone arancione scassato e un driver, entrambi provenienti da Skopje. Lo diceva indubitabilmente anche la targa e l’adesivo ovale a lato ad essa. Skopje, Macedonia. Chiaramente, dato il veicolo e le facce delle persone al suo interno, il furgone è stato fermato all’entrata del porto dai militari messo lì a pattugliare.

A parte l’orribile atteggiamento nei mei confronti, unica donna in una compagnia di 10 uomini, il militare durate tutto il corso del controllo non ha mai rivolto la parola al driver, nonostante fosse il padrone del furgone e quindi la persona più indicata con cui parlare e, riconsegnarci i nostri passaporti ha detto al ragazzo che era vicino a me “dite al vostro amico di cambiare la targa, che in Grecia non è legalmente riconosciuta”.

Ora, al di là del fatto che non è ovviamente così e che la Grecia è obbligata a riconoscere le targhe approvate a livello internazionale, mi ha fatto molto effetto questa stizza e sul momento, pur avendo capito da cosa derivasse, l’ho trovata esagerata e fuori luogo. D’altra parte, basta provare a chiedere ad una greca o ad un greco come chiama la nazione con cui il loro stato confina a nordovest che non è l’Albania per sentire risposte le più varie, tra le quali la più sconcertante è “Skopje”.

Ma che cos’è questo orgoglio rivendicativo che scatta in ogni greco che possa dirsi fiero di esserlo, quando si parla della “questione Macedone”?

In queste giornate, in cui si faceva sempre più pressante la necessità di scriverne, ho notato l’assenza di qualunque riferimento in lingua italiana a tale tema, eccezion fatta per un articolo, storicamente corretto ma incapace di restituire lo spessore della questione e delle controversie sul piano della contemporaneità, del giornalista filelleno Francesco de Palo su “Il fatto quotidiano” del 24 ottobre 2016. In questo articolo vengono tracciati i lineamenti di storia della Macedonia come regione storica e le motivazioni delle rivendicazioni greche sul nome di tale territorio. Sì, sul nome, perché, nonostante questo possa sembrare assurdo, tutto il fervore che ha portato a una marcia di sicuramente più di 100 mila persone (500 mila per gli organizzatori) a Salonicco domenica 21 gennaio, dopo settimane di prime pagine di tutti i quotidiani nazionali e che, vale la pena ricordarlo, sta determinando la risalita di Alba Dorata nei sondaggi elettorali, è dettato dalla disputa circa il nome della Macedonia. Non la sua entità territoriale, non delle pretese espansionistiche degli uni o degli altri contendenti, ma unicamente sul nome “Macedonia”.

È vero, chiunque abbia dei rudimenti di storia antica sa bene che la Macedonia è una regione storica greca, che comprende l’attuale regione greca di Macedonia, il cui capoluogo è Salonicco, e anche parte della Macedonia (stato dell’ex repubblica Jugoslava) e parte dell’attuale Bulgaria. Ora, come è chiaro, sarebbe una follia da parte dei greci desiderare che la Macedonia si ricostituisse nella sua forma originaria e sottostesse alla giurisdizione greca. E infatti non è questo il punto. Come dimostra perfettamente il sito JoDi grafics, le giurisdizioni sotto cui il territorio macedone si è trovato dall’Impero Macedone di Alessandro Magno (quando la Macedonia era Macedone!) sino alla formazione della repubblica indipendente post-titina sono tantissime.

Il punto è un altro: con la formazione della Repubblica di Macedonia, avvenuto l’8 settembre 1991, con il suo distacco dalla Federazione Jugoslava, di cui era stato membro, per la prima volta uno stato indipendente prendeva il nome di Macedonia. Questo stesso nome ha, per l’identità nazionale greca, un’importanza vitale. Ce l’ha perché, come spiega perfettamente lo storico Marcel Detienne:

“Le mitideologie che formano l’armatura delle storie nazionali e identitarie sono complesse, (…) ecco dunque, delle parole quasi mitiche in Europa: i morti, i nostri antenati; la terra, il suolo, la patria; il sangue, la vita ereditata, la vita sacrificata”(2007).

E la storia della Macedonia lambisce tutte queste parole mitiche: essa infatti è il territorio dei nostri antenati, dove è scorso il nostro sangue e, per quanto sia difficile credere che la politica internazionale si occupi di sangue, stirpi ed antenati, quello che succede circa al nome della Macedonia è proprio questo.

Alessandro III di Macedonia, nato a Pella (nell’attuale regione greca della Macedonia) è il riferimento principale su cui si costruisce la mitideologia greca: un sovrano giusto e colto che, da solo, ha unificato un territorio vastissimo (la stessa porzione mediterranea che poi verrà occupata dall’Impero Ottomano) ed esportato la cultura ellenica “sino alla fine del mondo conosciuto”. Inoltre, egli svolge al meglio la sua funzione di protagonista originario nel mito fondativo dello stato-nazione greco (ogni stato-nazione ne ha uno!), colui da cui gli abitanti discendono e del quale possono definirsi eredi, trovando così giustificazione territoriale e ideale, per un altro motivo: è del tutto estraneo alle dispute tra Città-Stato che animarono la classicità greca, anzi, è colui che le unifica tutte sotto la Lega di Corinto nel 331. Una classicità, quindi, fatta di scontri e guerre ma, in fin dei conti, catartica verso l’armonia e l’unità territoriale. Quella stessa unità territoriale che si ritrova nell’elaborazione del pensiero etnonazionalista per eccellenza, quella Grande Idea, che animerà tutta la storia recente della Grecia contemporanea, di riunire sotto un unico stato tutti i territori grecofoni del Mediterraneo Orientale, con capitale Costantinopoli (nome con il quale viene ancora oggi chiamata dai Greci la città turca di Istanbul) e che ha visto la sua tragica fine con la “Catastrofe dell’Asia Minore” del 1922, in cui trovarono la morte o persero tutto più di un milione di greci di Anatolia.

È chiaro che, in questo contesto, Alessandro Magno e la sua eredità territoriale è qualcosa di pesante. Nell’agosto del 2014, nel bel mezzo della crisi economica, in piena recessione, venne annunciato che presso gli scavi della tomba monumentale di Anfipoli, nella provincia di Serres, Macedonia (greca) centrale, erano stati rinvenuti vessilli che avrebbero ricondotto la tomba ad Alessandro Magno. Per più di un mese la notizia del ritrovamento archeologico del sepolcro del condottiero fu sulle pagine di tutti i giornali ed emozionò i Greci. Nonostante questo si sia poi rivelato improbabile alla disamina delle fonti storiche, le diatribe circa la possibilità che questa sia veramente la tomba di Alessandro Magno continuano tuttora.

Perché una disputa tra archeologi, seppur su un monumento antico di tale incredibile bellezza, prende le forme di una questione di importanza nazionale, nel momento più critico della storia nazionale? Perché stabilire di chi sia progenitore un personaggio storico, dove egli sia sepolto e che lingua parlasse è una questione che entra nella cronaca di attualità e con la forza con cui questo avviene in Grecia? È interessante come questo fattore di riconoscimento ab origine rimanga in qualche modo sotto traccia rispetto alle diatribe territoriali su cui il tema della denominazione “Macedonia” impattano, ma riemergano poi a livello visivo in modo fortissimo, quando i cittadini, come domenica 21 gennaio, marciano per le strade per rivendicare legittimità nell’uso di quel nome. Uno degli elementi più farseschi, ma al contempo più vistosamente interessanti della marcia a Salonicco sono stati i travestimenti da falange macedone di molti e molti presenti; i riferimenti negli slogan e negli striscioni alla Macedonia alessandrina. La cosa che incuriosisce è che, alla corrispondente marcia in Macedonia (stato) per lo stesso tema, si presentava esattamente la stessa situazione.

Foto via www.el.gr

Per quanto le mascherate siano di per sé una cosa che fa ridere, è interessante come questa affermazione di identità culturale si presenti proprio nella congiuntura tra il presente e il passato, come se, per quanto riguarda la “macedonità” greca, essa possa effettivamente essere un preludio della cristianità, e in particolar modo della cristianità ortodossa, che è non solo il collante ma la guaina di protezione dell’ellenicità contemporanea.

“La Grecia non è in vendita perchè l’ha già comperata Cristo” (via luben.tv)

Lo diventa grazie e attraverso un tipo di narrazione storica molto particolare, introdotta dal padre della storiografia nazionale greca, Konstantinos Paparrigopoulos che scrisse La storia della nazione (ethnos) greca tra il 1860 e il 1874, quindi ancora a ridosso dell’Indipendenza del 1830.

In questo immenso capolavoro che raccoglie tutta (o quasi) la storia dell’ethnos greco dall’antichità alla liberazione e che costituisce la base imprescindibile dell’ideologia storiografica greca, ci sono alcune innovazioni importanti. La prima è l’uso della prima persona plurale diacronica “noi greci” che permette un’immedesimazione dei lettori greci nelle vicende storiche della propria stirpe e, inoltre e soprattutto, l’introduzione di una struttura genealogica di tipo “divino-provvidenziale” nel racconto della storia nazionale che connette e concatena le fasi storiche attraverso un rapporto di discendenza quasi patriarcale: dai progenitori antichi nasce la stirpe macedone che darà luce alla cristianità bizantina, la quale a sua volta ha generato la chiesa ortodossa. Scrive lo storico Antonis Liakos:

«Nel lavoro di Paparrigopoulos, l’ascesa dell’ellenismo moderno del XIII secolo è connesso alla riscoperta dell’ellenismo antico (…) è l’ellenismo antico che conferisce sostanza politica all’ellenismo moderno e che rende l’indipendenza nazionale possibile, senza l’interferenza del Rinascimento europeo o dell’Illuminismo. Quindi, il revivalismo si trasforma in un’identità politica radicale, e lo è precisamente perché la coscienza nazionale risulta essere il risultato di un’elaborazione in termini politici, attraverso la sua relazione con la specifica cultura civica della Grecia classica» (Liakos 2008).

Questa digressione storiografica ci serve per comprendere, forse, come la storia nazionale scateni un sentimento fortissimo, fondativo per la coscienza nazionale dei greci di oggi. Una coscienza che ha poco a che fare con la “ragion di stato”, ma moltissimo con un sentimento, intimo, di appartenenza etnica. Non è un caso che la tematica del sangue greco, condiviso e identificante, sia così diffusa nelle retoriche di Alba Dorata ma anche, sublimato a livello culturale, nell’ideologia fondativa della coscienza nazionale. Non solo negli ultimi anni Alba Dorata ha condotto grandiose campagne di donazione di sangue greco da destinarsi a soli greci, ma pure, nei mezzi di trasporto di massa della capitale, non è insolito vedere persone mendicare aiuto esibendo l’unico avere che possa dimostrare agli astanti la loro grecità, la loro appartenenza etnica: la carta di identità.

“Viva l’ethnos, abbasso lo Stato” (via zougla.gr)

Ma sinora abbiamo parlato di un riconoscersi storicamente in una storia, in un’identità nazionale. Che impatto ha questo rispetto ad una disputa territoriale come quella della “questione macedone”?

Per capirlo, dobbiamo ricordare che non esiste alcuna disputa territoriale reale e che ogni volta che pensiamo che lo sia, dobbiamo fare una pausa, bere un caffè e ricominciare da capo. Poteva esserlo vent’anni fa, quando la Macedonia era uno stato nuovo, in cerca di una definizione identitaria e territoriale, dopo l’esperienza della Repubblica popolare e federata (e non lo era), ma sicuramente non lo è adesso. La politica dell’attuale presidente della Macedonia Zoran Zaev del partito socialdemocratico è sempre stata di distensione con i vicini (Albania inclusa, sventando un possibile scontro bellico tra i due paesi; da sottolineare che il vice- primo ministro Bujar Osmani appartiene alla minoranza albanese di Macedonia) e di attenzione per le minoranze interne del paese e, nel caso specifico del nome “Macedonia”, si è posto con la massima disponibilità al tavolo delle trattative.

Nella scuola dove lavoro, in una municipalità decentrata di Atene, in questo periodo abbiamo a lungo discusso in classe coi ragazzi e nelle pause con le insegnanti, della questione della denominazione della Macedonia. Ho potuto verificare qualcosa che dalle notizie sui giornali non  avevo capito essere un punto centrale contro la denominazione di Macedonia dello repubblica di Macedonia (scusate se, tra tutte queste “Macedonie”, diventa difficile seguire): quello che si teme, qualora venga confermato questo nome per la ex repubblica della federazione jugoslava, è che questa avanzi delle pretese territoriali sul territorio greco denominato “Macedonia”, che comprende la provincia di Salonicco, e che i greci considerano quanto resta della vera Macedonia storica, quindi del vasto territorio grecofono che era una volta l’impero di Alessandro Magno.

Va sottolineato che il territorio della ex repubblica jugoslava di Macedonia è stato oggetto degli interessi di espansione territoriale greca sin dall’indipendenza del 1830 e che è solo a seguito delle Guerre Balcaniche del 1912-1913 e con l’accordo di Bucarest che sanciva la spartizione tra Serbia, Bulgaria e Grecia del territorio della Vardarska (vallata del fiume Vardar), che la Macedonia acquisì la consistenza territoriale attuale, nonostante fosse una regione serba senza alcuna autonomia amministrativa. Durante l’occupazione nazista della Grecia, mentre la Vardarska Banovina (futura Repubblica Popolare di Macedonia) era completamente amministrata dalla Bulgaria, molti greci macedoni slavofoni si unirono alla guerriglia partigiana greca ed ebbero forti contatti con i partigiani titini. Come è noto, molti partigiani comunisti greci, dopo l’accordo di Varkiza del 1945 si rifiutarono di consegnare le armi temendo, a ragione, rappresaglie nei loro confronti e questo periodo di tensione sociale sfociò nella Guerra Civile l’anno successivo. Durante uno degli eventi più segnanti della storia greca recente, furono moltissimi i greci macedoni slavofoni che fuggirono verso la Jugoslavia, insieme alle migliaia di profughi grecofoni.

Molti anni dopo, alla fine della dittatura dei colonnelli e con l’avvento della fase di “transizione politica” (metapoliteusi) che la seguì, segnata dalla vittoria quasi plebiscitaria del partito socialista (PASOK), l’amnistia generale con la quale si permetteva il rientro nelle proprie case a tutti i profughi della guerra civile (quasi 700 mila persone) aveva una clausola “etnica”. In base a tale clausola e perfettamente in linea con lo slogan e l’ideologia di uno dei partiti socialisti (allora) più amati d’Europa, “La Grecia ai Greci”, solo i profughi di etnia greca avrebbero potuto rientrare in possesso dei loro averi, lasciati in Grecia per fuggire dalla guerra. Questo fu un deterrente non da poco per il ritorno degli “slavomacedoni” che avevano trovato nella Repubblica Popolare di Macedonia o in altre repubbliche popolari federate una casa e quell’identità etnica che gli era sempre stata negata.

Ora, è quindi chiaro che (1) per entrambe le nazioni in causa, il nome Macedonia abbia un fortissimo portato identitario, per gli uni perché attribuito a una conquistata indipendenza etnica (né serba, né bulgara), per gli altri perché determinante per l’affermazione territoriale della propria, (2) che la disputa è quindi incentrata su un riconoscimento e un’affermazione etnica e (3) che le pretese territoriali che possono scaturire da questa sono pressoché irrilevanti. Quest’ultimo punto è tanto vero quanto riscontrabile dal fatto che, quando quasi due mesi fa la questione del nome è tornata prepotentemente fuori, è stato precisamente al fine di sbloccare la richiesta della Macedonia di entrare nella NATO e nell’UE, rimasta in sospeso da 25 anni per il veto della Grecia posto precisamente per la questione del nome, e sarebbe contraddittorio avanzare richieste di questo genere per poi scatenare conflitti territoriali con paesi membri e confinanti.

Non è quindi, nonostante venga presentata in questo modo da tutti coloro che ne parlano, una questione territoriale. Piuttosto, come ha riferito Kyriakos Mitsotakis, leader del maggior partito di destra (Nea Demokratia) oggi all’opposizione, ma molto probabilmente prossimo a governare il paese: «La questione di Skopje non è solo una questione di politica estera. Ha a che vedere con la nostra coscienza etnica, la nostra storia, in sostanza la nostra identità di greci» e continua: «Non perderemo i Greci, per riunire i Macedoni” (fonte: ERT webtv, 27.01.18).

In queste parole si riassume il senso comune dei Greci davanti a questa questione, associata alla pretesa, conditio sine qua non per procedere con qualsiasi negoziazione, che il governo macedone cambi la propria costituzione e oltre a rinominare se stessa rinomini ogni altro riferimento alla Macedonia (libri di scuola, denominazione dei prodotti e strade e aeroporto intitolati ad Alessandro Magno; riferimenti questi ultimi due che il governo macedone ha approvato di modificare). Si chiede di fatto alla Macedonia di rinunciare a tutto ciò che ne costituisce l’identità nazionale, cosa che solleva non poche perplessità presso i membri di un governo sovrano, in virtù dell’accesso a quell’Europa che riconosce alla Grecia il primato di “culla della sua democrazia”. È questo, forse, che i greci, ai quali l’Europa ha portato via negli ultimi 10 anni la dignità di esseri umani, non possono perdere?

La questione dei rapporti con l’Europa e dell’affermazione identitaria è centrale ed è interessante guardarla attraverso lo spettro le retoriche della destra greca e di come essa impatti sulla coscienza civile.

Vi è infatti, affatto sotto traccia, uno scontro interessante in corso tra i due rampolli della famiglia Mitsotakis, Dora Bakogianni e suo fratello Kyriakos Mitsotakis, che riporta in scena le due diverse anime incarnate dal partito: quella di una destra neoliberal e progressista e quella di una destra conservatrice. Nei giorni scorsi è comparso un video che ha fatto grande scalpore di un’intervista del 2008 a Dora Bakogianni, attuale capo del dipartimento di sviluppo ed economia del suo partito, nel quale questa si dichiarava favorevole all’uso del nome Nuova Macedonia, intendendo come “antica” quella vera, quella greca, e come “nuova” la repubblica ex jugoslava.

La questione è tutt’altro che di secondaria importanza. Quando nel 1991 la Comunità Europea riconobbe l’indipendenza dei primi stati che si staccavano dalla Federazione Jugoslava, Slovenia e Croazia, si pose il problema della Macedonia. Nel 2008, un programma televisivo di inchiesta, Fakeloi (fascicoli), del canale televisivo Skai cercò di far luce su come si fossero svolte le negoziazioni sul nome allora. Ne emerge un rimpallo di responsabilità tra l’allora ministro degli esteri Antonis Samaras e l’allora presidente del consiglio Konstantinos Mitsotakis del suo stesso partito (sempre Nea Demokratia) su chi avesse voluto lasciare aperta la questione del nome, attribuendo alla Macedonia temporaneamente il nome di “Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia”: il primo sottolineando la sua impossibilità a fare di più. il secondo rimproverando al primo di non essere stato sufficientemente incisivo circa la necessità di chiudere velocemente la questione. A questo seguirono le prime mobilitazioni in Grecia, tra le quali la grande marcia di Salonicco del 14 febbraio 1992, a seguito della quale tutti i partiti politici greci, a eccezione del KKE, concorderanno sulla necessità che la parola “Macedonia” scompaia dal nome della neonata repubblica.

Marcia a Salonicco nel 1992 (via lifo.gr)

Nel periodo successivo, il governo greco proverà letteralmente a comprare il nome Macedonia da quello macedone senza sortire risultati. Quello che emerge chiaramente è una polarizzazione che vede da una parte Mitsotakis il quale non ritiene la questione del nome come fondamentale in sé, in particolare rispetto alle altre questioni di interesse economico nei confronti di molti ed importanti investimenti greci in Macedonia, soprattutto per quanto riguarda il settore edile e le esportazioni di greggio, e dall’altra Samaras che si fa portavoce dell’istanza identitaria, la quale incontra il favore della popolazione greca sia in patria che in America. Sarà questo che determinerà la sua cacciata dal governo, nell’aprile del 1993. Curiosamente, però, da quel momento l’istanza identitaria rimarrà quella sostenuta da tutti i governi greci sino ad oggi, e la posizione ufficiale della destra, parlamentare e non. Il presidente della repubblica Konstantinos Karamanlis si commuoverà davanti alle telecamere pronunciando la frase “La Macedonia è greca” e Mitsotakis verrà diffidato dal suo stesso partito Nea Demokratia a continuare con le sue negoziazioni, pena la caduta del governo.

Alle elezioni dell’ottobre successivo, torna al governo il PASOK, la cui posizione in merito alla questione è sempre stata univocamente concorde con l’istanza identitaria. In questi anni la Grecia porrà anche un embargo nei confronti della Macedonia, che si troverà poi nella necessità di dover sciogliere proprio perché controproducente per gli affari economici che legano le due nazioni.

È chiaro come ci si trovi davanti a due modelli culturali molto diversi, le cui radici possono essere tracciate a partire da alcune considerazioni circa la natura dei rapporti tra lo stato greco e l’Europa.

Antonis Liakos, nel suo articolo che abbiamo già precedentemente citato sostiene che, attraverso il lavoro storiografico di Paparrigopoulos si sia stabilita, in Grecia, un’ideologia fondativa, una narrazione del sé nazionale che, proprio perché si autoalimenta della sua stessa storia antica, può fare a meno degli apporti illuministici ed europeizzanti al movimento di indipendenza nazionale del 1830. In qualche modo, come una fenice che risorge dalle sue ceneri (Liakos 2008), la Grecia da sola si è liberata dall’oppressore ottomano, per far rievocare la sua grandezza antica. Il grecista Vassilis Lambropolulos ha spiegato questo processo durante un suo intervento al Simposio sul Futuro della Grecia Moderna che si è svolto alla London School of Economics nel novembre 2014: «La cultura greca moderna si è inventata il suo stesso ellenismo come topos sotto la terra, sopra il cielo, oltre i confini fuori dalla realtà, indipendente dalle regole. Anche quando comprende il mare, la terra, il sole e gli uccelli, questa Grecia è trascendentale. È qualcosa da contemplare e non da abitare. Mentre gli occidentali, persino i Romantici vagano, i greci risiedono. Si considerino gli ideali topografici dalla Megali Idea alla Romiosini, la poesia di Solomos I liberi assediati, o l’Axion Esti di Elitis, i dipinti di Nikolaos Gyzis e di Sotiris Sorogas o ancora i saggi di Spyridon Zabelios o Stelios Ramfos. La modernità della loro Hellas consiste nella sua essenza transtorica /ousia e nella sua presenza transustanziale / parousia in un’Attica ancora devastata da atticismi stranieri» (Lambrodopoulos 2014).

Ma nello stesso intervento ci mette in guardia su qualcos’altro: «Una posizione per certi riguardi potente è quella di quei moderni che affermano di essere loro i veri greci della modernità, proprio perché non imitano gli antichi, ma costituiscono un ellenismo radicalmente nuovo. Qualcosa che richiama la filosofia tedesca, il gusto francese, l’architettura jeffersoniana, una cultura arnoldiana, l’omosessualità esibita, la danza modernista, la tragedia africana, film latino-americani, la fiction di Ulisse, Dioniso a teatro, Euridice in opera. Le rivendicazioni di un ellenismo autenticamente moderno mettono in una posizione davvero difficile le persone che parlano greco, hanno un lignaggio greco, abitano la terra greca, celebrano le tradizioni greche e abbracciano il suo patrimonio etnico in genere». (Lambrodopoulos 2014)

In questo senso può essere configurato lo scontro tra una destra liberale, smithiana, moderna e modernizzatrice, e quello che il filologo e studioso di culture Furio Jesi identificherà come “cultura di destra” (1979). Si tratta di una cultura conservatrice che esalta la mitideologia del suo ethos autosufficiente, la cui mentalità è comune e trasversale non solo ai partiti di destra dell’arco parlamentare greco, condivisa ufficialmente da Syriza e perfettamente in linea con le posizioni populiste del PASOK ma, soprattutto, profondamente radicata nel pensiero comune di molti greci, proprio per la profondità con la quale parla della loro identità di cittadini greci.

A oggi la linea unitaria del partito di Nea Demokratia è quella identitaria del suo leader, anche se diversi parlamentari, inclusa Dora Bakogianni, hanno dichiarato che non prenderanno parte alla marcia organizzata ad Atene per il 4 febbraio sulla falsariga di quella di Salonicco e chiamata dalle “Unioni Macedoni del Mondo”.

Di questa sigla fanno parte, oltre a tutte le associazioni di Macedoni di Grecia, diverse associazioni di greci americani, l’Unione delle organizzazioni cristiano-ortodosse di Atene, i circoli degli ufficiali in pensione di tutti i rami dell’esercito greco e l’associazione “Alessandro figlio di Filippo il Greco-Macedone”, la cui pagina Facebook pubblica immagini come queste:

Nessuna delle persone con cui ho parlato della questione del nome della Macedonia è vicina alle posizioni di Alba Dorata, ma tutti coloro che si sono dichiarati contrari ne condividono su questo tema almeno in parte le posizioni: condividono parzialmente la versione secondo cui il territorio della Macedonia sarebbe un’invenzione dei comunisti titini, condividono la versione sul tradimento della NATO, che non ha fatto nulla per fermare l’usurpazione di questo nome, condividono l’indignazione per la strada principale che attraversa la Macedonia e per il suo aeroporto, entrambi intitolati ad Alessandro Magno, condividono che i governi temporeggino per gli interessi economici che legano gran parte del ceto politico greco alla Macedonia e che questo sia un tradimento, condividono l’orgoglio per le sollevazioni popolari degli anni ’90, si schierano quindi a favore delle grandi marce di questi giorni, a Salonicco come ad Atene.

Ciò che unisce, l’abracadabra intorno al quale tutta la retorica sulla questione della Macedonia gira è la questione del “patriottismo”. “Patrioti” si definiscono i cittadini che hanno sfilato a Salonicco e ad Atene. “Patrioti”, si chiede di essere ai politici e di abbracciare la causa del popolo greco che si oppone all’usurpazione e al tradimento. L’essere patrioti in questo caso, in buona sostanza, significa essere contrari all’uso macedone del nome Macedonia e lottare pubblicamente per questo.

Come si può lottare per un’istanza che, abbiamo visto, non è territoriale, non impatta sul cambiamento delle vite delle persone che vi prendono parte, come invece avviene per il nuovo memorandum appena votato in parlamento il 15 gennaio così come i precedenti, e non coinvolge dei processi decisionali partecipati, perché riguarda, in definitiva, dei rapporti diplomatici tra stati sovrani? lo si fa usando il linguaggio del corpo, prendendo parte, esprimendo demartinianamente la propria presenza a una pubblica manifestazione. Ma nello specifico, che tipo di linguaggio è questo linguaggio del corpo (sociale) patriottico?

Furio Jesi, ancora una volta ci viene in aiuto. Dalle sue interviste, di cui Andrea Cavalletti riporta nella prefazione al libro del 1979 degli stralci, emerge chiaramente come la miglior definizione di cultura di destra è quella di “cultura di un vuoto”. In particolare, si tratta di una cultura non necessariamente autocelebrantesi come “fascista”, “metaxista”, “nazista”, ma in sostanza caratterizzata da un suo rapporto di dipendenza dal passato, e quindi dall’assenza, in modo tale che sia questo a configurare l’assetto del presente e del futuro.

Questa dipendenza viene instaurata attraverso la manipolazione di un materiale mitico (macchina mitologica), che determina una cristallizzazione di figure simbolo caricate di una forza «viva e perenne». Queste figure simbolo o questi luoghi mitici sono precisamente la sintassi di un linguaggio che Jesi definisce idee senza parole. Di fatto, delle autoevidenze, delle cose rappresentative di per sé e allo stesso tempo intrise di valori, di Geist. Sulla scorta di questo ragionamento che calza perfettamente a quanto abbiamo sinora detto sulla “questione macedone”, Jesi ci permette di fare un passaggio ulteriore, il passaggio che ci serve per arrivare a

capire cosa nella marcia per la Macedonia a Salonicco sia “andato storto”, cosa abbia determinato le manifestazioni apertamente fasciste che si sono date: l’assalto a due occupazioni libertarie e l’incendio e la distruzione di una di queste, durante un corteo di “semplici patrioti”.

Il giorno della marcia di Salonicco, voglio sperare ignara degli incendi fascisti, Zoi Konstantopoulou ex presidente del parlamento greco con il primo governo Syriza e allontanatasi in seguito per “il tradimento” del suo partito nei confronti del popolo greco, e spostatasi su posizioni apparentemente più tradizionali “di sinistra” ha twittato: «Oggi a Salonicco hanno manifestato centinaia di migliaia di cittadini. Hanno supportato la dignità della nostra patria. Come è nostro diritto costituzionale. E obbligo. Non regaliamo il paese ai fascisti. Il paese lo supportano i cittadini. Noi».

Queste parole sono molto dense: ci dicono che c’è una profonda consapevolezza di pascolare in territori consoni alle retoriche di estrema destra e che solo il rimediare all’assenza della sinistra, il farsi patriottica della sinistra greca, potrebbe sventare il rischio di “regalare il paese ai fascisti”. Una eventuale diversa narrazione della questione non viene contemplata come possibile, non esiste, precisamente in quanto le istanze di base, quelle patriottiche, vengono condivise. Ci dice che le posizioni dell’estrema destra sulla questione del nome Macedonia sono posizioni rispettabili, culturalmente condivisibili, seppure chi le formula sia un fascista.

Furio Jesi, nel secondo capitolo di “Cultura di destra” affronta una questione scomoda: precisamente quella della rispettabilità che alcuni teorici dell’estrema destra italiana del Ventennio, nello specifico Julius Evola, si sono guadagnati presso i posteri anche non fascisti. Questo è stato possibile perché gli scritti di Evola non appartengono a quella triviale vulgata razzista, quella che apertamente schifava gli ebrei, i neri, gli storpi come inferiori. Il suo razzismo è, piuttosto, stato definito da De Felice “razzismo spirituale” (De Felice 1993). Un razzismo quindi certamente deprecabile, si dice, ma non violento e, per giunta, illuminato da valori di trascendenza. Un razzismo “positivo”, che non parla dell’inferiorità degli altri, ma della superiorità di alcuni. Questo tipo di fascismo “illuminato”, ci dice Jesi, è stato uno degli strumenti più potenti dell’indottrinamento neofascista italiano, precisamente grazie a questo tipo di tensione “sacra”, trascendente. “Il neofascismo ha bisogno di un Evola, e soprattutto per nutrire i giovani camerati, poco sensibili ormai all’apparato nazionalista tradizionale” (Jesi 2011:154).

Rispetto al caso della questione macedone, è invece per noi facile constatare come questo apparato abbia invece un appeal ancora molto vivo; ce l’ha però, e questo non valeva allo stesso modo per il nascente neofascismo italiano degli anni ’60 e ’70, perché, come abbiamo visto prima, nello stesso “apparato nazionalista tradizionale” greco la trascendenza si dà immediatamente: è la patria, o meglio, l’ethnos stesso.

Questi concetti, per altro, nella questione della Macedonia dimostrano in maniera lampante come vengano confusi e continuamente accavallati l’aspetto della territorialità a quello dell’identità in perfetto stile romantico, in una sorta di incubo deleuze-guattariano che dà forma concreta allo spazio striato e sedentario, dove tutto è dato e territorializzato, dove tutto esiste già. In greco infatti la parola nazionalismo è tradotta con ethnikismos, dove la radice è quella di ethnos, stirpe, identità di popolo, che acquista valore territoriale proprio mutuandolo dalla riflessione romantica sul concetto di patria (la terra dei nostri padri).

Andando avanti, esistono, nell’analisi di Jesi, due livelli del “discorso di destra”: uno essoterico (da ekso, gr.>fuori) e l’altro esoterico (da eiso, gr.> dentro); entrambi hanno come oggetto “il valore”, la sacralità di qualcosa, ma hanno dei riferimenti molto diversi. Il primo è un linguaggio piano, che mira a creare un consenso dettato dal luogo comune, dall’apprezzamento indistinto. Il valore in questione sarà dunque riconosciuto da tutti coloro che vedono in quel valore, un valore, senza che questo venga in qualche modo discusso. È un’idea senza parole, il linguaggio della propaganda,“La Grecia ai Greci”, “La Macedonia appartiene ai greci”. Una vera feticizzazione culturale.

Il secondo tipo di discorso è un discorso tra “adepti”, tra chi alla condivisione esteriore di un valore aggiunge un fine politico che non viene comunicato, che mira a imporre un regime di verità trascendente, non tanto, o non solo perché trascendente è il valore di cui si parla, ma perché da esso dipende un certo tipo di orizzonte di senso, che è l’obiettivo totalitario del pensiero di destra.

Jesi porta come esempio una commemorazione per la morte di Giosuè Carducci, famoso massone, presso una loggia massonica, e dice: «non si tratta solo di fermarsi a possedere tale patrimonio e a subirne la forza di appiattimento. Qui importa agire, o almeno proporre come azione la condotta propria dei “fratelli” massoni. Il linguaggio (…) di notevole violenza, corrisponde a questo aspetto dinamico del rapporto con la roba di valore (…) L’oratore dice a tutte lettere […]”noi perpetueremo la tua guerra”, “noi […]li annienteremo” (Jesi2011:161).

Torniamo quindi, per concludere, alla domanda che ci eravamo posti e cerchiamo di tirare le fila: che tipo di linguaggio è il linguaggio “patriottico” della marcia di Salonicco di domenica 21 gennaio?

Come abbiamo visto, una marcia di molto più di 100 mila persone che ha attraversato la città di Salonicco, seconda città più importante della Grecia, e centro nevralgico della “macedonità” greca, con bandiere greche e striscioni a tema e travestimenti che rievocavano l’antico patrimonio della Macedonia alessandrina. Persone di tutte le età e le estrazioni sociali si sono ritrovate per queste strade e sono arrivate fino alla Torre Bianca del porto di Salonicco per affermare la loro identità di greco-macedoni e la loro eredità culturale di epigoni di Alessandro Magno, e per chiedere che queste non vengano violate da usurpatori stranieri.

A ben vedere, però, in linea con ogni “cultura di destra” che si rispetti, a questa narrazione essoterica fa da contraltare quella esoterica, altrettanto presente ed evidente. Quella di una “azione diretta”, che voleva comunicare agli adepti di una stessa area politica la propria presenza e la propria efficacia, trascendente perché al contempo valoriale e autoaffermativa: l’assalto ed il rogo dello spazio dei “traditori” del valore condiviso, dell’amor di patria, in questo caso il movimento libertario greco che costantemente si sottrae al monologo etnico. Un gesto che non ha saputo dire nulla alle molte persone in piazza, ma che è arrivato direttamente a chi doveva notarlo.

Un’affermazione identitaria nell’affermazione identitaria. “È l’elemento più caratteristico e diffuso della cultura di destra: possiede tutta l’oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta la sua ripugnanza per la storia che è camuffata da venerazione del passato glorioso, tutto il suo immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva perenne.” (Jesi 2011:165)

Si è trattato, in definitiva, di un momento di quel movimento, tipico della cultura di destra, che ritara continuamente gli elementi culturali in ballo per renderli immediatamente intelligibili da tutti gli interlocutori a cui si riferisce. Ma si tratta, è bene tenerlo a mente, della stesso meccanismo di manipolazione al quale, una volta in ballo, è ben difficile sottrarsi.

 

L’autrice è redattrice di Atene Calling. Su twitter: @GnostiAgnosti.

 

Detienne, M., 2005, Les Grecs et nous, Paris, Perrin

Herzfeld, M., 2005, Cultural Intimacy, Social Poetics in the Nation-state, London, Roudlege

Jesi, F., 2011, Cultura di Destra, Roma, Nottetempo

Lambropoulos, V., 2014, https://poetrypiano.wordpress.com

Liakos, A., 2008, “Hellenism and the Making of Modern Greece: Time, Language, Space”, in Zacharia, K., Hellenisms: Culture, Identity and Ethnicity from Antiquity to Modernity, London, Routledge

Paparrigopoulos, K., 1974, Ιστορία του Ελληνικού Έθνους, Athens, Εκδοτηκή Αθηνών