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Riders on the storm
L’impresa più riuscita della controrivoluzione neoliberista è stata quella di aver reso invisibile la forza lavoro contemporanea. La riscoperta delle sue potenzialità è invece al centro dell’ultimo libro di Roberto Ciccarelli, “Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale”
Lo chiamano familiarmente Frank. È il detentore del tocco magico, un fuoriclasse della scienza dello sfruttamento. Gestisce orari, dosa piccoli incentivi, programma retrocessioni e induce a dare il massimo. È il sogno di ogni padrone. Soltanto che Frank non è una persona in carne e ossa. È un algoritmo, viene evocato con un nomignolo, forse per cercare di rendere più sopportabile il viavai delle consegne a domicilio Deliveroo. Magari anche per avere qualcuno da maledire. A sei mesi dal debutto i tempi di consegna si erano già ridotti del 15 per cento. Merito del procedimento sistematico di calcolo che considera le variabili più disparate (dal meteo al tempo di cottura) o piuttosto frutto del sudore dei riders, gli uomini e delle donne con gli scatoloni termici che lavorano mettendo all’opera il senso d’orientamento, l’empatia verso il cliente, la capacità di reagire all’imprevisto, la prestanza fisica? In Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi, Roma 2018) Roberto Ciccarelli si occupa della rimozione di queste qualità. L’invisibilizzazione della forza lavoro è frutto della controrivoluzione neoliberista, dell’egemonia del capitale. Ma è conseguenza anche dei tratti tipici della produzione contemporanea. Il lavoro è dappertutto e da nessuna parte. È saltata ogni corrispondenza tra status professionale e collocazione sociale. Adesso più che ai tempi di Marx, la classe è una non-classe. Non può definirsi in astratto. «Essa è un divenire che accade nelle relazioni umane», scriveva ormai cinquant’anni fa E. P. Thompson a proposito della nascita della classe operaia inglese. Ecco perché l’autore non pettina le bambole del pensiero dominante perdendosi in elucubrazioni sulla presunta classe disagiata. Tiene la barra dritta e si concentra più sulla potenza che sull’essenza: non si tratta di comprendere cosa è la forza lavoro, ma di afferrare cosa può.
Qualche anno fa, Evgenij Morozov scrisse della nuova app che consente di guadagnare pochi centesimi cedendo il proprio parcheggio per strada. Tecnicamente, non potresti vendere la porzione di suolo stradale occupata dalla tua auto. Lo scambio economico ruota attorno all’informazione: l’acquirente effettua dei micro pagamenti per sapere quando stai per liberare il posto. Parrebbe il business perfetto, se non fosse che l’economia digitale si trova a monetizzare grazie alle sue piattaforme persino il piccolo gesto d’intesa che ci si scambia tra automobilisti al momento di parcheggiare. Attorno a questo rimosso, al rimosso delle infinite possibilità che ci vengono precluse nello iato che si produce tra il lavoro come merce e il lavoro come rapporto sociale, gravitano alcuni concetti feticcio che ritornano nel dibattito corrente, permeano il vissuto quotidiano e il senso comune. La forza lavoro viene sovente ostentata con toni novecenteschi (il che comporta il rimpianto dei bei tempi che furono). Oppure nascosta dietro l’utopia dell’automazione. Il feticcio dell’auto che si guida da sola, continuamente messa in scena dai laboratori Google e da Tesla ma il cui lancio effettivo è puntualmente procrastinato a data da destinarsi, allude esattamente a quest’ultima inclinazione. È la riproposizione in chiave digitale di un grande classico della narrazione padronale: l’illusione di un lavoro senza esseri umani, emanazione diretta del Capitale.
«Sul campo sono rimasti i profeti che annunciano un futuro nuovo di zecca e chi rimpiange l’età dell’oro dove il lavoro sarebbe servito a soddisfare i bisogni e a realizzare la dignità della persona» – riassume Ciccarelli parlando di “idealismi contrapposti” – «In nessun caso la forza lavoro è considerata come una facoltà, parte di una vita libera di esprimersi oltre la razionalità capitalista».
«Sembra che il lavoro si produca da solo, le merci appaiano misteriosamente nelle nostre case, il denaro sia l’incarnazione della volontà matematica di un algoritmo», scrive l’autore facendo dialogare i migliori analisti del capitalismo digitale con i classici.
L’utopia/distopia dell’automazione evoca il sogno di una produzione che scorre liscia, senza conflitti e contraddizioni, la sua proiezione sul modello post-toyotismo si chiama Industria 4.0. Dopo l’eufemismo fortunatissimo della “produzione snella” e della sincronia tra linea di montaggio, fornitori e clienti, è il tempo di una piattaforma che collega la manifattura alla rete digitale, abbassando i costi della produzione e trasformando i beni in servizi. «La piattaforma connette il mondo virtuale dei computer al mondo delle cose», sfrutta le miniere digitali dei big data scavando cunicoli nei giacimenti relazionali e cognitivi dei social network e del web 2.0. Leggendo queste pagine, ritorna in mente il progetto della mai realizzata rete telematica sovietica, che Benjamin Peters descrive in «How Not to Network a Nation». In quel caso, gli scienziati russi progettarono di mettere in rete i luoghi della produzione, per aggirare i guasti dell’economia pianificata e affidarvi alla spontanea relazione tra fabbriche. In questo caso si ripropone il mito della mano invisibile, del mercato che si autoregola e che è capace di allocare al meglio le risorse estendendo alla società e alle intercapedini tra carne e circuiti il suo dominio.
La digitalizzazione consente di mobilitare in maniera permanente la forza lavoro sotto forma di micro-lavori, prestazioni occasionali, lavoretti, prestazioni gratuite. In questo contesto «la disoccupazione non va considerata solo come l’assenza di lavoro retribuito, ma come permanente attivazione del soggetto alla ricerca di un’occupazione più formalmente definita nell’ambito di un precariato strutturale». Competizione, performance e valutazione spingono il lavoratore-folla a non comporre un corpo collettivo: quella che si è chiamati a combattere è una guerra individuale in uno «sciame digitale».
Operando l’incrocio affascinante delle teorie sul Quinto Stato con il pensiero di Machiavelli, Ciccarelli sostiene che «tra i freelance esistono coloro che sanno dominare la fortuna, esprimono la loro virtù e si trasformano da soldato di ventura in Principe che ha il “favore popolare”». Il freelance ricorda anche il flâneur di Benjamin, anonimo e distaccato da una folla dalla quale non può prescindere. Poeta, cospiratore, portatore di tartarughe al guinzaglio, uomo-sandwich pagato per camminare ed esplorare la metropoli e il mercato.
«Non vi sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: chi siamo noi al momento attuale? (…) Ma penso che tale domanda sia anche a fondamento del mestiere di giornalista», diceva Foucault. Il giornalismo filosofico di Roberto Ciccarelli restituisce un quadro attualissimo e profondo, non fa sconti all’approfondimento ma non disdegna di misurarsi con l’urgenza della cronaca. Siamo arrivati ai passaggi chiave, i concetti fondamentali del libro che si addentrano nel «lato oscuro della forza lavoro» e che sulla scorta di un’intensa esplorazione teorica arrivano alla nostra esperienza quotidiana nell’infosfera.
La rappresentazione dei «lavoratori» come vittime di decisioni anonime è parziale e imprecisa: «il motore della macchina è alimentato da qualcuno che aderisce volontariamente ad un percorso che si presenta come emancipazione e crea subordinazione. La contraddizione è agita dal soggetto, non è un incidente provocato da forze ostili».
Si veda l’ideologia delle start-up (significanti vuoti attorni ai quali Emmanuel Macron, e di riflesso Matteo Renzi e Luigi Di Maio in Italia hanno costruito retoriche propagandistiche condite con aria fritta) o la profondissima ambivalenza della sharing economy (i dati ormai indicano AirBnb come l’agente della trasformazione urbana a favore della rendita e dell’espulsione dai quartieri dei ceti popolari). La rivoluzione digitale, la stessa che doveva scardinare il possesso in favore dell’accesso, alimenta il nostro desiderio di diventare padroni. Quando ordiniamo la cena dal telefonino, insultiamo il prossimo, siamo ossessionati dal costruire una nostra privatissima quanto illusoria nicchia di «sovranità». «L’acquisto online, lo scambio, l’affermazione apodittica sono espressioni di una “libertà sovrana” e confermano l’impressione che il mondo si muova in base alle scelte di un individuo», «Il soggetto interpreta il ruolo di chi obbedisce e di chi comanda, nello stesso momento»: è un imprenditore di se stesso nel senso più profondo. Meglio: è al tempo stesso impresario e attore. Eppure non ci troviamo di fronte a una macchina perfetta. Lo si è visto nel corso delle elezioni presidenziali statunitensi: i padroni della rete, detentori del monopolio più imponente della storia del capitalismo, «hanno allevato una bestia e non riescono più a controllarla». Le piattaforme digitali pensavano di «controllare il possibile e cambiarlo in tempo reale attraverso un’opera di sorveglianza continua». Così non è andata. Allo stesso modo, dice Ciccarelli, non siamo affatto obbligati a essere imprenditori di noi stessi. Liberarsi di questa soggettività è un problema politico: «Tale possibilità può emergere da un conflitto che coinvolge tutte le dimensioni della “personalità vivente” della forza lavoro: la vita sessuale, intellettuale, i rapporti sociali, lavorativi o politici. Nessuna dimensione della soggettività è esclusa, tanto meno quella del lavoro». Dunque, cosa può una forza lavoro? «Se non ci sforziamo di diventare attivi, non lo sapremo mai», è la conclusione.