cult
CULT
Guida alla Mosca ribelle
SPECIALE L/IVRE-5. Tornano le Guide ormai divenute un classico di Voland. L’ultima è dedicata a Mosca, alla sua storia sovversiva, rivoluzionaria, ribelle, oltre l’ideologia del potere prima staliniano e poi putiniano
Quando si tratta di descrivere e scrivere di una città si possono scegliere tante strade. Ne ricordo due che mi sono apparse riuscite: quella del «reportage orale» di Antonio Pascale in La città distratta (Einaudi) e quella che si concentra sulle caratteristiche sociali e storiche di un territorio che finisce per ammantare e indagare una storia personale, come fa Ermanno Rea in Mistero napoletano (Feltrinelli).
Naturalmente ci sono altri sentieri per arrivare al cuore di una metropoli; ad esempio percorrere quel viottolo che contiene un elemento apparentemente contraddittorio come ad esempio la «ribellione». È quanto fa Valentina Parisi in Guida alla Mosca ribelle (Voland edizioni) con un insieme di ritratti urbanistici, istantanee dal montaggio itinerante che hanno il pregio di attraversare la storia della città, della Russia e in parte anche la nostra. Si tratta di una soluzione – una sorta di reportage storico-narrativo – che consente di ripercorrere in un certo modo la storia politica di una città, finendo per sbalestrare anche l’immaginario di chi un’idea di quel luogo, Mosca, se l’è fatta solo attraverso libri, film o racconti, senza averci mai vissuto davvero.
Se pensiamo a Mosca oggi, in un rapido gioco mentale, finiamo per agganciarci subito il Cremlino, il potere e – immancabilmente – Putin: è evidente che si debba riavvolgere un nastro. Dove sta dunque – in questi elementi che concateniamo un po’ per abitudine e che riecheggiano il «potere» nella sua accezione più reazionaria – la ribellione come chiave di lettura di Mosca? E dove si collocava la rivolta in un’epoca rivoluzionaria del passato; e ancora, quando la rivoluzione è diventata reazione e oggetto di nuove ribellioni? Oppure: le forme di ribellione artistica di oggi come si specchiano nei teatri delle rivolte che hanno animato la città?
Questa prospettiva di analizzare una città dal punto di vista della sua carica sovversiva permette una duplice operazione: dapprima uno svelamento, come se insieme a Valentina Parisi andassimo anche noi lettori a cercare questi rimasugli di ribellione, provando a ritrovarli in qualcosa di più attuale. La seconda operazione consiste nell’esposizione, nella scrittura. Scelta una prospettiva, serve un modo per raggiungerla e per mostrarla tanto a chi la conosce bene quanto a chi ne ignora i segreti che solo la permanenza in un luogo possono svelare.
Ed ecco allora il percorso fatto di tante inquadrature, come fossimo in un film il cui montaggio ci appartiene: attraverso le stazioni della metropolitana («se a Mosca esiste un luogo che rimane sempre uguale a se stesso, questo è la metropolitana, inaugurata nel suo primo tratto il 15 maggio 1935»), attraverso i monumenti e tutto l’impianto apparentemente solo architettonico della città, possiamo dissotterrare i ricordi persi nella memoria, qualcosa che ha segnato il corso del tempo, qualcosa che ha tentato di bucarlo, il tempo, nascondendolo e svuotandolo (come accaduto con il monumento zarista, poi ritoccato in chiave rivoluzionaria – perfino con il nome di un menscevico inciso e infine relegato ai nostri tempi e dunque privo di fascino).
La Mosca ribelle di Valentina Parisi si unisce alle tante «Mosche» ricordate nella prefazione al volume da Gian Piero Piretto e finisce per scandire la sua fonte rivoluzionaria attraverso strade, monumenti, giardini, le case di Esenin e Gor’kij, l’Hotel Lux, trasformato nel 1919 in dormitorio della Čeka e poi nel 1922 in albergo per i rappresentanti del Comintern convocati a Mosca, dove dormirono anche Gramsci e Ho Chí Minh, Dolores Ibárruri e Georgi Dimitrov, Tito e Palmiro Togliatti. Un luogo, per di più, reso leggendario dai destini tragici riservati da Stalin a molti dei suoi inquilini.
«Identificata generalmente con il potere, nelle sue declinazioni più o meno dispotiche, e depositaria di un mito imperiale che la vorrebbe addirittura “terza Roma”», scrive l’autrice, «Mosca in realtà ha un’anima ribelle neanche troppo nascosta. È praticamente ovunque. Eppure si interroga, come fece Velimir Chlebnikov: «Scateni libertà, o sei incatenata?». Mosca è incatenata, ma scatena anche libertà, tanto che quando la capitale vi viene spostata da Pietrogrado, l’organo dei menscevichi Novaja Žizn’, che ravvisava in Mosca un deficit di cultura rivoluzionaria, scrisse: «Chiunque conosca Mosca fa una certa fatica a immaginare il commissario del popolo Trockij in ulica Tverskaja… o Zinov’ev alle porte Spasskie, dove i passanti si tolgono il cappello… Che cosa c’entra l’internazionalismo del Comitato esecutivo centrale con la borghesia mercantile moscovita, intrisa fino al midollo di autentico spirito russo? Che ne verrà fuori? Staremo a vedere…».
Tutto questo accadeva durante i primi viaggi dei convogli che proprio da Pietrogrado portavano la dirigenza bolscevica nella nuova capitale. Ed ecco il metodo e lo svelamento: «A Mosca ci alloggiarono dapprima all’Hotel Nacional’ (la prima Casa dei Soviet), al secondo piano, mettendoci a disposizione due camere… La gente arrivava in continuazione, per salutare Il’ič. Spesso passavano anche dei militari…». L’autrice di queste righe «non è una viaggiatrice qualsiasi fra le tante ospitate dal Nacional’ nei suoi centotredici anni di storia, bensì Nadežda Krupskaja, rivoluzionaria, pedagogista, nonché compagna di vita di Vladimir Il’ič Lenin (la cui morte, racconta Parisi, è parsa dare fiato a una prima emotività moscovita e russa dopo anni di sofferenze e durezza). Insieme «al marito e alla cognata Marija Il’inična Ul’janova (anch’ella rivoluzionaria con il nome di battaglia alquanto curioso di “Orso”), la Krupskaja era arrivata a Mosca l’11 marzo 1918 a bordo del treno numero 4001, il primo di una serie di convogli organizzati dal segretario di Lenin Vladimir Bonč-Bruevič per evacuare in incognito lo Stato maggiore bolscevico da Pietrogrado». Quindi, mentre a Pietrogrado calava la plumbea cortina della repressione politica, «Mosca cominciò paradossalmente a beneficiare di una circostanza non secondaria: l’assenza dello zar».
Ma la «Mosca ribelle» non aleggia solo nel passato: nel libro infatti non mancano «inquadrature sul presente. O, meglio, sul passato prossimo». Come nel caso di Moskvà-City, i grattacieli della zona affari costruiti dalla metà degli anni ‘90, che avrebbero dovuto esprimere la nuova propulsione al futuro fatta di vetri e sviluppo verticale, della rimozione dell’architettura sovietica del passato, anziché di una sua elaborazione. Un complesso che diventa visivo e che pare così «orientale». Anche in Cina fanno lo stesso, si potrebbe dire a giustificare l’asiaticità di questi fenomeni: rimuovere e lanciarsi verso un futuro proprio – che poi a pensarci è quanto accade con i sentimenti: quanto volte ciascuno di noi ha fatto lo stesso con il proprio passato? Oppure nel caso di Puškinskaja ploščad’, vista come contraltare della Piazza Rossa e teatro di recenti manifestazioni contro il potere centrale. Potere inviso anche a quella folta presenza anarchica che ha caratterizzato per un certo periodo una zona della città, grazie alla casa dell’anarchia, oggi sede del Teatro Lenkom, costruita dall’architetto Illarion Ivanov-Š̌ic tra il 1907 e il 1909 per il circolo dei mercanti di Mosca che finì per ospitare poi – dall’ottobre 1917 all’aprile 1918 – un club di anarchici.
E poi ancora Parisi ci porta a spasso, «verso la Siberia» e – infine – a celebrare chi la rivoluzione delle rivoluzioni la consacrò attraverso un libro, un classico della Rivoluzione. Si tratta di un ultimo passaggio quasi a far transitare un testimone per chi, come l’autrice, si ritrova a guardare a un glorioso passato, stante un apparente meno entusiasmante presente: potremmo immaginarla Valentina Parisi a camminare instancabile, di ricordo in ricordo di barricata a Mosca. Così come a Pietrogrado fece qualcun altro: un percorso accompagnato dalle parole di Leonid Charitonov che negli anni ’70 cantava, sul ritmo delle tipiche marcette sovietiche degli anni ’30, «John Reed cammina per Pietrogrado e il tramonto arde sopra il Baltico instancabile, di barricata in barricata va con il suo accredito John Reed».