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Il minimo comun denominatore postfascista

I nuovi volti del fascismo (Ombre Corte 2017) è una lunga conversazione dello storico Enzo Traverso con Régis Meyran. Rivolto in prima battuta a un pubblico francese, è un ottimo punto di partenza per aprire un dibattito non solo di natura accademica ma politica, attorno alle nuove destre che stanno segnando il panorama della scena politica mondiale, a cominciare dall’Europa

Traverso propone di racchiudere sotto l’etichetta di postfascista, un variegato arcipelago di movimenti e partiti con origini e genealogie molto diverse, limitando solo a un sottoinsieme di essi la dicitura di neofascisti. È evidente che il Partito per le libertà olandese (Pvv) di Geert Wilders ha molte cose in comune, ad esempio, con il Front National, a cominciare dall’islamofobia e l’antieuropeismo, ma una storia molto diversa. Se il Fn calca la scena da diversi decenni con un alterne fortune, e “vanta”  una filiazione diretta con il fascismo storico (ma anche con la resistenza e il terrorismo dei pied noirs al processo di decolonizzazione algerino), il Pvv invece è un partito che nasce dopo la caduta del muro, un movimento da subito pienamente inserito nel gioco istituzionale, che si presenta come il baluardo in difesa dei valori della democrazia occidentale contro l’oscurantismo islamico e di conseguenza un partito antimmigrati, con posizioni avanzate sul terreno dei diritti civili. Così come la Lega degli esordi si richiamava alla Resistenza in alcuni frangenti e Bossi tuonava contro Fini ‘mai con i fascisti’, ciò che non impediva l’impiego di un etnoregionalismo e di slogan xenofobi senza dubbio collocabili all’estrema destra.

 

Chi sono i postfascisti

Le forze politiche postfasciste sarebbero così tutti quei movimenti e partiti che in buona sostanza ripropongono il tema del nazionalismo e la rottura dell’Unione Europea, sono ostili all’immigrazione, all’Islam e alla società ‘mondialista’ (ovvero al modello del melting pot americano), si propongono come il baluardo della difesa delle culture nazionali e della società Occidentale. Forze postfasciste perché non (ancora?) eversive ma senza dubbio reazionarie: nel discorso postfascista emergono le scorie del passato, ma è presente anche la ricerca di una nuova alchimia politica.

Si aggiungono poi delle variazioni sul tema, come ad esempio il rapporto con la religione e le specifiche tradizioni politiche nazionali. Pensiamo ai temi della difesa della famiglia tradizionale, all’ostilità all’emancipazione femminile e all’aborto, l’omofobia, che sono nel dna delle forze politiche postfasciste con una gradazione estremamente diversa, o vengono usate strumentalmente di volta in volta: la Lega e il Front National sono forze politiche senza dubbio laiche, lontane da un certo tradizionalismo cattolico di destra, ma ciò non gli ha impedito di cavalcare la battaglia contro le unioni civili e i matrimoni omosessuali.

Alla miscela che dà vita al mimino comune denominatore per individuare il postfascismo di cui parla Traverso si potrebbero poi aggiungere due elementi. In primis la paranoia come sentimento politico prevalente. Una passione che i postfascisti condividono anche con le esperienze del fascismo storico. Pensiamo come temi fino a poco tempo fa appannaggio di minoranze confinate in piccoli cenacoli estremisti siano diventati mainstream. Non è strano sentire un esponente politico raccontare in prima serata in un talk qualsiasi di come sia in atto un piano per “sostituire i popoli europei” per il tramite dell’immigrazione. Un’idea intrisa di complottismo e paranoia tipica dello stile dell’estrema destra, che fino a poco tempo fa non avrebbe avuto cittadinanza in televisione e nessun esponente politico di una forza politica credibile avrebbe mai pronunciato.

È come se negli ultimi 20 anni fosse avvenuta una ‘volgarizzazione’ di alcuni temi tipici della destra neofascista (ma anche neonazista), resi potabili e spendibili nell’offerta politica e non più esclusivo appannaggio di sparute minoranze superideologizzate. Un processo andato di pari passo con l’aggiornamento del pensiero e degli slogan della destra più estrema: indispensabile per comprenderlo è la parabola della nuova destra francese, che da posizioni suprematiste e fautrici del razzismo biologico, è approdata alla teorizzazione del così detto differenzialismo, di cui forse Traverso sottovaluta l’influenza e la risonanza. Sarebbe necessario non solo descrivere i fenomeni politici di nuova natura che ci troviamo di fronte, ma anche rintracciarne e costruire la genealogia delle idee. Una genealogia che – sospetto – farebbe emergere numerose scorie e sopravvivenze del razzismo moderno all’interno del nuovo quadro discorsivo delle destre postfasciste.

Altro elemento che possiamo aggiungere al minimo comune denominatore delle forze postfasciste è l’ostilità per la democrazia rappresentativa così come la conosciamo. Pur non teorizzando o auspicando l’avvento di un regime, rimane più o meno sotto traccia l’auspicio dell’avvento dell’uomo forte, decisionista e in grado di forzare la mano, di un regime politico dai contorni maggiormente autoritari. La stessa polemica contro la ‘tecnocrazia di Bruxelles’ non viene fatta in nome dello svuotamento della democrazia rappresentativa e dell’espropriazione del potere di scelta a comunità e cittadini, ma in virtù dell’interesse nazionale, dell’esproprio di sovranità alla Stato-nazione. Anche se Traverso, per non complicare il tentativo di classificazione e descrizione intrapreso, toglie dal tavolo la parola populista (che racchiude una quantità di fenomeni e accezioni diversi) rimane nell’analisi l’idea di un’impronta cesarista e bonapartista, ad esempio nel fascino che la figura di Putin esercita sulla destra postfascista europea e che Berlusconi ha esercitato per lungo tempo su quella italiana.

Islamofobia e definizione di un campo politico postfascista

Nella seconda parte del dialogo, stimolato dal commento alle vicende francesi segnate dagli attentati di natura terroristica e dal peso dell’esclusione delle popolazioni postcoloniali, Traverso affronta due temi cruciali: il peso dell’islamofobia nella ridefinizione di un campo postfascista e la nozione di “fascismo-islamico”.

Usando con l’accortezza propria di uno storico rigoroso alcune intuizione comparative, nel libro viene indicato un parallelismo tra il ruolo svolto dall’antisemitismo nell’Europa a cavallo tra XIX e XX secolo, e quello svolto ora dall’islamofobia nelle società europee contemporanee:

«Alla fine del XIX secolo l’“ebreo” era diventato una figura metaforica: una parola che indicava una minoranza etnica e culturale che trascendeva la religione, in quanto includeva anche gli ebrei che non frequentavano la sinagoga e che non avevano nessuna identità di tipo religioso. Oggi l’arabo e l’Islam svolgono una funzione analoga. Per l’islamofobo, l’islam è molto di più di una religione: comprende tutta una parte della popolazione francese che, per esempio, non ha necessariamente famigliarità con le pratiche religiose, che rappresenta un islam secolarizzato».

 E ancora con le parole dell’autore:

«Benché nei due casi le differenze siano significative, rimane valida l’analogia generale: oggi l’islamofobia struttura i nazionalismi europei come avveniva per l’antisemitismo nella prima metà del XX secolo».

Traverso, che è autore anche di un libro dedicato a La fine della modernità ebraica (Feltrinelli 2013), riesce a cogliere alla perfezione invece il doppio movimento di cui è stato oggetto l’antisemitismo di fronte a due fenomeni storici di portata enorme: da una parte la Shoah, la cui memoria è diventata religione di stato e fondamento delle democrazie liberali, dall’altra la costituzione dello Stato di Israele. Se da una parte assistiamo a uno spostamento delle simpatie delle destre più o meno estreme per Israele – fenomeno tutto sommato recente, segnato dalla crescente ostilità antiaraba e dalla strutturazione dall’islamofobia – dall’altra troviamo nel discorso antimondialista la permanenze degli stessi caratteri dell’ebreo come quinta colonna, simbolo stesso della globalizzazione, del crollo delle frontiere e di una società multiculturale, longa manus di poteri occulti, che hanno segnato la storia dell’antisemitismo.

 

 

Fascismo-islamico: una definizione valida?

Per quanto riguarda invece la nozione di fascismo-islamico, pur disposto a incasellare il ‘Califfato’ di Daesh sotto l’etichetta di un progetto statuale totalitario, Traverso la rigetta in pieno in virtù di un ragionamento prima di tutto teorico: utilizzare la parola fascismo per descrivere fenomeni culturalmente così distanti, rischia di invalidare la possibilità stessa che la categoria di fascismo (o fascismi) risulti ancora utile, ad esempio per descrivere le forze politiche postfasciste. Il fascismo-islamico sarebbe così solo una riduzione giornalistica e propagandistica, utile – e qui veniamo a una valutazione di carattere più eminentemente politico – all’unità delle forze repubblicane (stando all’esempio francese) contro un nemico così. Unità però che taglierebbe così fuori i francesi figli del processo di decolonizzazione, espulsi così dal corpus di valori di una sorta di religione laica ed escludente.

Ma se la nozione di fascismo-islamico serve a creare un fronte unico di Stato, la cui retorica rischia di alimentare e non di disinnescare la radicalizzazione, l’islamofobia e l’esclusione, dall’altra però questa definizione senza dubbio teoricamente e politicamente imperfetta, può servire a saldare al contrario nuove pratiche antifasciste e antirazziste. Lo vediamo con la solidarietà nata attorno alla battaglia dei curdi siriani, dove la saldatura ideale del fronte di lotta contro Daesh, ha come contraltare nei paesi occidentali la lotta contro le formazioni xenofobe e il razzismo di Stato. Si può così immaginare una nuova grammatica politica e antifascista inclusiva di istanze diverse, in cui ognuno sul proprio fronte combatta la battaglia per una società più giusta e democratica, ecologista e femminista? Un antifascismo e un antirazzismo che si scrollino così definitivamente di dosso le ipocrisie delle liturgie di Stato?