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Antonio Negri, Trentatré lezioni su Lenin
La prima riflessioni di Negri su Lenin risale agli anni ’60, ma il confronto decisivo sono le lezioni tenute all’Università di Padova nel 1972-73, edite poi nell’estate del ‘73. Diamo per scontato che Lenin sia presente nell’intero suo lavoro come metodo e postura di combinazione costante di teoria e prassi, di tattica e pensiero strategico. Lenin ricompare nell’opera del 1992, Il Potere Costituente, posto accanto ad altri autori “antimoderni”, come Machiavelli, Spinoza e Marx, in quanto inventore di una nuova figura del potere costituente, sottratta al ritmo neutralizzante della dialettica e del costituzionalismo e rimessa sul piano di intersezione fra produzione sociale e nuova forma politica.
Le Trentatré lezioni escono quindi nell’anno dell’occupazione di Mirafiori ma anche dello scioglimento di Potere Operaio e della fondazione dell’Autonomia Operaia organizzata. Esse si articolano in tre parti: nella prima Negri si sofferma sulla “dinamica interna” della formazione della teoria politica di Lenin; nella seconda si concentra sul tema dell’organizzazione; nella terza sull’estinzione dello Stato. Evidente è rapporto metaforico con gli avvenimenti paralleli: la teoria autentica si misura e si modifica sempre nella congiuntura, meglio, nella capacità di coniugare prassi politica e prospettiva strategica.
Questo Lenin, sottratto a ogni tentativo di museizzarlo o di trarne una “dottrina” di stampo “marxista-leninista” o bordighista, è anche e soprattutto strappato all’opportunismo del Pci, che operava, per selezioni e scissioni del tutto arbitrarie, di volta in volta interpretando la NEP come un compromesso del proletariato con le forze imprenditoriali, deplorando il Lenin “insurrezionalista”, oppure addirittura leggendo Stato e Rivoluzione quale eternizzazione della macchina statale.
Contro ogni “oggettivismo”, Negri proponeva una lettura marxista del marxismo di Lenin – una lettura anti-ideologica, in quanto assume la “discontinuità del suo referente reale”, il soggetto rivoluzionario, che si costituisce (senza filiazione organica interna) solo in relazione a problemi che di volta in volta si rinnovano. «La composizione di classe viene modificandosi all’interno delle lotte, attraverso i comportamenti soggettivi e attraverso quelli oggettivi». Una posizione che in questo caso collima con quella di Deleuze e in cui il soggetto si definisce sempre entro una combinazione congiunturalmente determinata di composizione tecnica e composizione politica di classe, quindi di bisogni, comportamenti e esperienze di lotta.
Nel “metodo” operaista la scienza non si separa dalla prassi rivoluzionaria, dal rapporto cioè tra organizzazione, programma e invenzione politica: viene così ripensato il rapporto tra tattica e strategia, affidando, la seconda al movimento della classe, e la tattica (solo la tattica!) al partito d’avanguardia. Questo Lenin del ’73 è quindi sottratto ai compagni ex operaisti confluiti nel Pci in nome dell’autonomia del politico, in pratica alla “statalizzazione” dei vari Cacciari, Accornero e Tronti. Il Lenin di Stato e Rivoluzione, che si scagliava contro le letture revisioniste di Marx, vale dunque contro i “revisionisti” dei primi ’70.
Si dice che Lenin, dopo la presa del potere nel ’17, festeggiasse con lo “champagne” quando i giorni della rivoluzione russa superarono quelli della rivoluzione comunarda. Eppure attraverso la riflessione attenta su virtù e limiti della Comune, dunque sulle cause della sua sconfitta, Lenin pervenne alla convinzione che compito dei comunisti è quello di favorire l’estinzione della macchina statale, nel suo ruolo repressivo e di sostegno attivo al modo di produzione capitalistico.
Il Lenin di Negri fa risaltare una pratica “anti-monopolistica” della decisione politica. Qui sta la sua discontinuità con la definizione weberiana di Stato e alla sua divergente diramazione nel “decisionismo” di Schmitt e nel “normativismo” di Kelsen. Rifiuto del monopolio e però capacità di riflettere su forme istituzionali alternative: per Negri la forma politica finalmente scoperta va ricercata nel Soviet e non nel Partito-Stato, valorizzando un modo di produzione alternativo, fondato sul Comune diremmo oggi, rispetto a quello capitalistico. La posta in gioco di ogni lotta sta nel tenere sempre aperto il processo costituente, nel fare della concentrazione del potere la leva per la sua diffusione permanente nelle differenti articolazioni della produzione sociale, cioè nella non separabilità di “lotta economica” e “lotta politica”.
Non ci soffermiamo qui sulle differenti condizioni in cui operò Lenin nel 1917 e i compiti dell’operaismo nel 1973 o addirittura oggi, sul ruolo rivoluzionario e ricompositivo dell’operaio professionale nell’Europa straziata dalla I guerra mondiale e sulla disseminazione sociale del mondo globalizzato odierno, sulla funzione della dittatura del proletariato per rompere il connubio istituzionale di Stato e capitale. La forma-Stato degli anni ‘70 era precisamente lo Stato-piano che si era riorganizzato, proprio per reazione alla rivoluzione russa, nelle strutture del New Deal, costituzionalizzando la violenza e il lavoro salariato, e che cominciava adesso a sfasciarsi – crisi fiscale, crisi di legittimità e di legalità – generando la nuova figura dell’operaio sociale.
Il Lenin che veniva recuperato nel 1973 – e a maggior ragione quello che andrebbe rivalutato oggi, dopo la piena esplicazione neoliberale della crisi dei ’70 – spicca eminentemente per la grande capacità inventiva di nuove forme di organizzazione per superare la scissione tra il sociale e il politico. Il Lenin del Negri di oggi (cioè delle più recenti interviste e più organicamente di Assembly, scritto insieme a M. Hardt) è altrettanto vivente quanto il Lenin del ’73. Un Lenin che contribuisce alla riflessione e alla lotta per il Comune, che non ha più niente a che vedere con il comando dell’avanguardia sulla classe, ma si fa organizzazione del molteplice della classe, dei suoi bisogni e dei suoi modi di vita, in altrettante molteplici forme politiche, organizzative e di lotta. Quello, insomma, che potremmo chiamare oggi federazione dei commons: il soviet di un nuovo modo di produzione fondato sul comune, la federazione stessa come concentrazione diffusiva del potere e del divenire-classe nella sincronica differenza dei tempi storici.