ROMA
Virginia Raggi prepara la città dell’esclusione
Il prossimo 1 dicembre si saprà chi si candida ad accogliere «anche in strutture prefabbricate» 100 famiglie che oggi vivono nelle occupazioni . Prove di trasmissione per i prossimi sgomberi.
Roma via Curtatone. È un giorno di fine agosto: il 19. Numerosi nuclei familiari di richiedenti asilo vengono innaffiati a colpi d’idranti nella piazza sottostante l’edificio che da tempo occupano. Quello stesso giorno il vocabolario della sindaca Virginia Raggi si arricchisce di una parola: fragilità.
Chiamata alle sue responsabilità la sindaca, indifferente a quello che accade, trasforma l’accoglienza dovuta a quelle famiglie in un problema di trasloco. Fa l’elenco delle fragilità da sistemare. Per ora bisogna rimuovere quei tanti corpi e quelle tante storie dalla parte centrale della città. Tutto deve essere essere gettato lontano da lì, dove sono sotto gli occhi di tutti. Soprattutto di chi su quel corpaccione di nove piani ha messo gli occhi e ora vuole metterci le mani. La sindaca sa come procedere.
Così, come si fa con le cose da imballare, decide di non portarsi appresso quelle pesanti che in questo caso per lei sono gli uomini sia singoli che presenti all’interno dei nuclei familiari. Si serve di quella che chiama “fragilità” per cancellare, a riparo di una solidarietà pelosa che offre soluzioni impossibili d’accettare, l’esistenza di chi, in più anni vissuti abitando quelle stanze d’ufficio, ha tentato di ricostruire la propria vita che è fatta dei tanti atti quotidiani importanti. Tra tutti quello di mandare i propri figli nelle scuole vicine.
I richiedenti asilo vanno separati. Anche intervenendo all’interno dei medesimi nuclei familiari. Come si fa per bicchieri e vetri. Da incartare accuratamente e tenere distanti anche se fanno parte dello stesso servizio.
Solo che qui si tratta di persone in carne ed ossa e a essere separati sono gli uomini. Di questi molti sono padri. Per loro c’è la sola solita indicazione: la strada. La storia dello sgombero di via Curtatone, che segna una delle pagine più nere dell’abitare romano, è destinata ora a continuare.
Le medesime procedure, le stesse disinvolte e feroci ipotesi di soluzione (sic!), si vogliono far diventare norma. Prendono la forma della determinazione dirigenziale, l’atto con cui funzionari comunali danno seguito a precisi indirizzi politici.
Alla fine del mese di ottobre dal Campidoglio esce un capitolato speciale di riferimento per, mediante procedura di gara negoziata aperta a cooperative sociali, affidatari dei servizi di accoglienza, organizzazioni umanitarie «sperimentare forme di accoglienza preferibilmente diffusa nel territorio cittadino e nell’area Metropolitana per nuclei familiari che a seguito di eventi contingenti ed urgenti, in ragione delle proprie condizioni di fragilità, sono nell’impossibilità di rintracciare soluzioni alloggiative autonome».
La sindaca Raggi risponde in questo modo alla decisione presa dal Ministero dell’Interno a ridosso delle operazioni militari, di non procedere a sgomberi senza garantire a chi viene cacciato una sistemazione. Lei lo fa preparando, con questa determina, il terreno per attuare quello che il ministro Minniti realmente esige: la liberazione degli spazi occupati nella città di Roma.
Dal dicembre di quest’anno al novembre dell’anno prossimo programma una vera e propria imboscata alla città.
Dice di voler superare l’esistenza dei campi rom e di voler tutelare persone in gravissima condizioni di fragilità. In realtà inaugura una nuova stagione urbanistica: trasformare le operazioni di sgombero in altrettante operazioni di mobilità territoriale. Non trova le case cercandole (requisendole?) nel molto dell’inutilizzato esistente. Non inizia da quelle caserme che aveva detto di voler aprire. Al posto di farlo sui mattoni decide di lavorare su quei corpi.
Con questo provvedimento la giunta Raggi intende trasformare in migranti urbani disperdendoli nell’area della città metropolitana, chi oggi occupa una casa, chi vive nella discarica di campeggi tipo il River sulla Tiberina, chi è ancora murato nelle gabbie dei residence.
In case come quelle che si vogliono raccattare a prezzo di mercato da chi le ha costruite e tenute sfitte o, questa è la nuova destinazione in, testuale, «moduli abitativi, anche prefabbricati». 100 posti in alloggi che case non sono.
Non c’è bisogno questa volta di stare attenti all’imballaggio. Anzi il contrario. Importante è perseguire la rottura delle relazioni sociali e affettive che si creano in ogni comunità, in ogni occupazione. A partire dall’interrompere quelle che quegli abitanti hanno realizzato con le strutture dei quartieri in cui si sono trovati ad occupare immobili abbandonati.
Chi vive da anni in case occupate ha costruito un progetto del suo abitare in quella città che lo ha tenuto ai margini, negandogli ogni diritto. È questo che si vuole interrompere: il fatto che quelle stanze, spesso neanche destinate a residenza, sono diventate case.
Mandarli via, offrendogli un modulo abitativo, in un’area della città metropolitana, lontano da tutto quello che hanno costruito in termini di relazioni e di solidarietà ricevuta, significa distruggere questo progetto incistando una città, che ha un enorme patrimonio abitativo inutilizzato, ancora una volta di campi fatti di strutture temporanee.
Per queste famiglie non c’è una casa. Questo dice il bando, ma l’accoglienza in strutture che, come previsto, offrano il cambio biancheria, il servizio lavanderia, le docce e gli armadietti. E naturalmente anche i prodotti per il trattamento antiparassitari così come recita il capitolato di gara alla voce: descrizione dell’intervento.
Virginia Raggi non cerca case, ma sembra voler riprendere, come accade a Roma da almeno 25 anni, azioni per altro dagli alti costi “operativi”. Non vuole riconoscere che queste famiglie, queste persone che non sempre sono componenti di nuclei familiari, sono semplicemente povere. Lo sono perché hanno perso il lavoro o non lo hanno mai avuto, perché avevano una casa dalla quale sono stati sfrattati.
Quale idea di città c’è dietro la richiesta di questi 100 posti per soggetti fragili? Davvero non hanno nulla da dire l’assessore all’urbanistica o quello alla casa?
La costruzione della città affidata al Dipartimento delle Politiche sociali, immagina moduli disseminati in aree sempre più marginali, ghetti per i poveri, costruzioni delle quali non è possibile neppure definire la tipologia. Si definiscono temporanee.
Si sa bene che staranno lì a lungo a definire l’idea della città dell’esclusione.