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CULT
Era il ’77 a Roma
Al Museo di Roma in Trastevere in mostra fino al 14/01/2018 le foto di Tano d’Amico e i disegni di Pablo Echaurren sul ’77
Una mostra bella, attribuendo a questo termine il suo significato pienissimo.
La fotografia e il disegno: uno stesso momento restituito da due diversi strumenti con cui guardare a una memoria densa e fittissima.
L’immagine può essere più immediata della parola, del discorso. È lì e ci guarda. Comunica impressioni, espressioni, emozioni, fatti e, talvolta, la privazione del discorso, del senso.
Questa mostra è una buona occasione per pensare al ’77 sotto vari punti di vista.
Attiva la memoria e il ricordo di chi quel momento lo ha attraversato e racconta con immediatezza e semplicità a chi non ne ha fatto esperienza.
Non è la successione cronologica a guidare nello spazio espositivo. Sono le emozioni e le storie, l’elastico fra gioia e sofferenza, creatività e azione, disillusione e prospettiva.
Le fotografie di Tano d’Amico sono note a tutti eppure colpiscono sempre come se fosse la prima volta che le guardiamo.
“L’immagine nuova irrompe dagli squarci della storia” ha detto Tano durante un’intervista. È un’immagine splendida. E’ sempre stato così, anche in pittura o scultura, guardando al Medioevo o al Rinascimento e in generale al passato.
L’immagine/realtà nuova spinge contro la superficie con l’urgenza di esprimersi ed esplode nella sua crudezza/purezza. E dunque nuovi soggetti divengono protagonisti di queste immagini. I senza casa, le prostitute, i carcerati, i matti, i lavoratori, le donne.
Dire la verità. Distinguere le parti e narrare l’inquietudine e la forza di chi non obbedisce e sente l’incompatibilità con il potere costituito. Per dirla ancora con Tano “la verità si fa ed è la più bella creazione dell’umanità” perchè la verità non la si racconta ma va cercata e c’è.
Questo muove la scelta: dove puntare lo sguardo, cosa mostrare, come posizionare il proprio corpo in relazione agli altri.
Il formato stretto e lungo di queste fotografie asseconda la narrazione e lascia immaginare lo spazio circostante, oltre l’immagine stessa. Chi guarda entra nell’immagine e partecipa.
E poi c’è Pablo Echaurren! L’accostamento della fotografia al disegno completa lo scorcio sul ’77.
Echaurren, che a ventisei anni era già un affermato artista, esce dai salotti e dalle gallerie per portare avanti un’arte autonoma, collettiva e diffusa: collabora con quotidiani, case editrici, illustra fogli militanti.
“Ho abbandonato l’arte e mi ritrovo […] a parlare sempre di arte, ma è arte diversa. E’ arte in movimento. Senza ambizioni, senza professionismo, libera dalle tensioni dell’affermazione […] Arte che non conosce confini, galleristi, musei, colleghi. Arte che sfugge gli artisti”.
Inizia nel 1973 la collaborazione con il giornale “Lotta Continua” e dal 1976 illustra le copertine dei libri della casa editrice romana Savelli, fra cui la celebre immagine di Porci con le Ali.
Echaurren ha colto la relazione fra arte e politica. L’arte non è per/di pochi, è per/di tutti! Per questo il suo interesse è per generi popolari come il fumetto, un canale alternativo per diffondere le opere e “promuovere una fruizione non elitaria dell’arte”. [1]
Le immagini “a quadratini” mostrano il suo approccio all’arte: molteplici e diversi soggetti frammentati per consentire un accesso multiplo all’opera, generando un ordine caotico dove ogni pezzo compone il filo conduttore. Non c’è gerarchia né monumentalità né celebrazione.
Non a caso si interessa a Marcel Duchamp e Fancis Picabia, al Dadaismo e alle avanguardie.
Duchamp contrappone l’arte ai valori tradizionali e a quelli nuovi, come la sua mercificazione e valorizzazione economica.
Con Echaurren la frattura è politica ed etica e l’arte diviene uno strumento determinante per ribaltare gli equilibri di potere e di relazione.
L’arte può stupire, spaventare, far ridere, sfuggire! È immediata e fruibile e i suoi temi sono la nostra stessa quotidianità, i rapporti umani, il diritto al piacere, alla libertà e alla gioia.
“Fuori dalle riserve, non sotterreremo mai più l’ascia di guerra. Augh! La stagione delle grandi piogge sta finendo: i colori della natura stanno emergendo, per spazzare via il grigio e la noia, il freddo e la paura dei nostri corpi… Fuori dalle riserve! Intoniamo il nostro grido di guerra. I nostri Tam Tam suonino sempre più forte per raccogliere tutta l’area creativa del movimento”.
Così recita il manifesto degli Indiani Metropolitani, frangia romana di un movimento nazionale cui Echaurren aderisce nel ’77.
Il movimento recupera simboli della tradizione degli indiani identificandosi con la storia di un popolo sterminato dai bianchi. [2]
Echaurren prende le immagini dei fumetti di indiani e cowboy, molto popolari all’epoca, e interviene inserendo slogan politici del movimento.
Emblematico è “Oask?!”, il giornale legato al gruppo romano di indiani metropolitani. Un’affermazione? Una domanda? Un’esclamazione? Un dubbio?
I testi sono collettivi, l’andamento è caotico, discontinuo e frammentato; la grafia a mano dà importanza alla soggettività e personalizza.
Nel tempo Echaurren si distacca da una parte del movimento e si estranea da alcuni aspetti violenti che attraversano quegli anni.
“Ma sì, restiamo poesia, pura immaterialità…” [3]
L’identità è dinamica e proprio questa sua caratteristica consente di non essere riassorbita in fenomeni cristallizzati e stereotipati.
“Ci va stretta ogni de/finizione. Anche “indiani metropolitani è uno schema scemo, uno stereotipo, un dagherrotipo […] L’identità la cambiamo ogni mattina quando ci svegliamo, la gettiamo via ogni sera quando ci addormentiamo. Non ci assoggettiamo. Amiamo. Questo è il nostro modi di essere autonomi, di tessere la nostra storia, la nostra preistoria (ancora aspettiamo che ci spuntino le ali)”. [4]
[1] Raffaella Perna in Il Piombo e le Rose. Utopia e creatività nel Movimento 1977, AAA, Postcart 2017
[2] Ibid
[3] Pablo Echaurren, Maurizio Gabbianelli, Carlo Infante, “Materiali”, ottobre 1977
[4] Da Pablo et, 1977