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Venezia Salva: Speciale Festival2017
DINAMOpress è stato al Festival di Venezia 2017 dal 30 agosto al 9 settembre, per osservare cosa si muove nel festival del cinema.
E per rispondere a una domanda: c’è ancora qualche forma di vita (vera) sotto il red carpet? Abbiamo inaugurato una sezione più stabile nell’area Cult, intitolata VENEZIA SALVA. Ecco la raccolta di recensione di alcune delle anteprime che abbiamo visto al Lido.
«Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri», sosteneva Godard leggendo Bazin, e prestandogli la voce, aprendo Le mépris. Il problema è stabilire di che desideri si tratti.
Il Festival del Cinema di Venezia ha una lunga storia piena di contraddizioni: è stato uno strumento di propaganda di stato durante gli anni del fascismo così come in tempi più recenti uno degli artefici di una politica degli eventi culturali che sarebbe dovuta servire alla rigenerazione degli spazi urbani della laguna. La realtà è che questi eventi culturali mainstream sono spesso molto più funzionali alla rendita finanziaria del capitale turistico che alle persone che abitano la città. È possibile dunque pensare che il festival cinematografico più antico del mondo – la prima edizione si tenne addirittura nel 1932 all’alba del cinema sonoro – possa essere uno spazio reale di produzione e diffusione culturale dove fare inchiesta” di questi desideri? O invece è ormai diventato solo una kermesse di titoli delle grandi major messi a disposizione di un’operazione di branding turistico?
In ogni caso il festival cinematografico di Venezia è un’eccellente occasione per provare a ragionare pubblicamente e collettivamente su un’ipotesi che molti di noi condividono: film e serie Tv sono un terreno di descrizione e modificazione della realtà, di scontro simbolico di cui non può sfuggirci la valenza politica. Sta a noi, spettatori e fruitori critici cercare di trovare un modo “di parte” per leggere la produzione cinematografica di oggi e le sue contraddizioni.
La rubrica che DINAMOpress dedicherà da oggi al Festival, che inaugura una sezione più stabile nell’area Cult, si intitola VENEZIA SALVA. Ruba il titolo dal dramma incompiuto di Simone Weil, in cui protagonista Jaffier partecipa a una congiura per distruggere Venezia (1618) in nome di una logica di sopraffazione e potenza, e poi preso dalla compassione “vede”, di colpo, la fragile bellezza di quanto sta per mandare in rovina, tradisce i compagni e si sacrifica lui stesso per sventare la congiura. VENEZIA SALVA è una buona metafora della resistenza, dell’organizzazione, del rapporto tra potere e bellezza. E soprattutto del modo in cui i conflitti emergono e si esprimono anche sul terreno delle immagini in movimento.
#Prima Tappa: This is the end
di Pietro Bianchi
Recensione del film Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli dal primo giorno del Festival di Venezia 2017.
In questi anni Ottanta silenziosi, dove sono assenti le scene di massa (proprio perché le masse sono “uscite dalla scena della storia”), dove anche in un’esperienza collettiva come quella dei concerti pare che si stia sempre da soli, il film della Nicchiarelli trova il suo mood migliore. E lo fa naturalmente indovinando la parte più importante di un film a tema musicale, che sono le scene dei concerti. Del film infatti ci rimane in mente una stupenda versione punk di My Heart is Empty a Praga o una geniale Nibelungen girata alla Reichsparteitagsgelände di Norimberga, l’area dei raduni del partito nazista: due momenti che paiono incarnare la sintesi perfetta di questo no future anni Ottanta deprivato di ogni climax, di ogni deflagrazione estetizzante, di ogni chiusura significante.
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#Seconda Tappa: Il flusso ingovernabile
di Tania Rispoli
“Governare i flussi è di sinistra, aumenta la sicurezza” – proclamò Minniti a Ferragosto.
Due testimonianze filmiche in materia L’ordine delle cose di Andrea Segre e Human Flow di Ai Weiwei dal secondo giorno del Festival di Venezia 2017.
Come si raccontano le migrazioni dal punto di vista dell’ideologia (e quindi del cinema che è parte dell’apparato ideologico oltre che a volte strumento critico)? Sostanzialmente in due modi: o trattando i rifugiati e i migranti come un pericolo che occorre controllare, domare, respingere oppure come gli ultimi della terra, i diseredati, che bisogna accogliere nel rispetto degli astratti “diritti umani”. In entrambi i casi i migranti non sono dei soggetti, ma un insieme di corpi senza storia e senza voce, inquadrati come un gregge, una massa, una popolazione.
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#Terza Tappa: I terremotati di Amatrice e le case degli “altri”
di Ambra Lancia
Parliamo di due cortometraggi molto diversi Casa d’altri e Il legionario, ma entrambi toccano da punti di vista differenti la questione abitativa in Italia. […] Più di un anno dopo, le parole continuano ancora, inesorabilmente a perdere significato, i terremoti con meno di 4 magnitudo uccidono e distruggono intere cittadine, le case nei luoghi sismici vengono costruite con la sabbia. Ora pubblicamente non ride più nessuno, capo chino e via alla prossima tragedia che ruberà la scena alla precedente. Le villette a schiera, tanto, ci sono (più o meno) per tutti, pazienza se la ricostruzione di fatto non è mai veramente ripartita ad Amatrice, pochi i centri di supporto anche emotivo e psicologico presenti, il centro della città ancora chiuso e l’inverno di nuovo alle porte.
[…] Il cortometraggio di Hleb Papou (classe 1991, nato in Bielorussia), Il legionario cerca di condensare in tredici minuti una parte di queste premesse concettuali sovraesposte. Anche qui la “casa degli altri” è protagonista della narrazione filmica. E gli altri sono, in questo caso, 21 famiglie occupanti una palazzina sotto sgombero, nella periferia romana.[…] Gli edifici abbandonati, votati alla rendita, baluardo della speculazione edilizia su cui è stata fondata la Repubblica italiana sono sempre case (vuote) di altri. Nel frattempo continuano gli sgomberi sempre più violenti, lo abbiamo visto recentemente anche il 19 agosto nell’ occupazione abitativa tra via Curtatone e Piazza Indipendenza, che ospitava dal 2013 circa 1000 rifugiati.
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#Quarta Tappa: L’inattualità del comunismo
di Pietro Bianchi
Robert Guédiguian, figura storica del cinema francese di sinistra ritorna a Venezia con La Villa, un film personale e politico che racconta senza nostalgie i bilanci esistenziali di tre fratelli ex-sessantottini durante gli ultimi giorni di vita del padre. […] Non è facile fare un film dove si tengono insieme la finitudine della coscienza del tempo che passa e l’infinitezza dell’idea di cambiamento del reale. È possibile pensare ancora alla trasformazione del mondo in cui si vive quando quell’idea di cambiamento è ormai ridotta all’infermità? È possibile lottare ancora per la trasformazione di questo mondo quando si è così vecchi che non si ha più la forza di “ballare” né di rincorrere i giovani di oggi? Guédiguian vince questa scommessa perché fa quello che ha sempre fatto al cinema: sa che per parlare dell’infinito del comunismo sotto forma di immagini in movimento bisogna tradurlo in una forma finita di vita, in un dispositivo esistenziale, in un corpo.
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#Quinta Tappa: Ex libris
di A. I.
In primo luogo per la fisicità della biblioteca: sedi decentrate nei principali quartieri, consistenza dei depositi di libri, periodici, immagini, efficienza dei servizi di consultazione, prestito e assistenza, facilitazione all’accesso elettronico. […] Ma non di questo vogliamo parlare, piuttosto del ruolo che le biblioteche svolgono a New York questo è l’obbiettivo di Wiseman, che suole documentare la vita e la prassi delle grandi istituzioni americane: positivo in questo caso, come critico era l’approccio verso la polizia di Kansas City nel suo famoso Law and Order (1969). E lo fa citando Toni Morrison, per cui le biblioteche pubbliche sono i pilastri della democrazia: non solo archivi agevolmente consultabili, ma proprio centri di diffusione del sapere, dell’educazione e del dibattito, grandi istituzioni complementari del lavoro accademico, scolastico e para-scolastico, luoghi di attiva vita comunitaria e di politica di prossimità, al limite dei nostri centri sociali talora. La mente collettiva della città, il suo general intellect materializzato in schede, vetro e cemento, stanze e persone riunite che prendono la parola.
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#Sesta Tappa: La frontiera australiana
di Tania Rispoli
Come nasce il diritto? Carl Schmitt avrebbe detto secondo un atto originario di conquista, spartizione e produzione in un certo spazio. Warwick Thornton ha mostrato in immagini l’applicazione pratica di questo principio nel Nord dell’Australia nel suo ultimo film, Sweet Country, presentato in concorso a Venezia. La storia, ripresa da fatti realmente accaduti, è ambientata nel 1929 ad Alice Springs (località di nascita del regista e dello sceneggiatore David Tranter, entrambi di ascendenza aborigena), in una terra di mezzo contesa tra nuovi colonizzatori e nativi. […] Non è un caso che Thornton – che fa parte di una lunga serie di registi australiani che si interrogano sul rimosso aborigeno a partire da casi di violenza e discriminazione – scelga un western esteticamente raffinato per spiegare la nascita del diritto in Australia come confisca e conquista, con la specificazione che l’appropriazione avviene, prima ancora che sulla terra, sui corpi. Delle donne prima degli altri. E lo fa mostrando non solo l’originarietà ma anche l’ineluttabilità della violenza, usando con maestria la tradizione orale aborigena per cui le storie non solo scavano nel passato ma anticipano il futuro.
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#Settima Tappa: La vita in comune
di Giansandro Merli
Edoardo Winspeare ritorna nelle sale, tre anni dopo “In grazia di Dio”, con “La vita in comune”. Il film è ambientato a Disperata, che sulle mappe ufficiali si chiama Depressa, e racconta alcuni personaggi del paese salentino con uno sguardo che è allo stesso tempo iperreale e fiabesco. […] A chi decide di porre troppa attenzione alla trama, il film può anche non piacere. Non è quello il suo punto di forza. Già il titolo allude a una triplice ambiguità che confonde la definizione dell’oggetto narrato. A cosa si riferisce, infatti, quel “in comune”? Forse a un’unità amministrativo-geografica composta da strade, piazze, edifici? O agli uffici che quell’unità dovrebbero governare? Oppure al fatto che oltre i mattoni, l’asfalto, le norme e la burocrazia, gli spazi abitati sono sempre composti da desideri, amori, conflitti vissuti in una dimensione collettiva? […]
Nel Salento di oggi – tra Twiga, gasdotti e trivelle – questo sì che sembra un mondo irreale. Sembra una favola che, fuori dal film, è una favola triste, con un finale apparentemente già scritto. Eppure, dentro e fuori lo schermo, c’è ancora spazio per un imprevisto spiraglio di speranza. Un pizzico di follia, un altro di passione e un terzo di magia, possono darle la forma di uno zoo e di un’arca di salvezza. Oppure quella di una barricata tra gli ulivi.
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